Cristina di Svezia

marzo 23, 2020


Alessandro VII, il pontefice che appena eletto nel 1655 cacciò da Roma Donna Olimpia, in quello stesso anno accolse con tutti gli onori Cristina di Svezia. Per una papessa che lasciava la città, arrivava una regina destinata a diventare anch’essa “padrona di Roma” in virtù di una personalità dirompente, un’indole da protagonista, notevoli doti da promotrice culturale e, soprattutto, un’indomabile capacità di contrastare i papi. Alessandro VII certo non immaginava che Cristina potesse creare tanti problemi, quanti ne avesse creati quell'arrampicatrice sociale, empia e avida, di Donna Olimpia. E invece cosi fu. Da quell'ingresso trionfale a Roma, nel dicembre del 1655, pianificato nei dettagli e organizzato in pompa magna con tanto di restauro di Porta del Popolo da parte di Bernini, fu chiaro subito che, sebbene avesse abdicato, Cristina rimaneva pur sempre una regina senza alcuna volontà di sottomettersi a nessuno, neanche al papa.


E pensare che Alessandro VII, quando era ancora cardinale, si era impegnato tanto per favorirne la conversione non appena la regina ne aveva manifestato il desiderio. Si era poi riempito d’orgoglio quando finalmente l’”affare” si era concretizzato: che colpaccio, una regina protestante convertita al cattolicesimo che Roma accoglieva amorevolmente, strappandola alle mani empie dei luterani! La Figlia di un campione della Riforma, quale era stato Gustavo Adolfo II, si sottometteva al papa! Che pubblicità per Santa Romana Chiesa nei confronti dell’Europa protestante! E che colpo deve essergli preso il giorno dell’arrivo a Roma, quando Cristina dimostrò subito di voler essere la regista dell’evento, come lo fu di tutta la sua vita: infrangendo ogni accordo ed etichetta, non si presentò a bordo della lettiga predisposta dal papa e disegnata da Bernini, ma preferì sfilare in mezzo alla folla cavalcando come un’amazzone e, soprattutto, vestita come un uomo.


La sua eccentrica entrata in scena sconvolse l’opinione pubblica, che si scatenò con commenti e pettegolezzi. Un cronista presente all'evento la descrisse così: “Abbozzata dalla natura per huomo e poi finita per femmina”, un’annotazione che introduce un tema ricorrente della vita di Cristina: l’ambivalenza, la sua duplice natura femminile e maschile. Sulla sessualità della regina di Svezia si è a lungo discusso: uomo o donna? Ermafrodito forse? Quest’ultima ipotesi è stata smentita solo quando ne è stato riesumato il cadavere ed è stato accertato che fosse una donna, con tutti gli attributi per inteso: femminista più che femminile, donna più che dama. A ogni modo, alla diretta interessata le chiacchiere sulla propria sessualità importarono sempre poco, non si dava pena di smentire perché anzi la divertivano, essendo la questione praticamente nata con lei. In senso letterale: appena partorita, completamente avvolta dalla placenta e ricoperta di peli, fu scambiata per un maschietto. Di fronte all'amara scoperta, il padre commentò: “Sarà in gamba, visto che ci ha ingannato così bene”. Aveva ragione: impunita e dispettosa fin dalla nascita, lo fu per tutta la vita. Orfana di padre a soli sei anni, con un trono sulle spalle e sul groppone una madre un po’ troppo eccentrica (fra le varie stranezze domestiche, si dice tenesse il cuore del marito in una teca), Cristina si dedicò con interesse e attenzione allo studio spendendo e spandendo il suo patrimonio, oltre che i soldi pubblici, per dare nuovo impulso al rinnovamento culturale del paese. Le spese pazze e la condotta libera non piacevano alla corte né al popolo, mentre alla sovrana non piaceva più di tanto il luteranesimo, le stava stretto. Ci pensò la Chiesa di Roma ad approfittare di questa insofferenza, sottovalutando il dettaglio – o forse ignorandolo per opportunismo – che la scelta di Cristina era soprattutto di natura culturale più che religiosa. Ma ognuno guardava i propri interessi: per la Santa Sede la conversione della regina di Svezia era una medaglia, per lei una liberazione così come per gli svedesi, felici di liberarsi di una sovrana scomoda e spendacciona. Ciò che intrigava maggiormente Cristina della religione cattolica era l’idea di una fede che, grazie al pentimento, consentiva in pratica ogni peccato. Secondo le cronache, ai due gesuiti inviati dal futuro Alessandro VII per facilitare il percorso di conversione, Cristina fece soprattutto imbarazzanti domande di natura sessuale, del tipo se masturbarsi fosse considerato peccato mortale o veniale, informandosi anche sulla possibilità di assecondare la propria bisessualità in quanto non aveva intenzione di rinunciare alle compagnie femminili né al piacere di vestirsi da uomo. Dopo essere stata rassicurata del fatto che bastava pentirsi ed era tutto a posto, decise che la religione cattolica faceva al caso suo. Così abdicò e si convertì per poter vivere secondo i propri dettami che – piccolo particolare – andavano contro quelli della liturgia cattolica. Ma tanto le avevano assicurato che bastava pentirsi. Senza patimenti né pentimenti, Cristina visse dunque la propria bisessualità senza nascondersi, incurante dei pettegolezzi maligni e concedendosi con il medesimo trasporto ai corteggiatori e alle ammiratrici. D’altra parte, le etichette non le erano mai piaciute, a cominciare da quella di “uomo” e “donna”, tanto meno le piaceva l’etichetta di corte. Giunta a Roma, scandalizzò la corte pontificia e gli ambienti bene, non solo con l’eccentrico look alla garconne, ma soprattutto con una serie di atteggiamenti poco consoni a una regina: oltre a mangiare e bere come un soldato, disturbava le funzioni sacre ridendo sguaiatamente e facendo battute a voce alta – tra l’altro aveva una voce baritonale – quindi era impossibile non sentirla. A Roma doveva fermarsi tre mesi e invece rimase per sempre, inizialmente accolta con tutti gli onori a palazzo Farnese dove tra feste, banchetti e sfrenati divertimenti insediò una corte godereccia e anche un po’ disonesta, a causa di un paio di finti gentiluomini che trasformarono la nobile residenza in un covo di ladri, biscazzieri e ricettatori di opere d’arte che si arricchirono a sue spese.


Oltre alle feste e ai divertimenti – più o meno leciti – era soprattutto la sua vita amorosa a monopolizzare i discorsi dei romani. Uomini e donne, tutti cadevano ai suoi piedi, nonostante non fosse una bellezza canonica: l’aspetto mascolino era rafforzato dai capelli corti, il vocione baritonale e la tendenza a indossare calzoni invece che abiti femminili. In più aveva il naso adunco, il doppio mento, gli occhi a palla, era curva, stortignaccola, pelosa e pure in sovrappeso: “un’autentica palla”, secondo la delicata descrizione del memorialista Maximilien Misson. Però era dotata di fascino e carisma, di una vivacità di spirito fuori dal comune, di un carattere magnetico oltre che anticonvenzionale, dettaglio che la distingueva dalle nobildonne romane, beneducate ma sicuramente più noiose e prevedibili. Cristina era la libertà, la gioia di vivere, l’intelligenza in una Roma soffocata dalle regole della Controriforma. E poi aveva un’arma segreta infallibile: un fondoschiena regale per il quale pare gli uomini andassero pazzi, un “maestoso deretano” secondo la definizione del principe di Condè, un gran “bel culo” secondo quella più prosaica del medico Pierre Boudelot. Oltre al sedere, furono le numerose e piccanti avventure amorose a fornire ricco materiale per conversazioni pettegole, come per lunghe e dettagliate cronache, che tutti leggevano per poi dichiararsi (o fingersi) scandalizzati, magari cercando conferma da chi la conosceva direttamente, come il diplomatico spagnolo Antonio de la Cueva y Silva e sua moglie, molto solerti nel ripetere a tutti che Cristina era “la più grande puttana del mondo”. Anche la diretta interessata leggeva le cronache rosa, per puro divertimento e il suo unico scrupolo era accertarsi che il numero degli amanti accreditati fosse corretto. Se siete curiosi, ne elenco qualcuno. Tra gli amori lesbici, un posto di primo piano spetta all'intensa relazione saffica – risalente ai tempi della Svezia – con la bella contessa Ebba Sparre, presentata pubblicamente e spudoratamente da Cristina come la sua “compagna di letto”.


A Roma, la regina ebbe una folta corte di spasimanti: fu avvistata concedere lunghi baci al marchese Gian Rinaldo Monaldeschi, mentre lui era intento a tastarle il famoso fondoschiena; cedette senza combattere alle appassionate avances del marchese del Monte, un’irresistibile canaglia definito da Cristina nelle sue memorie “uno di quegli uomini che le donne non riescono a impedirsi di amare, pur lamentandosi del loro sciagurato modo di agire”; fece girare la testa al vecchio cardinale Colonna, che la ricoprì di regali preziosi, tra cui un enorme e costosissimo smeraldo e che, proprio a causa delle numerose lettere d’amore indirizzate alla sovrana, fu allontanato dal papa in persona. Non compare nelle cronache quello che probabilmente fu il suo unico vero amore, il cardinale Decio Azzolino, uno dei prelati più in vista del Sacro collegio, uomo colto, intelligente e pure bello.


La relazione, che durò tutta la vita, era comunque di dominio pubblico, come tutto ciò che riguardava Cristina: il cardinale era il suo padre spirituale, ma ben preso ne divenne anche il compagno di letto, vittima di una forte attrazione erotica ricambiata con altrettanta passione dalla sua amante. Come si legge anche tre le righe delle numerose lettere scambiate tra i due, Cristina era ferocemente gelosa del bell'Azzolino che – tanto per spettegolare – si dice avesse avuto anche una relazione con una nostra conoscenza, quella Olimpia Aldobrandini, moglie di Camillo Pamphilj e nuora della Pimpaccia la quale, a detta dei meglio informati, si concedeva un po’ a tutti. Tra Decio e Cristina ci fu una forte intesa sensuale, rafforzata anche dalla comune passione per ogni forma d’arte, comprese le arti considerate occulte. Fu Decio ad appoggiare e sponsorizzare l’iniziativa di Cristina di radunare intorno a sé le menti più brillanti dell’epoca – letterati, musicisti, scienziati, filosofi e artisti – per rilanciare Roma come capitale culturale. Trasferitasi a palazzo Riario alla Lungara, oggi palazzo Corsini, Cristina si autoproclamò regina delle arti, rivelandosi una straordinaria promotrice culturale. Fu lei a lanciare la fortunata moda dei “salotti”, che nel secolo successivo spopoleranno in tutta Europa: i suoi celebri e ambiti mercoledì culturali divennero un appuntamento fisso della vita intellettuale e mondana romana. I suoi interessi erano molteplici e il suo mecenatismo iperattivo: appassionata di archeologia, finanziò diverse e fruttuose campagne di scavi; affascinata dalla scienza e soprattutto dall'alchimia, ne incentivò la pratica ospitando nei suoi scantinati – in segreto e infischiandosene dei divieti dell’Inquisizione – esperimenti magici alla ricerca della pietra filosofale; appassionata di lettere, si batté per difendere la lingua italiana dal “gusto moderno per l’iperbole e l’esagerazione” – dai riccioli barocchi per capirci – e grazie all'istituzione dell’Accademia Reale aprì la strada alla prestigiosa Accademia dell’Arcadia fondata, dopo la sua morte, proprio da quei poeti che ne avevano frequentato abitualmente la casa.


Cristina amava smodatamente il teatro e si impegnò concretamente a favore della sua diffusione fondando il Tor di Nona, impresa portata a compimento insieme all'Acciaioli e grazie all'intercessione di Giacomo d'Alibert, che riuscì a ottenere dal papa il permesso e lo stabile. Oltre a riqualificare una zona fino ad allora tristemente nota per le esecuzioni capitali, il Tor di Nona rappresentò una svolta epocale nella vita culturale e sociale capitolina, trattandosi del primo teatro pubblico stabile di Roma, che così colmò il ritardo imbarazzante rispetto alle altre città italiane ed europee. Solo un’anticonformista spregiudicata come Cristina poteva sfidare la storica avversione dei pontefici per gli spettacoli teatrali, quelli pubblici ovviamente, perché in privato era tutto un altro discorso. Nonostante il successo, il Tor di Nona ebbe vita breve, ovvero fin quando al soglio pontificio non salirono alcuni papi apertamente ostili alla regina che si diedero subito da fare per impedirne le eccentriche attività. Fu un grande dolore per lei quando il severo e rigoroso Innocenzo XI decretò la chiusura del suo amato teatro e lo trasformò in un granaio. Ma non era tipo da subire in silenzio e rispose con iniziative ancora più provocatorie: sfidò apertamente l’autorità papale, occupandosi del mantenimento delle artiste, rimaste senza lavoro – in seguito alla chiusura del Tor di Nona e al conseguente divieto del papa di esibirsi in palcoscenico – e aprì le porte del suo palazzo alle ragazze di ogni ceto sociale, insidiate da corteggiatori molesti, da mariti violenti o da famiglie che miravano a chiuderle in convento. Per non parlare della volta in cui offrì protezione a un giovane ladro sfuggito alle guardie del papa che ne aveva decretato la condanna a morte. E quando il Vaticano emanò alcune leggi suntuarie per limitare l’eccessivo lusso nel vestire e le influenze della moda francese, Cristina ridicolizzò l’iniziativa facendo indossare alle donne del suo entourage un triste saio dal colore indefinito, ribattezzato “innocenziano” in onore del papa. La Chiesa di Roma non la sopportava più: la donna che doveva essere il fiore all'occhiello della Controriforma era diventata una spina nel fianco. Per fortuna il suo fedele, devoto e innamorato Decio Azzolino le rimase sempre accanto, nella buona e nella cattiva sorte, come nello scandalo dell’assassinio del marchese Monaldeschi, un atto di terribile ferocia che macchiò la reputazione di Cristina. Prima di passare al fattaccio vi ricordo che il marchese, oltre a essere un uomo di fiducia dello staff dell’ex sovrana, era anche lo stesso con il quale era stata vista sbaciucchiarsi e al quale aveva concesso di palpeggiare il suo celeberrimo fondoschiena. Questo per dovere di cronaca pettegola, ma ora veniamo alla cronaca dei fatti. Cristina era venuta a sapere che Monaldeschi aveva fatto una soffiata agli spagnoli, rivelando il suo progetto di voler conquistare il trono di Napoli con l’appoggio dei francesi. Scoperto il tradimento, ne ordinò seduta stante l’esecuzione che avvenne in modo così barbaro da suscitare un’ondata di biasimo e raccapriccio generale, sia tra i francesi, che con la scusa furono lieti di rispedirla a Roma, liberandosi di una donna scomoda, sia tra i nobili e il clero romano. Al suo ritorno in città, le si era fatto il vuoto intorno. L’unico a rimanerle vicino, anche in questa circostanza, fu Azzolino che prudentemente le consigliò di tenere un profilo più basso, dedicandosi soprattutto alle arti e al teatro: in poche parole, le suggerì di archiviare i propositi politici. Solo che per dedicarsi al mecenatismo ci volevano tanti soldi e così, per consentirle di mantenere il proprio ruolo di sponsor culturale, oltre che il suo altissimo tenore di vita – degno di una regina, anche se regina non era più – Azzolino organizzò prima una colletta fra alcuni facoltosi cardinali e nobili, arrivando a coinvolgere perfino il papa per concederle una sorta di prestito che poi divenne una regalia e in seguito riuscì anche a far sganciare al Santo Padre un pingue vitalizio annuo. Tutto questo fu possibile con il benevolo Clemente IX, mentre i papi ostili non ci pensarono due volte a tagliarle gli alimenti. A circa sessant'anni Cristina si ritrovò povera – rispetto ai suoi standard – smoderatamente ingrassata, sciatta e sola (quasi tutti i suoi amici erano stati letteralmente fatti fuori dall'Inquisizione). Ma era sempre determinata, sfatta nel fisico ma non nell'animo, come testimonia l’ultimo atto della sua vita, che vede tornare in scena l’ambivalente rapporto con le donne, caratterizzato da amore e odio. La sua parte maschile ne era irrimediabilmente attratta, ma quella femminile le biasimava per la rassegnata condizione d’inferiorità che subivano senza lamenti. Non dimentichiamo che a spingerla ad abdicare aveva contribuito anche il rifiuto categorico di sposarsi, disgustata dall'istituzione matrimoniale in quanto riteneva inconcepibile l’idea di “essere usata da un uomo nel modo in cui un contadino usa i suoi campi”. Decio Azzolino non fu un marito, ma un compagno fedele e paziente, disposto anche a condividere l’amore di Cristina. L’ultima passione della sua vita, infatti, fu Angelica, una bellissima artista alla quale aveva offerto rifugio e protezione per sottrarla alle attenzioni morbose del laido monsignore Francesco Maria Vaini, salvandola al tempo stesso dal convento in cui il papa voleva spedirla, per mettere a tacere i pettegolezzi. Ma veniamo al fattaccio, l’ultimo atto della vita di Cristina. Mentre era costretta a letto da una lunga degenza senza segni di miglioramento, monsignor Vaini riuscì a introdursi nottetempo nel palazzo alla Lungara per rapire la sua giovane preda. Di fronte alla ribellione di Angelica, il monsignore – ma non troppo – reagì cercando di violentare la ragazza, le cui urla disperate richiamarono l’attenzione degli abitanti del palazzo. Colto in flagranza di reato, Vaini se la diede a gambe con gli abiti a brandelli e le ossa malconce. Il trambusto era stato tale da svegliare anche Cristina. Per rassicurarla e non aggravarne lo stato di salute, Azzolino le mentì dicendole che Angelica era caduta. Nonostante fosse vecchia e malata, Cristina non era rimbambita e alla fine ottenne la verità. Reagì malissimo: incaricò un servo di sgozzare il monsignore che però riuscì a cavarsela facendo perdere le proprie tracce. Neanche Azzolino riuscì a placarne la furia e l’arrabbiatura fu tale che le sue già precarie condizioni di salute si aggravarono e, pochi giorni dopo, morì. Era il 19 aprile 1689. Innocenzo XI, suo vecchio nemico, sembrò seppellire i dissapori organizzando solenni funerali, come solenne era stato il suo primo ingresso a Roma, e volle che il corpo imbalsamato di Cristina, vestita in broccato bianco e con una maschera d’argento sul volto, fosse esposto per quattro giorni a palazzo Riario. Un tributo? In realtà sembrerebbe piuttosto l’ennesimo dispetto verso le ultime volontà della defunta, la quale aveva espresso chiaramente il desiderio di essere sepolta in una tomba semplice al Pantheon, mentre dopo essere stata esposta ancora una volta come un trofeo, finì a San Pietro dove qualche anno dopo le venne eretto un monumento funebre da Carlo Fontana.


Va precisato, però che Cristina è l’unica donna – insieme a Matilde di Canossa e Maria Clementina Sobieski – a essere sepolta a San Pietro come una “papessa”, un onore non da poco. Azzolino, che l’aveva amata e accompagnata per tutta la vita, la seguì presto anche nella morte: circa due mesi dopo, il cardinale si mise a letto e non si alzò più. Con Cristina aveva perso la ragione di vita. L’amata lo aveva designato erede universale, ma alla morte del cardinale i beni passarono nelle mani di un nipote spendaccione che, in breve tempo, dilapidò tutto il patrimonio. I preziosi pezzi della ricca collezione d’arte furono acquistati da nobili e altri prelati di tutta Europa – molti di essi si trovano oggi in diversi musei – mentre papa Alessandro VIII si aggiudicò la preziosa biblioteca per un prezzo stracciato. Ma l’eredità più grande di Cristina, quell'indipendenza di pensiero e quella libertà d’azione straordinarie per una donna dell’epoca, è rimasta per sempre nelle cronache, nei racconti e nei pettegolezzi di una delle pagine più interessanti della storia di Roma.

(Giulia Fiore Coltellacci - Storia pettegola di Roma)

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