Domus Aurea

luglio 18, 2020



Gli imperatori romani sì che sapevano cosa fosse il lusso! Lusso nel vestire, nel mangiare e, soprattutto, nell'abitare. Per patrimonio familiare o per acquisizione, una volta saliti al trono potevano disporre, in ogni angolo dell’impero, di ville sontuosissime, appena vagamente paragonabili alle celebri regge dei monarchi europei, come Versailles o Caserta. Basta pensare, solo a Roma o nei dintorni, e solo tra le meglio documentate o conservate, agli Horti Sallustiani o Maecenatis, alla Villa dei Gordiani sulla Prenestina, a quella di Livia sulla Flaminia, a Villa Adriana a Tivoli, alla villa di Nerone ad Anzio o a quella di Tiberio a Sperlonga, per non parlare di Villa Iovis a Capri. Insomma, dimore meravigliose, con viste mozzafiato e lussi inimmaginabili. Una su tutte però, per grandiosità e bellezza, colpì i contemporanei, la “Casa d’Oro”. Nerone aveva decisamente il senso dello spettacolo, con quella buona dose di megalomania artistica, mista a lusso sfrenato, che secoli dopo sarà il marchio di Hollywood e lo dimostrò soprattutto con la costruzione della sua nuova grandiosa residenza. Sorse sulle ceneri del terribile incendio del 64 d.C. che distrusse interi quartieri della città di Roma e, racconta Svetonio, sembra che Nerone si godesse lo spettacolo cantando l’incendio di Troia in costume teatrale. Molti lo accusarono di aver appiccato lui stesso l’incendio, addossando poi la colpa ai soliti cristiani. Un’accusa probabilmente falsa, dato che l’imperatore contribuì generosamente alla ricostruzione della città e al soccorso delle vittime. Certo non lo aiutò a scagionarsi da queste accuse la reggia che si fece costruire proprio sulle zone distrutte dall'incendio e da lui espropriate: la Domus Aurea. Una villa talmente estesa da provocare la feroce critica del popolo e da far dire in una famosa satira “Roma è oramai una sola casa: migrate a Veio, o Quiriti, se questa casa non occuperà anche Veio”. La Domus si estendeva per ben quattro colli (Palatino, Esquilino, Oppio e Celio) e comprendeva numerosi edifici e ville grandi come città, con migliaia di stanze, residenze per ospiti, casini, ovviamente teatri, terme e palestre, templi, monumentali vie porticate, terrazze e poi vigne, boschi e pascoli con ogni genere di animali, domestici e selvatici. Fu definita Aurea per la straordinaria ricchezza della sua decorazione, per lo smodato lusso, per la preziosità dei materiali che la decoravano.


Era aurea anche perché la luce inondava le stanze (al momento ne sono state individuate ca. 150), luce che condizionò la scelta dei materiali. Plinio racconta che fu utilizzata una pietra particolare grazie alla quale “anche quando le porte erano chiuse c’era dentro a essa un chiarore come del giorno […] sembrava che la luce non fosse trasmessa dall'esterno, ma come racchiusa all'interno”. Per dare un’idea abbastanza precisa di che cosa si trattasse realmente, il modo migliore è riportare le parole dello storico Svetonio, che ricorda come Nerone

“Si fece costruire una casa che si estendeva dal Palatino all’Esquilino, che chiamò dapprima “transitoria” e poi, quando la fece ricostruire, perché era stata distrutta da un incendio, “aurea”. Della sua grandezza e magnificenza, basterà dire questo: c’era un atrio in cui era stata eretta una statua colossale, alta 120 piedi, immagine di Nerone; tale era l’ampiezza da includere tre portici lunghi un miglio e uno stagno, anzi quasi un mare, circondato da edifici grandi come una città. Alle spalle, ville con campi, vigneti e pascoli boschi pieni di ogni genere di animali domestici e selvatici. Nelle altre parti tutto era coperto d’oro, ornato di gemme e di conchiglie. Le sale da pranzo avevano soffitti coperti di lastre d’avorio mobili e forate in modo da permettere la caduta di fiori e profumi. La più importante di esse era circolare e ruotava continuamente, giorno e notte, come la terra. I bagni erano forniti di acqua marina e solforosa. Quando Nerone inaugurò la casa alla fine dei lavori, se ne mostrò soddisfatto e disse che infine cominciava ad abitare in una dimora degna di un uomo”.

Lo stagno citato da Svetonio era un lago artificiale, dove oggi è il Colosseo, riempito con acqua di mare fatta arrivare direttamente dalla costa, mentre speciali piscine erano alimentate con acqua sulfurea dirottata dai monti (cioè da Tivoli, non so se mi spiego). L’acqua marina e sulfurea alimentava anche i bagni (per quanto la sua amante, Poppea, prediligesse immergersi nel latte d’asina).  Gli architetti che crearono questa maestosa opera furono Severo e Celere, mentre gli affreschi di IV stile sono del pittore Fabullus, di cui Plinio ricorda gustosi aneddoti: “di costui” scrisse “esisteva una Minerva che seguiva con gli occhi lo spettatore da qualsiasi parte la si osservasse. Dipingeva poche ore al giorno e sempre con solennità, perché era sempre in toga, anche sulle impalcature”. 


È ovvio che ai romani tutto questo lusso sfrenato e questa reggia che da sola occupava quasi tutta la città, pareva uno schiaffo alla miseria. E, dato che i tempi non erano ancora abbastanza maturi per “porgere l’altra guancia”, a questo schiaffo risposero alimentando l’odio verso l’imperatore, come per l’appunto con la probabile calunnia che fosse stato lui ad avere alimentato il fuoco che aveva distrutto Roma. Alla morte di Nerone seguì la damnatio memoriae dell’imperatore e di conseguenza la villa fu abbandonata e rasa al suolo; venne lasciata in piedi solo la casa usata come residenza imperiale, poi incorporata nelle fondazioni di un altro mastodontico edificio pubblico: le terme di Traiano. 


Fu così che la Domus Aurea venne riempita di terra e rimase sepolta per secoli facendo perdere le sue tracce. Dopo un anno di crisi politica, Vespasiano, successore di Nerone, decide di “restituire” ai Romani la loro città, costruendo, là dove si trovava il laghetto della domus, l’Anfiteatro Flavio.


Dove un tempo si estendeva il parco della dimora, sorto a seguito dell’esproprio di tante case di poveri cittadini, ecco sorgere nuove terme, che prenderanno il nome di Tito e che saranno poi affiancate da quelle di Traiano, mentre il portico del tempio di Claudio rinasce nell'ala ancora incompiuta dell’immensa domus. Nel Cinquecento però casualmente fu “riscoperta”: un giovane cadde in una fessura del terreno e si ritrovò in una strana grotta, piena di meravigliosi affreschi. La cosa non passò inosservata e provocò la curiosità di molti, soprattutto degli artisti dell’epoca, che iniziarono a farsi calare negli ambienti sepolti per ammirarne i capolavori. 


Non sapevano di essere nell'antica casa di Nerone e quelle antiche stanze per loro erano solo “grotte”. Gli artisti, tra cui il grande Raffaello, stupefatti, alla luce delle torce copiavano decorazioni delle volte che avrebbero poi riportato nei loro dipinti. L’influenza del rinvenimento sull'arte rinascimentale fu enorme, ovunque si diffusero le “grottesche”, come vennero chiamate quelle particolari pitture. 


Spesso, in ricordo delle loro esplorazioni, gli artisti lasciavano le loro firme, tracciate sulle pareti con nerofumo o grafite, e ancora oggi si possono vedere. Se non stessimo parlando di maestri del calibro di Raffaello, Pinturicchio o Giovanni da Udine, saremmo tentati di etichettarli come i soliti “vandali”, ma siamo alle solite: non è il gesto che conta, ma chi lo compie. Visitando oggi quel che resta del sogno megalomane di Nerone, praticamente solo il grande padiglione del colle Oppio, dove appunto furono costruite le Terme di Traiano, dovete avere voi il senso dello spettacolo e lavorare molto con la fantasia per immaginare quello che doveva essere. 


Ma nel buio delle sale sotterranee aperte al pubblico, ormai solo parzialmente affrescate, l’impatto è senza dubbio fortissimo. Quel che resta del sogno di “quell'anima più nera der carbone”, come Gioacchino Belli definì l’imperatore, continua a essere una domus “aurea” anche nel buio della terra, nelle cui sale riecheggia la magnificenza del passato. Scendere sottoterra e trovare “la luce” è un’emozione unica.


Dopo essere stata chiusa per un lungo periodo e nonostante i lavori di restauro siano ancora in corso, al momento è possibile visitare una parte del cantiere della Domus Aurea con un percorso indimenticabile ed emozionante che include sale aperte al pubblico per la prima volta e l’utilizzo di visori in 3D che aiutano ad immaginare gli antichi fasti della villa.


Certo, ciò che rimane dà solo una pallida idea dell’antica bellezza, sacrificata a pochissimi anni dalla sua realizzazione – come abbiamo detto – all'odio contro Nerone, di cui si è scritto molto, ma non bisogna dimenticare che buona parte della documentazione a noi giunta è di parte avversa e per giunta spesso non coeva ai fatti: è come pretendere di ricostruire oggi la biografia di JFK, da quanto scritto su di lui da un Repubblicano convinto (Svetonio ad esempio scrive più di cinquant'anni dopo i fatti, quando già si erano accumulate leggende, storielle, ricordi falsificati ad arte o per semplice oblio). In effetti, la sua figura è stata molto rivalutata dagli storici moderni; al pettegolezzo spesso presente nelle fonti antiche, si è sostituita la ricostruzione storica, che vede in lui l’artefice di un ambizioso progetto di riforma rimasto incompiuto. Tenete dunque sempre presente che molti degli aspetti più pittoreschi, più grotteschi e accentuati legati alla sua figura – come a quella di altri imperatori – rientrano in veri e propri cliché, non sempre rispondenti alla realtà dei fatti. Nerone ebbe inoltre la colpa, pagata a carissimo prezzo in termini di stampa avversa, di dare avvio alla prima persecuzione contro i cristiani, quella in cui tra l’altro morirono i santi Pietro e Paolo. Da qui deriva in parte l’infausta tradizione che lo vede responsabile dell’incendio del 64 d.C., intento a bearsi a suon di lira della distruzione da lui causata. La scena è ormai indelebile nella memoria di chiunque abbia visto Peter Ustinov in Quo Vadis


Se proprio però dovete lasciare che la cinematografia influenzi il vostro giudizio storico, guardate piuttosto Mio figlio Nerone, di Steno, film del 1956 detestato dai suoi protagonisti. Si dice che alla prima proiezione a Venezia, Alberto Sordi (Nerone) abbia lasciato la sala e che la Swanson (Agrippina) ebbe a dire a Vittorio De Sica (un fantastico e pusillanime Seneca) che erano stati due “imbecilli” ad aver accettato il ruolo pur di lavorare insieme. È invece, a mio avviso, un film divertente e ben scritto: la madre pedante, il figlio vigliacco e con il pallino della musica (memorabile la sua orchestra di animali, in cui spicca il contro-porco), un Seneca subdolo e ipocrita.


Ecco, se i protagonisti della Storia devono essere trasformati in personaggi da teatro, credo che Steno abbia almeno ben caratterizzato i suoi, facendone certo maschere, anzi macchiette, ma in fondo non meno di come fecero alcuni storici di duemila anni fa.

(Giulia Fiore Coltellacci - 365 giornate indimenticabili da vivere a Roma)
(M. Silvia Di Battista – Roma curiosa (vol. 3)
(Gabriella Serio – I tesori nascosti di Roma)
(Flavia Calisti - Alla scoperta dei segreti perduti di Roma)

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