1° ITINERARIO - RIONE I MONTI (prima parte)

gennaio 04, 2021

Totale del percorso Km 4,2      Questa la mappa

È il primo e più vasto rione di Roma, e nei secoli passati, quando a capo di ogni rione veniva scelto un “caporione”, quello di Monti aveva anche il privilegio di far parte del Magistrato Romano, ed era chiamato Priore dei Caporioni. Veniva scelto dalle famiglie più nobili, ed in seguito, direttamente dal Papa. Supportato da alcuni cittadini del rione stesso, esercitava un’attività di controllo dell’ordine pubblico. Il nome del rione si riferisce ai tre colli che sono compresi nei suoi confini: Esquilino, Viminale e parte del Quirinale. La mia visita a questo rione si svolgerà in due parti, data l’estensione dello stesso e l’enorme patrimonio storico-artistico che comprende. Scelgo come punto di partenza la Piazza Santa Maria Maggiore, e mi siedo sui gradini della fontana ad ammirare la splendida facciata della Basilica.
E qui iniziamo la prima leggenda: "correva l'anno 252, primi giorni di agosto, quando papa Liberio ebbe in sogno la visione della Madonna, che gli indicava di costruire una chiesa nel punto dove il mattino seguente si sarebbe verificato un evento inconsueto. Lo stesso sogno venne fatto anche da Giovanni, un patrizio romano che, in accordo con la moglie, non potendo avere figli, aveva deciso di donare i propri beni per la costruzione di un tempio dedicato alla Madre di Dio, ma non era ancora riuscito a trovare un sito adeguato per accoglierlo. La mattina del 5 agosto, la notizia è sulla bocca di tutti i romani: sulla sommità dell'Esquilino è caduta la neve! neve ad agosto! Papa Liberio e l'anziana coppia accorrono sul posto e capiscono che è quello l'evento inconsueto annunciato loro dalla Vergine e dunque quello era il luogo destinato ad accogliere la splendida basilica di Santa Maria Maggiore." Peccato che studi recenti hanno però dimostrato che la parte più antica dell'attuale basilica risale al V sec., al tempo di Sisto III (432-440) e quindi probabilmente la primitiva basilica liberiana doveva sorgere in un altro punto dell'Esquilino. Ma in fondo alla loggia della facciata settecentesca, la poetica tradizione del sogno di Giovanni e di papa Liberio continua a vivere nel racconto che Filippo Russuti agli inizi del XIV secolo narrò con le tessere scintillanti dei suoi mosaici. Ogni anno, la sera del 5 agosto, davanti alla Basilica, prende vita uno straordinario spettacolo: ospiti illustri, scenografie stellari, giochi e teatri di luce, proiezioni di immagini e fluorescenza lunare nella piazza. Un crescendo di grande suggestione fino ad arrivare al momento clou: alla mezzanotte è Miracolo della Neve a Santa Maria Maggiore; i candidi fiocchi discendono dal cielo e imbiancano il suolo per uno spettacolo davvero unico e imperdibile.
Ancora seduta sui gradini della fontana, alzo gli occhi al cielo e sulla mia testa svetta la colonna, unica superstite della Basilica di Massenzio al Foro Romano, che ebbe anche il nome di Tempio della Pace. Anche qui secondo un’antica leggenda “tale tempio sarebbe durato fino a quando una vergine avesse avuto un bambino. Il suo crollo sarebbe dunque avvenuto alla nascita di Gesù. E da ciò che resta delle antiche strutture, sempre secondo la leggenda, la notte di Natale si sente ancora cadere qualche pezzo!” Sulla sua sommità Paolo V volle porvi la statua bronzea della “Vergine con bambino”.Prima di entrare uno sguardo e qualche parola sul bellissimo campanile: è il più alto della città con i suoi 75 metri, costruito per volere di Gregorio XI al suo ritorno a Roma da Avignone, ed ha, anche lui, la sua bella leggenda da raccontare; una delle sue antiche campane (oggi conservata in Vaticano) era detta “la sperduta” “in ricordo di una giovane pellegrina, la quale recandosi a Roma a piedi, nel XIV secolo, si perse nella notte alla periferia della città, nella zona dell’attuale via dei Cessati Spiriti, allora praticamente deserta. Preoccupata ella si raccomandò con fervore alla Madonna, e subito udì una campana che suonava, seguendo quel suono raggiunse ben presto la Basilica, sana e salva.” Ed ora entriamo! 
Si prova una viva impressione nel vedere la sua vastità, lo splendore dei suoi marmi e la ricchezza della decorazione: il soffitto a cassettoni eseguito da Giuliano da Sangallo, che vi impiegò le lamine del primo oro giunto dall'America appena scoperta e donato al papa Alessandro VI dal re Ferdinando e dalla regina di Spagna; il pavimento cosmatesco, dono dei cavalieri Scoto Paparone e suo figlio, risalente al 1288; gli splendidi mosaici della navata centrale, che rappresentano a sinistra storie di Abramo, Giacobbe e Isacco, a destra storie di Mosè e Giosuè, fino ad arrivare all'abside decorata con ricchi mosaici realizzati da Jacopo Torriti (Incoronazione di Maria e Storie di Maria), datati 1295.La basilica è divisa in tre navate da due file di colonne sulle quali corre un'artistica trabeazione, interrotta verso l'abside da due arcate realizzate per la costruzione della Cappella Sistina (a destra), voluta da Sisto V (da non confondere con la cappella Sistina del Vaticano) e della cappella Paolina (a sinistra), fatta edificare da Paolo V Borghese.
Ma quello che più mi emoziona quando entro in questa Basilica è il pensiero che alla destra dell’Altare maggiore, sotto una semplicissima lastra tombale sulla quale è scritto “nobile famiglia Bernini qui aspetta la Resurrezione”, riposa una dei più grandi artisti del ‘600, sicuramente quello che amo incondizionatamente più di chiunque altro: Gian Lorenzo Bernini. Nella Cappella Paolina si custodisce la Sacra Immagine della Madonna più cara ai Romani, la "Salus Populi Romani" (la "Salvezza del Popolo Romano"). 
Il suo nome deriva dalla consuetudine di portarla in processione per le vie romane per scongiurare pericoli e disgrazie, o per porvi fine, come nel caso delle pestilenze. Nella cripta della Cappella Sistina si conservano alcune figure del celebre presepio del 1291 di Arnolfo di Cambio. In origine esse erano certamente di più, ma oggi sono soltanto sei: san Giuseppe, i tre Re Magi, il bue e l’asinello, mentre il gruppo scultoreo raffigurante la Vergine che stringe al seno il Bambino è opera del tardo Cinquecento.Un’altra preziosa reliquia si trova nella Basilica: alcuni parti della culla-mangiatoia ove fu posto Gesù appena nato, conservate in un'urna di argento e cristallo, opera di Giuseppe Valadier, presso l'Altare della Confessione, dinanzi vi è la statua di Pio IX raccolto in preghiera.
Dopo aver osservato, ammirato e letto qui quanto più possibile su questa meravigliosa basilica, esco e giusto il tempo di attraversare la piazza, mi ritrovo immersa in un’altra meraviglia romana: la Basilica di Santa Prassede. E’ quasi difficile notare questa chiesa, se non se ne conosce l’esistenza, perché la sua facciata non è visibile dalla strada. L’entrata principale, in realtà, è attraverso un antico protiro, con volta a botte romanica, situato lungo via di S. Martino ai Monti, che immette, dopo una lunga scala, in un cortile nel quale si erge la semplice facciata in mattoni della chiesa.
Ma questo ingresso su strada è di solito chiuso e si accede alla chiesa da un portone laterale su via di Santa Prassede. La basilica è dedicata alla Santa che con la sorella Pudenziana, fu martirizzata durante il II sec. d.C. Figlie del senatore Pudente, discepolo di San Paolo, fra i primi ad essersi convertito alla religione cristiana, le due sorelle sarebbero state uccise perché dedite a dare sepoltura ai martiri delle persecuzioni di Antonino Pio, nelle catacombe di Priscilla, site sulla Via Salaria, le stesse dove saranno sepolte anche loro, finchè nel nell'817 papa Pasquale I decide di traslare le spoglie di alcuni santi uccisi sotto l’impero romano, tra cui quelle delle due sorelle Prassede e Pudenziana. La chiesa fu fondata dallo stesso papa, sull'antico "titulus Praxaedis" della fine del V secolo, per accogliere le ossa dei martiri sepolti nel cimitero di Priscilla. Appena entrata resto a bocca aperta: il catino absidale, l’arco absidale e l’arco trionfale sono interamente decorati a mosaico, con raffigurazioni tratte dall'apocalisse e una rappresentazione del cristo attorniato dai Santi e dal committente, papa Pasquale I.
Splendidi gli affreschi alle pareti con “Storie della Passione”, figure di “Apostoli” sui pilastri, puttini e festoni, opere di vari autori dei primi del XVII secolo. Al centro del pavimento un disco di porfido copre un pozzo, ove, secondo la leggenda, Santa Prassede raccoglieva i resti ed il sangue dei martiri. Ma ciò che lascia letteralmente senza fiato, è la cappella di San Zenone, che papa Pasquale I ha eretto come sacello funerario per la madre Teodora. E’ completamente ricoperto di mosaici su fondo oro, in stile bizantino, raffiguranti un giardino del Paradiso.
La volta è decorata con un mosaico raffigurante un Cristo all'interno di un medaglione sorretto da angeli e contornato da un cielo dorato. Sulle pareti interne si trovano figure di San Pietro e Paolo, di Santa Prassede e Santa Pudenziana. In una nicchia della cappella, all'interno di una teca in bronzo, è conservata la terza parte della Colonna della Flagellazione, arrivata a Roma nel 1223 a seguito delle guerre che i crociati avevano sostenuto in Terra Santa. Come mia abitudine, mi siedo su una panca, e leggo più notizie che posso su questo posto meraviglioso. Se anche voi volete saperne di più cliccate qui. Quando penso di aver visto tutto esco e a questo punto attraverso tutta la piazza nella sua lunghezza dirigendomi verso la via Urbana a visitare la chiesa dedicata alla sorella di Prassede, Pudenziana. Appena attraversata via Cavour, mi volto per dare un ultimo sguardo alla basilica di Santa Maria Maggiore, alla sua parte posteriore, in piazza Esquilino, dove affaccia l'abside con una bella scalinata e dove svetta al centro un obelisco di granito alto 14,75, di cui non si conosce la data né la provenienza, essendo sprovvisto di geroglifici.
La Chiesa di Santa Pudenziana è una delle più antiche chiese paleocristiane di Roma. Secondo la tradizione, fu fatta costruire nel 145 da papa Pio I nel luogo dove sorgeva la casa del senatore Pudente, su richiesta delle figlie Pudenziana e Prassede, in ricordo dell’ospitalità che vi ebbe S. Pietro, che avrebbe dimorato sette anni nell'abitazione dell'amico e che qui fondò una comunità cristiana.  Abbiamo documenti, infatti, testimonianti il fatto che “i discendenti di Pudènte, senatore romano convertito alla fede cristiana dagli Apostoli Pietro e Paolo, nel 154, donarono al Papa Pio I la casa del loro padre, dato che vi soggiornarono gli Apostoli Pietro e Paolo.” Ovviamente all’inizio si parla di “titulus Pudentis”, cioè una domus ecclesiae, primi luoghi di riunione e di culto dei cristiani, all’interno di abitazioni private; e i resti del Titulus Pudentis, sono ancora presenti a circa 9 metri sotto il livello della chiesa attuale, anch’esso comunque molto più basso rispetto al piano stradale attuale. Della primitiva costruzione però poco o nulla rimane; quello che si vede appartiene ai rifacimenti ordinati da papa Siricio (384-399).
Per accedere alla Basilica ci sono due rampe di scale laterali da scendere che offrono una bellissima visuale della facciata. Tra due lesene modanate ed un timpano arricchito da una ricca cornice stanno due bifore ornate dalle teste di Pudente e del presbitero romano Pastore. Il portale è inserito fra due belle colonne antiche scanalate, e una meravigliosa trabeazione con un fregio floreale e clipei nei quali sono inserite le figure dell'Agnus e dei SS Prassede, Pastore, Pudenziana e Pudente. L'interno è ad unica navata con delle cappelle laterali, fra cui la bellissima Cappella Caetani, ricca di pregevoli stucchi e preziosi marmi, e qui una leggenda: costruita sul luogo originario di culto della casa di Pudente, “sul gradino dell'altare custodisce un'impronta di un'ostia che vi restò impressa, cadendo dalle mani di un sacerdote scettico sull'Eucarestia”. Ma la cosa straordinaria in questa chiesa è il mosaico absidale. E’ il più antico mosaico absidale realizzato all'interno di una chiesa cristiana, ipotesi questa confermata da recenti studi legati al restauro del 2000, che lo datano indubitabilmente fra il 410 e il 417, e non al VIII-IX secolo, come riportano ancora alcune vecchie guide. Rappresenta Cristo tra gli Apostoli (dieci, perché due di essi sono stati eliminati, sembra, nel 1588 dal cardinale Enrico Caetani per ricavarvi, nella stessa chiesa, gli ornamenti della suddetta cappella). Cristo tiene in mano un libro nel quale si legge “Dominus Servator Ecclesiae Pudentianae”, cioè “il Signore ha salvato la chiesa di Pudente”, riferito sicuramente al fatto che l’edifico sacro non venne toccato dai Visigoti di Alarico, durante il sacco del 410. Il mosaico probabilmente fu commissionato come divulgazione al popolo del contenuto dell'opera "La Città di Dio" di S.Agostino, scritta in quel periodo, ed a consolazione dei cristiani romani, sconvolti dall'evento.
Sant'Agostino metteva a confronto i concetti della Città dell’Uomo, caduca, con la Città di Dio, con il Cristo seduto sul trono imperiale di Costantino, quindi nuovo “Imperatore del Mondo” circondato dagli Apostoli vestiti da senatori e dunque Nuovo Senato di questa Città. Probabilmente, era questo il messaggio che il mosaico di Santa Prassede voleva trasmettere ai cristiani di Roma. Cioè che alla crisi della civiltà romana e della Città Eterna si sarebbe sostituito l’eterno splendore della Città di Dio. Per chi è curioso come me e vuole saperne di più consiglio questa lettura. Uscita dalla chiesa, percorro la via Urbana dirigendomi verso Piazza della Suburra, dal nome del popolare quartiere dell’antica Roma situato sulle pendici dei colli Quirinale e Viminale fino alle propaggini dell'Esquilino. Il nome suburra, dal latino sub-urbe, “sotto la città”, sta ad indicare la parte bassa della città rispetto al nucleo originario sopra il Palatino. Entra a far parte dell’area urbana della Roma antica quando il Re Servio Tullio la sceglie come propria residenza. Era la zona più autentica e popolare dell’Urbe, affollata, sporca, rumorosa e soprattutto pericolosa, anche a causa dei numerosi incendi e crolli che coinvolgevano le insulae, gli edifici a più piani dove vivevano ammassate un gran numero di famiglie plebee in affitto. In questa zona si trovavano i bordelli più malfamati, le bettole e le locande più insicure. Giulio Cesare nacque nella Suburra, mentre la tradizione dice che vi si recava Nerone travestito per captare gli umori del popolo, e Messalina, anche lei in incognito, alla ricerca di ogni trasgressione.
Dalla piazza continuo su Via Leonina per girare poco dopo a sinistra e percorrere la salita dei Borgia, attraversare la via Cavour e trovarmi di fronte ad uno degli angoli per me più suggestivi di Roma: la scalinata dei Borgia in via S. Francesco da Paola. E pensare che questo stesso luogo era chiamato Il “vicus sceleratus” ossia “vicolo scellerato”, per via della cupa vicenda di Tullia, figlia del re di Roma Servio Tullio, che secondo quanto racconta Tito Livio, per favorire l’ascesa al trono del suo amante e in seguito marito Lucio Tarquinio (poi Tarquinio il Superbo), avrebbe fatto assassinare sia i rispettivi consorti, che il padre, passando poi sopra il corpo di quest’ultimo con un carro, proprio sul vicolo incriminato. Il bel palazzetto che abbiamo di fronte, con il caratteristico balconcino, sembra sia appartenuto alla famiglia di papa Alessandro VI Borgia, il papa che con la sua amante Vannozza Cattanei, mise al mondo ben quattro figli fra cui i famosi Cesare e Lucrezia. In realtà non ci sono fondamenti storici che accreditano il palazzetto come appartenente alla famiglia Borgia: forse l'arco sulla gradinata, che crea un ambiente oscuro, carico di mistero, ha alimentato fantasie di intrighi ed assassini molto comuni e frequenti nella famiglia BorgiaPassando sotto l’arco, nel salire l’ultima parte della scalinata, si ha l’impressione di essere catapultati indietro nel tempo, in quella torbida, ma comunque affascinante, Roma del passato.
Si arriva così in piazza San Pietro in Vincoli, davanti all'omonima basilica, e spieghiamo subito le origini del nome. Vincoli dal latino “vincula” significa “catene” e si riferisce proprio alle catene con cui San Pietro venne tenuto prigioniero a Gerusalemme e a Roma. Secondo la tradizione Elia Eudocia, madre di Eudossia, e moglie dell’imperatore d’Oriente Teodosio II, ebbe in dono, durante un viaggio in Palestina nel 442, la preziosa reliquia dal Patriarca di Gerusalemme. L’imperatrice inviò le catene alla figlia Licina Eudossia, la quale le diede in dono a Papa Leone I, detto anche Leone Magno.  Secondo la leggenda, il papa volle confrontare le catene ricevute in dono, con quelle già possedute dalla Chiesa, con le quali San Pietro era stato tenuto prigioniero nel Carcere Mamertino, e non appena accostò le due catene avvenne qualcosa di incredibile: si fusero l’una con l’altra tanto fortemente da non poter essere più separate. Fu così che il pontefice fece costruire, con l’aiuto dell’imperatrice stessa, una basilica dove poter conservare la preziosa reliquia che è tuttora visibile custodita sotto l’altare.
Entro in chiesa, l’interno è a tre navate divise da colonne a capitello dorico; bella, elegante, con il soffitto a cassettoni impreziosito da un affresco raffigurante il miracolo delle catene. Nelle navate laterali ci sono una tela del Guercino e due ritratti probabilmente del Domenichino, ma l’attrazione principale della chiesa è nel transetto di destra, ed è il capolavoro di Michelangelo: il Mosè, la colossale statua posta al centro del mausoleo che doveva essere la tomba di papa Giulio II Della Rovere.
In realtà il progetto originale era molto più grande e destinato alla Basilica di San Pietro. In seguito, però il papa, completamente assorbito dalla ricostruzione di San Pietro, accantona l’idea del mausoleo e il progetto venne considerevolmente ridimensionato e si ridusse a un monumento composto unicamente da sette statue, di cui solo tre ad opera di Michelangelo. Intorno a questo capolavoro ci sono numerose leggende e aneddoti: “si narra che un giorno Michelangelo, rimirando con soddisfazione la sua statua, e convinto che all’opera mancasse solo la parola, se ne uscì con un categorico: ”Parla!”. Adirato per non aver ottenuto risposta, il grande scultore avrebbe reagito colpendo con il martello il ginocchio destro della celebre statua”. Con un po’ di fantasia e buona volontà, si può notare una lievissima linea di frattura sul ginocchio del Mosè, che avrebbe dato origine alla leggenda. Con altrettanta buona volontà e grande spirito di osservazione, “nella barba del Mosè, proprio sotto il labbro inferiore, leggermente a destra, si dovrebbe notare il profilo di papa Giulio II e una testa di donna”.L’ultimo racconto riguarda la visita del gonfaloniere Pier Soderini, “il quale fece subito notare all’artista la…sproporzione del naso di Mosè. Dando l’impressione di apprezzare l’osservazione, Michelangelo, con santa pazienza, prese lo scalpello e il martello e con le spalle rivolte verso “l’esperto” finse di dare alcuni colpi per ridurre il naso, che naturalmente non toccò; “ora va benissimo” esclamò il Soderini tutto soddisfatto!”
Resto a lungo ad ammirare questo capolavoro, e grazie al continuo flusso di turisti che mettono i soldini necessari per accendere le luci, posso godermi l’opera “a sbafo”. Per tutti i particolari leggete qui.
Riprendo il mio “tour” ripercorrendo, in discesa, la salita dei Borgia. Percorro un breve tratto di via Cavour e svolto a destra in via dei Serpenti, ritrovandomi dopo pochi passi in quello che è il cuore del rione Monti: Piazza Santa Maria ai Monti.
Al centro la bella fontana dei Catecumeni, commissionata a Giacomo Della Porta da papa Sisto V nel 1588. In travertino, di forma ottagonale, alterna ai simboli di Sisto V quelli del Popolo Romano, a significare che venne costruita anche con il contributo dell’amministrazione comunale. Curiose le due iscrizioni che vi furono poste a distanza di duecento anni l’una dall'altra a seguito di lavori di restauro eseguiti. La prima nel 1680, dopo i lavori di restauro fatti eseguire da papa Innocenzo XI recita: "IMPERAT UNDECIMUS QUARTO INNOCENTIUS ANNO ET REDIVIVA FLUIT FACTA PERENNIS AQUA", ovvero "Nel quarto anno del pontificato di Innocenzo XI l'acqua, fatta per durare nel tempo, fluisce di nuovo". La seconda nel 1880, dopo un restauro eseguito dal Comune di Roma, recita: "FACTA PERENNIS AQUA EVERSO SED SQUALIDA FONTE NUNC INSTAURATO VIVIDA FONTE SCATET SPQR A MDCCCLXXX", ovvero "L'acqua, fatta per durare nel tempo ma squallida per la fonte rovinata, ora, dopo il restauro, zampilla vigorosa SPQR Anno 1880". La piazza prende nome dalla Chiesa di Santa Maria ai Monti (o Madonna dei Monti). Qui la leggenda racconta che “Nel luogo in cui sorse la chiesa vi era un antico monastero del XIII secolo che ospitava una comunità di Clarisse, poi trasformato in case di abitazione, e con un locale che fungeva da fienile. Un giorno di aprile del 1579 alcuni operai, intenti a demolire un muro del fienile, udirono una voce che pregava di non far male al bambino: stupiti, gli operai tolsero i mattoni con le mani e fu così che ritrovarono un bellissimo affresco rappresentante la "Vergine con il Bambino".
La notizia comincia a diffondersi per la città, e molte persone accorsero sul luogo che divenne una sorta di meta di pellegrinaggio, anche per via delle numerose guarigioni miracolose che si andavano verificando, tanto da convincere il papa Gregorio XIII a incaricare l’architetto Giacomo Della Porta della costruzione di una chiesa dove poter custodire l’immagine miracolosa della Vergine con il Bambino.
Anche questa chiesa è un piccolo gioiello realizzata con uno stile tra il rinascimentale ed il barocco, e si erge maestosa, con un grande portale che invoglia i viandanti ed i fedeli ad entrare. L'interno della chiesa è a croce latina ed a navata unica, nella quale si aprono alcune cappelle laterali. Sull'altare maggiore, opera del Della Porta, è custodita la miracolosa immagine della Vergine con il Bambino più conosciuta come Madonna dei Monti.  Mi incuriosisce però, sul lato sinistro, un monumento funebre, con tanti bigliettini gettati dai fedeli di richiesta grazia o di ringraziamento per grazia ricevuta.
E’ la tomba del santo francese Benoit-Joseph Labre,  (Benedetto Giuseppe Labre) detto il “vagabondo di Dio” che morì nel 1783 fuori della chiesa. Era un pellegrino vagabondo che predicava il Vangelo con l'esempio di un'umiltà e povertà estreme. Un barbone senzatetto dei nostri giorni. Viaggiò per visitare i più famosi santuari in Europa, facendo pellegrinaggi in Germania, Francia, Spagna e Italia, percorrendo, si dice, in soli 14 anni, fino a 30.000 chilometri. Arrivò a Roma, dove si fermò stabilmente dormendo sotto le arcate del Colosseo e veniva chiamato il “pellegrino della Madonna”. Quando morì, al suo funerale partecipò un numero elevato di persone, di ogni ceto, e iniziò presso la sua tomba, nella chiesa, una sorta di incessante pellegrinaggio. Altre cose che non ho scritto le trovate qui
Uscita dalla chiesa mi volto sulla destra e non posso fare a meno di notare là, letteralmente in mezzo alla strada, un isolato di case medievali avvolto nell'edera, e penso a quale fortuna sia stata che questo luogo, carico di fascino, si sia conservato come in una bolla di sapone, resistendo contro tutte le trasformazioni urbanistiche e sociali di cui la Città Eterna è stata oggetto nei secoli. Da qui ci si può lanciare in un tour delle vedute migliori delle vie che si snodano a ridosso della chiesa, girando per esempio su via del Garofano e prendere via Baccina che ci proietta verso un paesaggio sui Fori assolutamente inaspettato e maestoso, con i resti del tempio di Marte Ultore, nel Foro di Augusto, visibili dall'Arco dei Pantani.
Cerco di immaginare come doveva essere fino ai primi anni del secolo scorso questa parte di Roma, prima degli sventramenti del regime fascista, per portare alla luce i resti dei Fori Imperiali e costruire la via dell’Impero (oggi dei Fori Imperiali) e un po' mi aiuta questaQui passava l'Argiletum, antichissimo asse di comunicazione tra la Suburra e il cuore del Foro Romano. Immagino il via vai di mercanti, uomini d'affari, politici e gente comune, intenta a dare vita al pullulare frenetico di Roma imperiale. Sicuramente, almeno in questo luogo, la Roma moderna è decisamente più calma e tranquilla di quella antica. L’arco ora è stato chiuso da una cancellata di ferro e offre una meravigliosa veduta sul Foro di Augusto. Costeggio il muraglione di blocchi quadrati di peperino fatto costruire da Augusto per dividere la malfamata zona della Suburra dal suo Foro, diretta verso la Piazza del Grillo; incontro un bel portale ornato da timpano e due colonne: è l'unico superstite, con le due bifore, dell'antica chiesa di San Basilio, dedicata successivamente alla Ss. Annunziatina delle Neofite DomenicaneInizialmente monastero, fu incorporato intorno al 1230 ad una proprietà dei Cavalieri di Rodi e subì grandi opere di ristrutturazioni quando il priore romano dell’Ordine fu Marco Barbo, il nipote di papa Paolo II.
Venne costruita in quell'occasione la splendida loggia a cinque arcate riccamente decorata, da dove il pontefice si affacciava per benedire la folla. La casa fu poi abbandonata quando i Cavalieri si trasferirono sull'Aventino, e venne donata all'Istituto delle suddette Neofite Domenicane, che cercavano di convertire al cattolicesimo le fanciulle ebree. Altri due passi ancora e sono arrivata in Piazza del Grillo, reame del famosissimo marchese, il cui ricordo sarà sempre associato al volto dello straordinario Alberto Sordi.
Che poi di questo stravagante personaggio si sa davvero molto poco, né il nome preciso, Onofrio o Cosmo, nè la data di nascita o quella  della morte. Sappiamo solo che si divertiva a sbeffeggiare la gente potente o superba, o “li giudei”, secondo la leggendaria e clamorosa antipatia che sembra provasse nei confronti degli ebrei. Sembra che dall'alto dell’antica torre si divertisse a lanciar sassi sugli ebrei che passavano nei dintorni e che erano ben riconoscibili dallo sciamanno. Il rabbino se ne lamentò con il papa, il quale consigliò paternamente al marchese, che se proprio non avesse potuto farne a meno, lanciasse frutta anziché sassi. Il marchese, obbedendo al papa, iniziò da allora a lanciare solo pigne o castagne…col riccio! La dimora seicentesca è caratterizzata da una meravigliosa facciata dotata di un portone barocco e due avancorpi laterali: quello di sinistra, collegato tramite un sovrappasso ad arco detto “dei Conti”, ha cinque piani e ingloba l’antica torre medievale, interamente conservata; quello di destra ha tre piani. La torre fu edificata nel 1223 come proprietà dei Carboni, poi dei Conti, finché nel 1675 fu acquistata dai del Grillo che la ristrutturarono aggiungendovi l’originale coronamento a beccatelli. All'interno dell'edificio sono passati tantissimi personaggi famosi, tra cui anche il celebre pittore Renato Guttuso che qui aveva il suo studio. Qui troverete un interessante articolo su questo personaggio e la sua dimora.Salgo per la Salita del Grillo e sulla mia sinistra, dal retro dei Mercati di Traiano, spuntano resti romani e medievali dappertutto. Arrivo in Largo Magnanapoli, tra la chiesa dei Santi Domenico e Sisto sulla destra, il muraglione che sorregge i giardini di Villa Aldobrandini e la seicentesca chiesa di Santa Caterina, affiancata dall'imponente Torre delle Milizie.
E' la torre più antica di Roma, risalente addirittura al IX sec. La leggenda racconta che è da qui che Nerone assistette all'incendio di Roma; peccato che a quel tempo la torre ancora non esisteva! è leggermente pendente a causa di un terremoto che ne fece, probabilmente, crollare anche la sommità. Al centro della piazza, in una piccola isola spartitraffico, trasformata in un insolito boschetto di palme, si incontrano una decina di blocchi di tufo appartenenti alla prima cinta muraria, le cosiddette Mura Serviane, che proteggevano la città quando il suo perimetro era di appena undici chilometri, dal Campidoglio al Quirinale, dal Celio al Viminale, dall'Esquilino all'Aventino, ma già allora era il più grande insediamento della penisola.
In realtà questi blocchi presenti in quest’aiuola, segnalano la presenza di una porta, la Porta Sanqualis, che si apriva a circa metà strada della sella che un tempo univa il Campidoglio al Quirinale, e che fece tagliare Traiano per costruire il suo Foro. L’altezza che raggiungeva la sella tagliata è data dall'altezza della Colonna Traiana. Di queste mura ne rimangono davvero pochissimi tratti, sparsi qua e là per la città,  e molto spesso totalmente ignorate. Io ne sono invece letteralmente affascinata, tanto da essere andata alla loro ricerca pezzo per pezzo… ma ne parleremo un’altra volta! Imbocchiamo invece via Quattro Novembre ed è assolutamente d’obbligo la visita ai Mercati di Traiano. Ora poi che ho la MIC è quasi impossibile resistere alla tentazione di entrare e fare un tuffo nel passato. Si, perché visitare i Mercati di Traiano vuol dire passeggiare realmente dentro la storia, andando alla scoperta di una delle opere più imponenti della città, realizzata da uno degli imperatori più importanti della storia.
Traiano per costruire il suo Foro, aveva bisogno di una vasta area, e grazie alla genialità dell’architetto Apollodoro di Damasco, risolse il problema. Vennero sbancate le pendici dei colli Quirinale, Viminale e parte del Campidoglio, ottenendo così un’enorme spianata in cui poter poi disporre tutti gli edifici del nuovo Foro. Per superare il dislivello tra la piazza e la parte alta della città, verificatosi in seguito allo sbancamento, si costruì un edificio disposto su più livelli, che probabilmente precedette il foro, come deducibile dallo studio eseguito sui bolli dei mattoni (inizi del II sec. d.C.).
Gli venne dato questo nome perché si pensò che i Mercati di Traiano fossero una sorta di  "centro commerciale" dell'antica Roma, per la presenza di vari ambienti simili a "tabernae", ma la presenza di strade non percorribili da carri ha fatto ipotizzare che fosse una sorta di centro polifunzionale, dove avevano luogo attività pubbliche più che altro di tipo amministrativo, e solo in misura più limitata attività commerciali, che molto probabilmente si svolgevano negli ambienti aperti ai lati delle vie interne.
C’è però chi non è d’accordo con questa ipotesi, affermando che i Romani edificavano secondo standard consueti, e difficilmente avrebbero dato ad edifici pubblici la forma di "tabernae", isolate tra loro, senza la possibilità di passare da un ufficio all'altro, ma aperte solo sulla via e quindi destinate al pubblico e basta. Anche le scale, secondo questa teoria, potevano non rappresentare un problema, avendo i Romani a disposizione muli ed asini per il trasporto delle cose, senza considerare gli innumerevoli schiavi. Le aree edificate su sei livelli, sono collegate prevalentemente da scale: tre livelli nella zona superiore del complesso, dove la Grande Aula e il Corpo Centrale si snodano fra la via Biberatica  e l’area retrostante (oggi giardino della Torre delle Milizie); tre livelli nella zona inferiore, dove il Grande e Piccolo Emiciclo degradano verso il piano del Foro, dal quale sono divisi per mezzo di un altro percorso basolato
.Oggi i Mercati sono un vero e proprio museo in cui sono esposti i resti provenienti dagli scavi archeologici degli altri fori. Entro nella Grande Aula, magnifica con una volta a sei crociere poggianti su mensoloni di travertino, che costituisce il centro del complesso. Qui vi si svolgevano cerimonie ufficiali pubbliche. Ora nei suoi ambienti al piano terra (comunicanti fra loro), e al primo piano (che affacciano su un corridoio), si articolano le varie sezioni dedicate al Foro di Cesare, di Augusto, di Nerva. Passeggio poi sulla via Biberatica, immaginando l’allegro vociare che proveniva dalle botteghe e negozi, che vendevano merci di ogni genere, nonché dalle numerose "tabernae"  dove, come oggi nei nostri bar, la gente si incontrava a bere qualcosa. Qui il sito ufficiale con tutte le notizie. Sempre passeggiando raggiungo la suggestiva terrazza da dove si ha una vista mozzafiato, non solo della zona sottostante al complesso, ma anche, spingendo lo sguardo lungo la via dei Fori Imperiali, dell’intera Urbe, e mi sento così orgogliosa di essere romana!
Uscendo dal complesso museale dovrei continuare il mio tour con la visita dei Fori appartenenti a questo rione (Traiano, Augusto e Nerva), ma, solo per comodità, preferisco visitarli unitamente al Foro Romano (che appartiene invece al rione Campitelli). Mi dirigo quindi verso il Quirinale, considerando però che la via Ventiquattro maggio e la successiva via del Quirinale, fungono da “confine” fra i rioni Trevi (a sinistra) e Monti (a destra), quindi “ignorerò”, per il momento, tutto ciò che è a destra, concentrandomi sulle attrazioni che troverò sulla mia sinistra. In via del Quirinale ne trovo due, primo confronto tra i due geni del barocco romano: Sant’Andrea al Quirinale del Bernini e San Carlo alle Quattro Fontane del Borromini. La particolarità in questo caso è che tutti e due si trovano a dover progettare una chiesa in uno spazio minuscolo e ambedue adottano la stessa soluzione: la pianta ellittica. In Sant'Andrea al Quirinale (1658-1678), che fu commissionata al Bernini dal cardinale Camillo Pamphili, l'ovale della pianta è disposto nel senso della larghezza, e questo suscita in chi entra un effetto di dilatazione, mentre lo sguardo è catturato immediatamente dall'altare maggiore, in bronzo dorato e lapislazzuli disegnato dallo stesso Bernini, costituito da una cappella in cui la pala d'altare raffigurante "il Martirio di S. Andrea" del Borgognone,  è illuminata da una fonte di luce nascosta, una soluzione molto cara allo "scenografo" artista che l'aveva già utilizzata altre volte.
Anche la splendida cupola è inondata di luce proveniente dalle finestrelle poste alla sua base; il gruppo marmoreo "Sant'Andrea in Gloria" sembra rivolgersi verso il cielo e apre la braccia per salire verso Dio, e sopra le finestre le varie statue di pescatori (come lo era Andrea) e di cherubini giocosi, sostengono ghirlande sulle quali sembrano poggiarsi i costoloni della cupola. La chiesa di S. Andrea al Quirinale fu ed è ancora oggi considerata uno dei migliori esempi dell'architettura barocco romana, tanto da essere soprannominata "la perla del Barocco".
Lo stesso Bernini la considerava il suo lavoro meglio riuscito, quello "perfetto" e il figlio, suo biografo, racconta che spesso negli ultimi anni della sua vita, il padre andava a sedersi in chiesa e ammirava per ore i marmi policromi, gli affreschi dorati, gli stucchi imbiancati, le decorazioni e il gioco di luci.
Poco più avanti si trova invece un altro grande esempio dell’architettura barocca in Italia, realizzato dal grande antagonista del Bernini, Francesco Borromini: la Chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, ribattezzata San Carlino, per via delle sue dimensioni davvero ridotte. Basta pensare che esse corrispondono ad uno dei quattro pilastri che sorreggono la cupola della Basilica di San Pietro in Vaticano. Nel 1634 la comunità dei Padri Trinitari Spagnoli decise di effettuare un degno restauro della loro chiesa, una piccola cappella dedicata alla Ss. Trinità e a San Carlo Borromeo, posta tra l’antica via Pia (oggi via del Quirinale) e l’asse della strada Felice (oggi via delle Quattro Fontane).
Non avevano né tanto spazio né tantomeno soldi. La scelta ricadde su Borromini, architetto giovane, che aveva già fatto lo scalpellino in San Pietro sotto Carlo Maderno e che ora moriva dalla voglia di affermarsi. Lungi dal preoccuparlo, i problemi legati alla mancanza di spazio e alla sostanziale povertà dell’ordine committente, furono anzi per lui motivo di entusiasmo, quasi una sfida e ai monaci non pareva vero di avere un bravo architetto al proprio servizio e per di più gratis. Gli fu cosi commissionata la costruzione del convento e della chiesa, dedicata a Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, sua prima committenza indipendente (che diventò anche l’ultima, visto che fu portata a termine solo dopo la sua morte). Per quanto vincolato dallo spazio ristretto che aveva a disposizione, il grande architetto riuscì ugualmente a creare un complesso funzionale, fornito di tutti gli ambienti richiesti dai religiosi. A differenza del Bernini lui orientò longitudinalmente il suo famoso e inconsueto ovale ondulante della chiesa, cioè estendendo l’asse dinamico dall'ingresso e proseguendo fino all'altare maggiore dalla parte opposta.
Varcata la soglia della chiesa ci si trova in un vano unico, definito dall'elemento scultoreo delle colonne alveolate; interamente realizzata in materiali umili come lo stucco e l’intonaco, le pareti seguono un’ondulazione concava e convessa, tanto da dare l’impressione che non siano formate da pietre o mattoni ma da materiali flessibili. Questa alternanza di pieni e di vuoti è fortemente suggestiva: uno spazio così piccolo, ma allo stesso tempo così ricco di dettagli, che rendono il tutto incredibilmente armonico ed elegante. Alzo gli occhi e lo stupore è infinito: la cupola ovale con disegno a cassettoni ottagonali e cruciformi, si apre su un piccolo lanternino con finestre su ciascun lato.
E’ così che Borromini riesce a esaltare la luminosità prodotta dell’utilizzo del bianco dell’edificio. La luce entra non solo dall'alto attraverso la lanterna, ma anche dal basso attraverso finestre poste nei riquadri dei cassettoni, in parte nascoste alla vista dietro all'anello ornamentale, finemente cesellato di foglie stilizzate, che corona il cornicione.
Nel minuscolo chiostro del convento, l’artista annullò gli angoli, concentrandosi sulla fluidità delle strutture, utilizzando colonne di stucco come condensatori di raggi solari, dando vita ad un angolo candido e luminoso di una suggestione incredibile. Solo al piano inferiore, nella cripta, si percepiscono le reali dimensioni di tutta la struttura e quasi non si riesce a credere che siano le stesse del piano superiore!
La facciata fu iniziata per ultimo, e completata nel 1970 dal nipote Bernardo, tre anni dopo la sua morte. Anche qui impossibile non rimanere incantati davanti alla sua serie di linee ondulate, concave e convesse, disposte su ben due ordini: la parte inferiore include tre sezioni, due concave (le esterne) ed una convessa (l’interna) con una trabeazione continua ed ondulata; mentre la parte superiore include tre sezioni concave con trabeazione in tre segmenti separati. Nel segmento centrale un medaglione ovale inclinato in avanti verso la strada. Sopra il portale d’ingresso, troneggia la scultura di San Carlo Borromeo di Antonio Raggi, mentre ai due lati sono collocate una statua di S. Giovanni di Matha ed una di S. Felice di Valois, fondatori dell’ordine Trinitario.









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