Santa Maria della Pietà

febbraio 06, 2020

Oggi mi sono avventurata in un luogo insolito, uno di quei posti quasi al confine di Roma, appartato, dove il tempo è sospeso e dove la Storia, quella con S maiuscola, è passata e c’è rimasta come pietrificata. Sono in una zona che fra l’altro conosco benissimo, avendoci vissuto per circa trenta anni. L’ex manicomio provinciale Santa Maria della Pietà è a Monte Mario, né città, né periferia. Fondato nel 1548 dal sacerdote spagnolo Ferrante Ruiz, in piazza Colonna, accanto alla chiesa, ora intitolata ai Ss. Bartolomeo e Alessandro dei Bergamaschi, che ancora porta inciso sul portale l’antico nome: Santa Maria della Pietà.
Era chiamato l’Ospedale dei Pazzarelli e aveva lo scopo di accogliere poveri, vagabondi e persone affette da patologie psichiatriche. Venne trasferito, nel XIII secolo in via della Lungara, che in quel periodo era piuttosto lontano dal centro della città: si iniziava a isolare il “pazzo”, oltre che dal contesto sociale, anche fisicamente dalla società civile. Dopo l’Unità d’Italia, il Santa Maria della Pietà venne riconosciuto come Opera Pia e nei primi anni del Novecento iniziarono i lavori per il nuovo ospedale psichiatrico, su progetto di Edgardo Negri e Eugenio Chiesa, nella zona ancor più periferica di Monte Mario. Venne inaugurato da Vittorio Emanuele III nel 1913 e costituiva il più grande ospedale psichiatrico d’Europa.  
Si estendeva per circa centotrenta ettari in un parco di piante ad alto fusto e comprendeva quarantuno padiglioni rigorosamente suddivisi in due aree: maschile e femminile, con una capacità di oltre mille posti. Era una piccola città dentro la città, dove c’erano lavanderie, falegnami, chiese e anche una sala operatoria. Le persone venivano ricoverate in base ad un certificato che ne attestava lo stato di pericolosità, per sé o per gli altri, o per atteggiamenti di pubblico scandalo. Venivano quindi tenute insieme considerando il loro comportamento e non per patologia. Creando un insieme così disomogeneo, i pazienti venivano lasciati in uno stato di isolamento e regressione, che non li curava, ma anzi li rendeva ancora più aggressivi. La vita nel manicomio era scandita dai pasti e dalle rigide disposizioni del regolamento, sporadicamente si effettuava qualche passeggiata nel parco. 
Nonostante le numerose rivolte che avvennero negli anni, a causa delle condizioni disumane in cui i malati vivevano, isolati ed abbandonati a loro stessi, il manicomio rimase aperto ancora per molto, chiudendo definitivamente nel 1999, a seguito della legge Basaglia. Uno degli ultimi pazienti ad uscire disse che era molto difficile per loro “entrare fuori ed uscire dentro” dove per “dentro” intendeva la città, il mondo sociale. Nel 2000, nel padiglione VI, viene inaugurato il Museo della Mente, che ripercorre la storia del Santa Maria della Pietà ed insieme propone un percorso interattivo, per promuovere la salute mentale e combattere lo stigma, soprattutto sociale, della follia.
L’allestimento del Museo si snoda attraverso diverse stanze, postazioni interattive nelle quali per interagire bisogna muoversi in un certo modo o assumere posture tipiche della malattia, quasi un’interpretazione dei diversi stadi della follia.
Numerose testimonianze, ambienti ricostruiti, come l’angosciosissima stanza di contenzione, che si intravede attraverso uno spioncino, oggetti originali, come il terribile macchinario per l’elettroshock, lasciano un profondo senso di smarrimento.
Nelle sale troviamo anche un reperto eccezionale: una parte del grande graffito, considerato uno degli esempi più significativi di Art brut, realizzato dal romano Fernando Oreste Nannetti, in arte NOF4, su due muri esterni dei padiglioni dell’ex ospedale psichiatrico Poggi alle Croci di Volterra. L’artista, durante la sua detenzione in manicomio, scolpì centocinquanta metri di parete. Un’opera straordinaria e assolutamente unica: utilizzando la fibbia della sua divisa come una sorta di matita di ferro, Nannetti – chiuso nella struttura dal 1958- volle così lasciare un segno di vita, raccontando se stesso, le sue visioni del mondo, le sue fantasie astrali e deliranti osservazioni, ma anche la voglia di rivedere la sua città natale – Roma – e una famiglia che praticamente non conobbe, né visse mai.
Quella distaccata e restaurata è solo una piccola parte, circa otto metri, del grande graffito che versa però in un cattivo stato di conservazione, a causa dell’abbandono della struttura di Volterra, chiusa dal 1978. All’opera si sono interessati storici dell’arte, letterati, artisti e ad essa e al suo geniale e sfortunato autore (e alla sua vicenda umana) sono stati già dedicati molti libri ed esposizioni. 
Sulle pareti del padiglione VI e altri, molti street artists hanno realizzato numerose opere, che si mostrano come nuove “finestre” su come dovesse essere il mondo visto attraverso gli occhi dei pazienti. 
Come abbiamo detto, qui, dopo l’entrata in vigore della legge Basaglia, i cancelli si sono aperti, ma le sbarre alle finestre ancora ci sono, un modo per mantenere la memoria, per mostrare alle future generazioni che certi delitti l’uomo non potrà più permettersi di commetterli. Per non dimenticare, insomma.



(metamagazine.it)
(inworldshoes.com)
(Wikipedia.it)
(Museodellamente.it)
(Fabrizio Falconi - Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma)


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