8° ITINERARIO - RIONE V PONTE (SECONDA PARTE)

luglio 07, 2021

Totale percorso Km.1,650    questa la mappa

Per questo 8° itinerario, percorro l’altra metà del rione Ponte, (qui la prima parte) che comprende tutte le strade, vicoli e piazzette, intorno e limitrofe a via dei Coronari, fino a toccare la punta estrema del rione che, attraversata piazza di Tor Sanguigna, arriva alla cosiddetta Torre della Scimmia.
La partenza è sempre dal Ponte Castel Sant'Angelo, ma questa volta mi dirigo verso il lungotevere, per ammirare da questo lato lo splendido scenario che offre il Castello al di là del fiume.
Incontro una fontana, messa lì a ricordo di un edificio che ormai non esiste più: il Teatro Apollo. Era nato sulla celebre “Torre di Nona”, una prigione della Reverenda Camera Apostolica, tristemente nota per le sue stanze: la “cella della vita” dove fu rinchiuso anche Benvenuto Cellini, la cella “del fondo” che era una specie di oscuro budello nel quale venivano gettati i responsabili di gravi delitti e la stanza della “tortura”, nella quale si estorcevano confessioni con ogni mezzo. Quando furono costruite le Carceri Nuove, nel 1670, la torre venne trasformata, per scopi commerciali, in un teatro, sponsorizzato, fra gli altri, anche dalla regina Cristina di Svezia. La prima struttura durò fino al 1676, e ospitava soprattutto rappresentazioni in prosa. Ebbe poi una seconda fase, dal 1733 al 1781, con la ricostruzione da parte di papa Clemente XII. Ma fu distrutto da un furioso incendio e nuovamente ricostruito nel 1795 quando prese la denominazione di Teatro Apollo, acquistando sempre più fama e notorietà, passando dalla prosa all’opera.
Acquistato dai Torlonia, nel 1829 fu ricostruito dal Valadier, in un perfetto stile neoclassico e, con il famoso impresario romano, Vincenzo Jacovacci, conobbe le opere più belle e i cantanti più bravi. Come ricorda la stele sopra la fontana, furono due i momenti di massimo splendore del Teatro Apollo e ambedue associati a Giuseppe Verdi, che qui infatti rappresentò la prima della sua opera “Il Trovatore” nel 1853 e, sei anni dopo, “Il Ballo in Maschera”. Ogni rappresentazione finiva in trionfo, con i romani che accompagnavano Verdi fino all’hotel alla luce delle torce. Purtroppo le continue inondazioni del Tevere imposero la demolizione dell’edificio nel 1888, per la costruzione dei muraglioni, e nel 1925 fu eretta a suo ricordo la fontana, composta da un sarcofago con incisioni verticali dove l’acqua ricade da una valva di conchiglia; alle spalle, una stele decorata con le simbologie classiche del teatro: mascheroni grotteschi, una lira e corone d’alloro e l’epigrafe dettata da Fausto Salvatori: “ Il Teatro Apollo sulle pietre dell’antica Torre Orsina a fasti e glorie d’arte musicale aprì le dorate scene e dove foscheggiò Torre di Nona libera si diffuse la melodia d’Italia del Trovatore il XIX gennaio MDCCCLIII di un Ballo in maschera il XVII febbraio MDCCCLIX qui dove sul teatro demolito passa l’antica strada romana il genio di Giuseppe Verdi affida l’eterna melodia canora all’aria al sole al cuore umano a ricordanza della Torre del Teatro del genio creatore il Comune di Roma pose anno domini MCMXXV”. 
Attraverso il lungotevere e prendo via della Rondinella, ammirando il palazzo che ospita l’Accademia di Costume e di Moda, edificato nel 1925 dall'architetto Vincenzo Fasolo, che avrebbe bisogno sicuramente di una bella ristrutturazione. Sono in Piazza S. Salvatore in Lauro, che prende il nome dalla chiesa che qui sorse, intorno all'anno mille, per volere di un piccolo ordine di frati, i Celestini, che costruirono una piccola chiesa avvolta da una vegetazione e da un boschetto di allori, da cui prende la denominazione “in Lauro”.
Riedificata verso la metà del XV secolo, venne tragicamente distrutta da un incendio nel 1591. Tre anni dopo, Ottaviano Mascherino ne iniziò la nuova ricostruzione, realizzando un capolavoro: le 20 colonne monolitiche di travertino della navata, costituiscono il primo esempio di colonne non incassate nel muro, ma utilizzate come semplice motivo ornamentale, che, rievocando lo stile veneto palladiano, rendono questo Santuario unico in tutta Roma. Quando nel 1668 l’ordine venne sospeso, la chiesa fu acquistata dalla Confraternita dei Piceni, che vi istituì il culto della Madonna di Loreto, trasportando qui la veneratissima statua della Vergine lauretana, cambiando il nome alla Chiesa che tuttavia, per i romani, oggi come allora, rimane sempre San Salvatore in Lauro.
I lavori furono portati a termine sotto la direzione di Ludovico Rusconi Sassi. La facciata invece, fu realizzata nel 1862, unica a Roma nel suo genere, in uno stile neoclassico molto armonioso. Spicca il grande bassorilievo di Rinaldo Rainaldi, che raffigura il "Trasporto della Santa casa di Nazareth" (secondo la leggenda che racconta il miracoloso trasporto per mano angelica della casa della Vergine Maria da Nazareth a Loreto, dove poi sorse il famoso Santuario) sovrastato dalla dedica alla Madonna Lauretana che recita “Mariae Lauretanae Piceni Patronae”. Sopra il portale lo stemma del papa marchigiano, Pio IX, che regnava durante i lavori di completamento. Dal 2007 è anche centro di diffusione della spiritualità di Padre Pio, di cui conserva importanti reliquie: il suo sangue, il suo mantello, un suo guanto e la stola che indossava nel giorno dell’inaugurazione dell’ospedale di San Giovanni Rotondo. Si può inoltre ammirare la “Nascita di Gesù” di Pietro da Cortona nella terza cappella a destra, la stessa dove ci sono anche alcuni paramenti liturgici di San Giovanni Paolo II: una sua casula, un amitto, una papalina e una porzione della maglia intrisa del suo sangue, fuoriuscito in seguito all'attentato del 1981. Qui il sito ufficiale della chiesa. Dalla piazza arrivo in via dei Coronari, e mi trovo davanti ad una caratteristica viuzza, via di S. Simone,
dal forte aspetto medievale, chiusa in fondo da una scalinata, in cima alla quale era situata l’antica chiesa dei Ss. Simone e Giuda, risalente al XII sec., quando fu consacrata da Pasquale II prima e, successivamente, nel 1143, da Innocenzo II. In origine la chiesa era dedicata a S. Maria de Monte, per la vicinanza del Monte Giordano sul quale sorgeva, come Cappella baronale del palazzo di Giordano Orsini. Tra il Quattrocento e il Cinquecento, venne dedicata ai Santi Simone e Giuda. Caratteristico l’ingresso sormontato da una bella cornice curvilinea. La chiesa venne sconsacrata nel 1902 dal principe Filippo Orsini e messa all'asta. Divenne in parte abitazione privata, e la restante parte si trasformò in teatro, con il nome “Alcazar” dove si esibirono famose “sciantose” dell’epoca e dove Ettore Petrolini conobbe il suo debutto artistico. Ebbe in seguito molte altre destinazioni d’uso, da cinema a ristorante, per tornare ad essere di nuovo teatro con il nome di “Teatro della Bugia” e successivamente “Teatro di via de’ Coronari”, che rimase in attività fino al 2006.
Proseguo su via dei Coronari, guardando il teatro, a sinistra, per girare poco dopo a destra in Via della Vetrina. Il nome deriverebbe proprio da una vetrina, la prima in uso fra tutte le botteghe di Roma, che un’antica osteria collocò all'ingresso del locale, attraverso la quale la gente poteva osservare sia l’interno, che i prodotti offerti. Al civico 19 è il palazzo Tanari, che segue l’andamento curvilineo della strada e che presenta un particolare angolo ornato di bugne, dal pianterreno al primo marcapiano, cosi atipico rispetto al resto del palazzo da ipotizzare che appartenesse ad un edificio preesistente.
Una targa sul palazzo ricorda che è “Casamento di Luigi Rossini libero da ogni peso e canone n° IV”, ma non è sicuro che il noto incisore, cugino del ben più noto Gioacchino, ci avesse anche abitato. Giro a destra in via di Monte Giordano passando davanti al palazzetto Avila, della seconda metà del Seicento, con il suo portale barocco decorato con i simboli araldici della famiglia: un’aquila che tiene tra gli artigli della zampa sinistra un ramo di palma. Le finestre del primo piano sono architravate, e quella centrale, sopra il portone, presenta un timpano curvilineo. 
Svolto nella prima via a sinistra, vicolo del Fico, e arrivo nell'omonima piazzetta, dove un bellissimo esemplare di albero dà il nome al vicolo, alla piazza e...al bar!
Attraverso la piazza, giro a sinistra in via della Pace, poi a destra nel vicolo degli Osti e subito di nuovo a sinistra, perché mi piace girovagare, anche se per arrivare alla mia meta, avrei fatto prima ad andare dritta e continuare su via della Pace, visto che devo arrivare nella chiesa omonima. Percorro invece Vicolo di Montevecchio, poi piazza di Montevecchio e passo attraverso una stretta apertura fra due palazzi, che mi porta all'arco della Pace, svolto a destra e subito dopo l’arco sono arrivata! Sono di fronte ad un vero gioiello di Roma: Santa Maria della Pace.
Anche a questa chiesa è legata una leggenda: prima qui sorgeva la chiesetta di Sant'Andrea de Acquarizariis, cioè gli antichi rivenditori di acqua. Costoro prendevano direttamente l'acqua dal Tevere, e la depuravano dalla “renella” che vi era mescolata. Nel piccolo portico della chiesetta era conservata un’immagine della Madonna. Nel 1480 un giocatore, ubriaco, avendo perso molto al gioco, arrabbiato, lanciò un sasso contro l’immagine, che iniziò a sanguinare. 
La notizia di questo episodio si diffuse rapidamente e ben presto il luogo divenne meta di pellegrinaggio di molti fedeli. Anche papa Sisto IV, che aveva già disposto di cambiare nome alla chiesa in “S. Maria della Virtù”, andò a pregare davanti all'immagine sacra per implorare la fine della guerra di Ferrara, facendo voto alla Madonna che, a pace avvenuta, avrebbe edificato un nuovo edificio a lei dedicato. Fu così che, a fine ‘400, il progetto per la nuova chiesa, che fu di nuovo rinominata in Santa Maria della Pace, fu affidato, probabilmente, a Baccio Pontelli, mentre all'inizio del ‘500 il Bramante cominciò a lavorare per la realizzazione del Chiostro e Convento annessi.
Nel 1656 venne riedificata, per conto di papa Alessandro VII Chigi, nelle forme attuali, da Pietro da Cortona, che realizza il suo capolavoro architettonico, con la facciata originale, adornata dal caratteristico portico semicircolare convesso in una piazzetta concava, che diventa una sorta di teatro barocco, di cui la chiesa costituisce un ideale palcoscenico. Ai lati del portico si trovano due archi che, in passato, servivano per facilitare la circolazione delle carrozze che accompagnavano i nobili in chiesa. Da un arco entravano e, una volta discesi i passeggeri, ripartivano uscendo dal secondo arco. La scritta sopra il portico recita: “Portino i monti la pace al popolo e i colli la giustizia” in chiaro riferimento alle sei cime presenti nello stemma di Alessandro VII. L’interno è a navata unica e la decorazione è molto ricca, con opere di Baldassarre Peruzzi e Orazio Gentileschi, ma l’attrazione principale è la bellissima Cappella Chigi, la prima a destra, commissionata da Agostino Chigi, eretta da Pietro da Cortona su disegno di Raffaello, autore anche dell’affresco “Sibille e Angeli”
Il Chigi incaricò il suo giovane amico Raffaello di decorare la sua futura cappella funebre: voleva Sibille e Profeti, le figure pagane e del Vecchio Testamento che annunciarono la venuta del Messia. Sappiamo che Raffaello non portò a termine tutto il lavoro, ma solo le Sibille, mentre i profeti, rappresentati sulle sovrastanti lunette, sono opera del suo allievo Timoteo Viti, su disegno dell’Urbinate. Il grande affresco delle Sibille è uno splendido esempio della straordinaria abilità esecutiva di Raffaello: la perfetta armonia delle forme, la felice stesura del colore, la delicata e morbida fisionomia dei corpi e dei volti; sono tutte giovani e belle, tranne una, la Cumana, che secondo il mito, chiese ad Apollo, che si era invaghito di lei, l'immortalità, ma dimenticò di chiedere l’eterna giovinezza. Ognuna di loro ha accanto un angelo dal quale ricevono una profezia. Per tanto tempo quest’opera fu l’unica di Raffaello che tutti potevano ammirare, essendo tutte le altre realizzate in residenze private, e per questo aveva una importanza grandissima.
Un curioso aneddoto riguarda una disputa tra il Chigi e Raffaello a proposito dei termini di pagamento. Dopo aver concluso il lavoro, Raffaello, che aveva avuto una cifra per acconto, si recò dal Chigi per ottenere il saldo, come pattuito. 
Ma si sentì rispondere che quanto gli era stato versato fosse già sufficiente per l’intero lavoro. Raffaello allora, pretese che si ascoltasse il parere di un esperto, per valutare il lavoro eseguito. Fu chiamato Michelangelo. Il quale iniziò a valutare l’opera a “pezzi”: “Quella testa vale 100 scudi”, e alla domanda del cassiere: “ e quell'altra?” rispose: “lo stesso”. A quel punto Agostino Chigi capì che gli conveniva saldare Raffaello con l’importo pattuito senza indagare oltre! Degne di nota anche la Cappella Cesi, (la seconda a destra, accanto alla cappella Chigi) opera di Antonio Sangallo il Giovane, con il bellissimo arco di Simone Mosca con altorilievi di profeti ed angeli e nelle due nicchie i Santi Pietro e Paolo, e la Cappella Mignanelli, (seconda cappella a sinistra) ornata di splendidi marmi provenienti dallo scomparso "Tempio di Giove Ottimo Massimo". L'ultima cappella (la prima a sinistra, accanto alla cappella Mignanelli) è la Cappella Ponzetti con notevoli affeschi rinascimentali di Baldassarre Peruzzi, tra cui, sull'altare, la "Madonna col Bambino, Santa Brigida e Santa Caterina e il cardinale Ferdinando Ponzetti". 
Una tradizione romana legata a questa chiesa stabilisce che i novelli sposi, ascoltando qui la loro prima messa insieme, garantirebbero alla loro famiglia appena costituita una duratura pace. 
Uscendo dalla chiesa torno indietro in Arco della Pace per un breve tratto, ed entro nel Chiostro del Bramante: è il suo primo lavoro a Roma, ed ebbe così tanto successo che Papa Giulio II gli conferì l’incarico di progettare e realizzare anche il famoso Tempietto in San Pietro in Vincoli. Rappresenta uno dei più begli esempi di corte del primo Rinascimento a Roma, composto di due piani: il primo ad arcate rette da pilastri dorici, lungo il quale si aprivano gli ambienti per la vita comunitaria; il secondo include arcate su pilastri e colonne, e vi erano le singole unità abitative dei monaci. Lungo il perimetro del chiostro corre una iscrizione dedicatoria che, insieme allo stemma gentilizio, attesta il committente dell'opera: il cardinale Oliviero Carafa. 
Oggi la struttura è stata riconvertita in spazio museale e culturale. Entrando, anche solo per un caffè, si ha una percezione di totale armonia e linearità e dalla caffetteria si può godere di una vista privilegiata sul famoso affresco delle Sibille. Ritorno verso la chiesa, (ripassando sotto il primo arco) e da lì mi dirigo verso la parte opposta al Chiostro, (passando sotto il secondo arco) e percorro via della Pace e Vicolo della Pace. Arrivo in Largo Febo, piccolo spiazzo caratterizzato dalla facciata ricoperta di edera dell’hotel Raphael, da molti ricordato per la famosa contestazione, nell'aprile del 1993, a Bettino Craxi, con relativo lancio di monetine, che divenne, forse, la scena simbolo della fine della cosiddetta Prima Repubblica. 
Sulla destra, appena uscita dal vicolo, inizia via di Santa Maria dell’Anima, che giusto per lo spazio occupato dalla chiesa omonima, appartiene al rione Ponte, mentre il resto dall'incrocio con via di Tor Millina e via di S. Agnese in Agone, appartiene a Parione. Il nome della chiesa è dato da un antico affresco raffigurante “Maria fra due anime del purgatorio” ritrovato nel Quattrocento durante i lavori per la costruzione dell’oratorio per i pellegrini tedeschi, olandesi e fiamminghi, da parte di Giovanni Pietro da Dordecht e di sua moglie Caterina, che avevano, a tale scopo, acquistato tre case attigue. Più di un secolo dopo, su quell’area sorse la Chiesa che, in ricordo di quell'affresco, venne chiamata Santa Maria de Anima.
La facciata fu iniziata da Andrea Sansovino, a cui si deve anche il gruppo marmoreo posto sul timpano del portone centrale, (che probabilmente riproduce l’antico affresco) e terminata da Giuliano da Sangallo. È in stile italiano rinascimentale, a tre ordini divisi da robusti cornicioni. Venne ricostruita più volte a seguito dei danni subiti dai lanzichenecchi nel 1527 e dopo l’invasione dei francesi nel 1798, quando fu utilizzata come fienile e scuderia. Fu grazie a Pio IX che fu restituita alle sue originarie funzioni. Divenne quindi chiesa nazionale della comunità tedesca a Roma. Molto caratteristico il campanile fatto in mattoni, con alcune parti in marmo, le bifore rinascimentali e una particolarissima guglia ricoperta da dischi di ceramica policromi.
L’interno è ispirato al gotico dell’Europa settentrionale, a tre navate e quattro cappelle per lato, che hanno la stessa altezza delle navate.
Fra le opere d'arte spicca sull'altare maggiore l’opera di Giulio Romano “Sacra Famiglia e santi”, sulla volta l’affresco “Santi” di Ludovico Seitz e nella Cappella della Pietà, l’omonima scultura, copia michelangiolesca con pochissime varianti, iniziata dal Lorenzetto e terminata da Nanni di Baccio Bigio. Nella chiesa è sepolto papa Adriano VI il cui monumento funebre è opera di Baldassarre Peruzzi.
Da Largo Febo, prendo la piccola via a destra, via di Tor Sanguigna e arrivo nell'omonima piazza che deve il suo nome alla Torre, residenza della famiglia romana dei Sanguigni, ritenuta nel Medioevo, una delle più potenti a Roma. La torre è caratterizzata dalle finestre asimmetriche e due diversi tipi di mattoni, in laterizio e in tufo.
Sul palazzo che fa angolo con via dei Coronari è una fastosa Madonnella settecentesca in stucco. L
a tela dipinta ad olio raffigura la Vergine che sale in cielo, ai lati della tela due angeli, mentre un altro sovrasta l’edicola con in mano una corona di luci; due candelieri a tre bracci sono disposti lateralmente e tutt'intorno gigli, nubi e cherubini. Infine, un lampione centrale contribuisce ad arricchire notevolmente l’illuminazione di tutta l’edicola, mentre sovrasta il tutto un particolare baldacchino con frange. Attraverso la strada, passo davanti alla Torre, e svolto a sinistra in piazza S. Apollinare, dal nome della Chiesa fondata nel 780 da Adriano I e ricostruita verso la metà del Settecento da Ferdinando Fuga per volontà di Benedetto XIV.
La pianta interna è a navata unica, preceduta da un atrio a forma ellittica con tre cappelle per lato. La volta è affrescata da Stefano Pozzi e rappresenta “La Gloria di Sant'Apollinare” il santo che, secondo la leggenda, accompagnò San Pietro da Antiochia fino a Roma e divenne poi il primo vescovo di Ravenna. Molto venerata è l’immagine della Madonna, che durante il sacco dei Lanzichenecchi, venne ricoperta di calce e riscoperta solo per caso quando, nel 1648, a causa di un lieve terremoto, cadde l’intonaco che la ricopriva. Accanto alla chiesa è il quattrocentesco palazzo di S. Apollinare, disegnato dallo stesso architetto e abitato dai frati della chiesa. Successivamente residenza cardinalizia, attualmente ospita il Pontificio Ateneo Santa Croce, diretto dall'Opus Dei.  Ma nella piazza l’edificio più importante è senza dubbio Palazzo Altemps, gioiello di architettura rinascimentale, che sorge in una zona dove un tempo si trovavano le officine del marmo.
Costruito a fine Quattrocento, incorporando case e edifici medievali, per volere del nipote di Sisto IV, Girolamo Riario, su progetto di Melozzo da Forlì, dopo vari passaggi, venne acquistato nel 1568 dal cardinale austriaco Marco Sittico Altemps, nipote di un altro papa, Pio IV. In questa occasione il palazzo venne rinnovato ed ampliato da Martino Longhi il Vecchio, che aggiunse la caratteristica altana ad arcate ornata da quattro piccoli obelischi. Il cardinale ne fece la residenza del casato ed istituì la Biblioteca Altempsiana. Durante quegli anni il figlio naturale di Marco Sittico fu accusato di adulterio e fatto decapitare a 20 anni da Sisto V. Probabilmente, la reale ragione fu il fatto di aver sposato una Orsini, nemici giurati del papa e soprattutto l’avversione che il Cardinale Altemps aveva avuto nei suoi confronti, durante l’ultimo conclave che l’aveva portato all'elezione. A nulla valsero le preghiere di supplica del padre e la lettera scritta, prima dell’esecuzione, dalla moglie di Roberto, che attendeva il loro primo figlio. In seguito, nel 1604, Clemente VIII Aldobrandini, che aveva sempre criticato la morte del figlio del suo amico, per ripagare all'offesa, donò alla famiglia le spoglie di papa Aniceto (unico caso di papa sepolto in una residenza privata) per arricchire la loro cappella, dove il figlio Giovanni Angelo, a memoria del sopruso subito, volle fosse dipinto un grande affresco dal Pomarancio, che riproduceva la decapitazione del padre.
La volta è decorata da Polidoro Mariottini con la Gloria di Sant'Aniceto.
È sempre opera di Giovanni la costruzione del primo teatro, che poi diventerà il Teatro Goldoni, ed è in questo palazzo che venne fondata l’Accademia dell’Arcadia. Dopo gli Altemps, verso la metà dell’Ottocento, la proprietà passò in eredità a Giulio Hardouin, padre della duchessina Maria, che nel 1883, proprio nella Cappella/Chiesa di S. Aniceto, sposò Gabriele D’Annunzio.
A fine secolo divenne poi una proprietà della Santa Sede fino al 1982 quando fu acquistato dallo Stato italiano che, dopo un lungo e rigoroso restauro, lo trasformò in un museo che aprì al pubblico nel dicembre del 1997. Oggi è una delle sedi del “Museo Nazionale Romano” (insieme a Palazzo Massimo, Crypta Balbi e Terme di Diocleziano), e comprende opere provenienti dalle collezioni Altemps, Boncompagni Ludovisi, Mattei e Del Drago. Della prima collezione, iniziata da Marco Sittico e ampliata da suo nipote Giovanni, che comprendeva 120 sculture, ne restano solo 15, quattro delle quali sono le gigantesche statue disposte sotto le arcate del portico settentrionale.
Molto importante la collezione Boncompagni Ludovisi, con opere che un tempo ornavano i palazzi e i giardini di Villa Ludovisi, quali il gruppo del Galata suicida con la moglie, Oreste ed Elettra, l’Ares e la testa di Giunone e il famoso originale greco del V sec. a.C. cosiddetto “Trono Ludovisi”, proveniente da scavi effettuati in quella zona. La collezione Mattei è disposta nei portici del cortile e nelle sale del primo piano e comprende una raccolta di marmi antichi un tempo collocati all'esterno di Villa Celimontana, ed infine la collezione Del Drago proveniente dell’omonimo palazzo di Via delle Quattro Fontane. Nel museo troviamo anche numerosi pezzi della collezione egizia del Museo Nazionale Romano, soprattutto reperti provenienti dal Santuario di Iside e Serapide del Campo Marzio e quelli provenienti dallo scavo del Santuario siriaco del Gianicolo.

Uscita dal Museo, vale la pena fare una passeggiata nelle vie intorno ad esso, fino ad arrivare all'estremità del Rione, alla cosiddetta Torre della Scimmia. Prendo quindi via dei Pianellari, che costeggia la chiesa di S. Apollinare, passeggiando lentamente, con curiosità, alla ricerca dei particolari, e li trovo nelle scritte, indicazioni, suggerimenti in legno di cirmolo che sono sparsi in tutta la via, grazie alla presenza del laboratorio/bottega dello scultore Ferdinando Codognotto; 

li trovo ancora nei palazzi, con le loro finestre  architravate in marmo, anche quelle dei mezzanini, che li rendono particolarmente eleganti; nei loro portoni, anch'essi incorniciati nel marmo, con timpani triangolari e li trovo soprattutto quando arrivo in fondo alla via, all'angolo con via dei Portoghesi, nella bellissima Torre medievale dei Frangipane, risalente al 1014, inserita nel XVI secolo nel palazzo Scapuccinel quale, trovando il portone aperto, entro per andare a vedere il cortile interno dove, in un arco ribassato, si trova una fontana costituita da tre nicchie, di cui quella centrale più grande delle laterali e contenente un gruppo statuario mutilo, con una figura femminile, un bambino e un cane; alla base un sarcofago romano del III secolo strigilato e al centro di esso, in un clipeo, la raffigurazione di una coppia di defunti.

La torre è anche detta della Scimmia, per via di una leggenda descritta anche dal romanziere americano Nathaniel Hawthorne nei suoi appunti di viaggio in Italia. Sembra che nel palazzo vivesse una famiglia che aveva una scimmiaUn giorno l’animale prese un bambino in fasce, figlio dei suoi padroni, e salì sulla torre, seminando il panico fra quanti assistettero alla scena, soprattutto nei genitori che non sapevano più cosa fare. Guardavano la scimmia camminare con il bambino in braccio lungo il cornicione, terrorizzati che lo lasciasse cadere da un momento all'altro. Il papà del bambino, dopo essersi a lungo raccomandato alla Madonna, richiamò la scimmia con il fischio che era solito fare. Nell'udire quel suono, la scimmietta tornò in casa e posò il bambino, sano e salvo, nella sua culla. Da quel giorno il padre volle posizionare in cima alla torre, come forma di ringraziamento, una statua della Vergine con una lampada perpetua, che ancora adesso possiamo vedere.
Giro in via dell’Orso e subito dopo, a sinistra, prendo vicolo della Palomba, che presenta uno scenario diverso. Pochi negozi in una strada silenziosa, raccolta, dove le persone passeggiano piano. Ha un’insolita forma ad angolo retto e molti negozietti a carattere artigianale, nonché un ristorantino proprio sull'angolo che si chiama “Il desiderio preso per la coda”. Il vicolo sbuca in via dei Gigli D’Oro e, girando a sinistra, sono di nuovo in Piazza S. Apollinare, taglio per via S. Apollinare, attraverso via Zanardelli ed imbocco la strada parallela a via dei Coronari, chiamata piazza di Fiammetta, anche se non ha nulla della piazza, in quanto lunga e stretta, mentre poco più avanti sulla destra inizia Via degli Acquasparta, che invece sembra più una piazza, larga e con un aiuola di alberi al centro che divide le due direzioni di marcia. Il toponimo della piazza si riferisce alla celebre cortigiana fiorentina Fiammetta Michaelis, che appena tredicenne arrivò a Roma con la madre e divenne ben presto la favorita del cardinale Ammannati. Erano le cosiddette “cortigiane oneste”, cioè  prostitute, ma di una certa cultura, in grado di sostenere conversazioni con persone di un certo rango.
Alla morte del cardinale, avvenuta un anno dopo, nel 1479, Fiammetta ereditò tutti i suoi averi. Lo scandalo fu piuttosto grande che dovette intervenire Sisto IV, il quale nominò una commissione per gestire la questione dell’eredità. Alla fine alla “damigella di singolare beltà” (come venne definita dalla commissione stessa) “per amor di Dio e per provvederla di una dote” (e non quindi per i “servizi” offerti al cardinale) venne concesso una parte del lascito, che consisteva in quattro proprietà immobiliare, una delle quali proprio il palazzetto che si trova in via degli Acquasparta, conosciuto appunto come “Casa di Fiammetta”. Tra gli amanti della popolare cortigiana, ci fu probabilmente anche Cesare Borgia, il figlio del papa Alessandro VI, come risulta dal testamento nel quale è indicata come “Fiammetta del Duca di Valentino”, in riferimento alla nomina di Cesare a duca di Valentinois, ottenuta dal re di Francia Luigi XII, e per la quale veniva soprannominato “il Valentino”. Alla sua morte, nel 1512, lasciò in eredità le proprietà al “fratello” Andrea, che si suppone in realtà fosse il figlio. Venne sepolta nella chiesa di S. Agostino, l’unica chiesa a Roma che permettesse di ascoltare la messa alle cortigiane, dove fin dal 1506 aveva il patronato sulla prima cappella a sinistra. Venne in seguito spostata e della sua sepoltura, ora, non si hanno più notizie. Da via degli Acquasparta, dopo le foto di rito alla casa quattrocentesca, molto caratteristica, con altana e portico a due fornici sorretto da colonne e pilastri, torno indietro e giro a destra su via della Maschera d’Oro, e non posso non rimanere incantata da palazzo Milesi, dei primi anni del Cinquecento, affrescato da Polidoro da Caravaggio e Maturino da Firenze con varie scene mitologiche che, grazie ad un recente restauro, possono essere ammirate nella loro originaria bellezza. 
Sopra il portale è riprodotta la “Storia di Niobe”, mentre al primo piano, fra le finestre, ci sono vari personaggi storici e sopra ancora un fregio con vasi, trofei, scene di mitologia e di storia greca e romana, come il “Ratto delle Sabine” e le “leggi di Numa Pompilio”. Anche l’edificio accanto, dello stesso periodo, presenta una facciata decorata, ma in questo caso non sono affreschi, bensì incisioni monocrome, eseguite direttamente sull'intonaco. All'angolo di questo palazzo, una colonna tortile su base antica di granito, serviva probabilmente per proteggere l’edificio dalle ruote dei carri.
Mi trovo ora in piazza Lancellotti, dal nome della famiglia che possedeva in questa zona diverse proprietà . Troviamo qui, infatti, sia una facciata laterale del Palazzo Lancellotti, sia quella principale del Palazzetto, che era riservato alle persone che vivevano al seguito del nobile. Sulla piazza si trova anche la, ormai sconsacrata, chiesa di S. SimeoneCosteggiando la Chiesa, prendo via dell’Arco di Palma
e arrivo in via di Tor di Nona, al di sotto del Lungotevere omonimo, in quel tratto dove a metà degli anni ’70, alcuni giovani, fra cui molti studenti di architettura, per manifestare contro il degrado di quella zona, dipinsero sulle facciate delle case alcuni murales: arcobaleni, barcaioli, arlecchini, uccelli e… un asino che vola! 
Fra tutto spiccava una scritta: “Riprendiamoci la città”. L’attenzione fu attirata, perché pian piano la ristrutturazione venne portata a termine; i murales nel tempo vennero eliminati, tranne il simpatico asinello che è l’unico ad essere rimasto al suo posto.
Mentre sul muro dinanzi la “la casa dell’asinello” sono state riprodotte le copie dei murales che i ragazzi fecero a quel tempo.
Ritorno in piazza Lancellotti passando questa volta dal vicolo degli Amatriciani e arrivo in piazza S. Simeone, dominata dalla presenza della facciata principale di palazzo Lancellotti, costruito verso la fine del Cinquecento, per il cardinale Scipione Lancellotti, su progetto di Francesco da Volterra, terminato poi da Carlo Maderno.
Lo splendido portale è del Domenichino; la facciata presenta spigoli bugnati sui quali sono presenti due belle edicole settecentesche (quella che affaccia su via dei Coronari e l’altra su piazza Lancellotti) una raffigurante il “Redentore”, l’altra la “Madonna Addolorata”, contornate da angeli in stucco fra raggi e nuvole, e due magnifici lampioni in ferro battuto. 
Un curioso aneddoto riguarda il palazzo: il 20 settembre 1870 il portale venne chiuso in segno di protesta contro “l’aggressione italiana agli Stati Pontifici” e, in tutta risposta, venne stampigliata sulle colonne la sigla V.V.E. (Viva Vittorio Emanuele), che è ancora visibile, in caratteri rossi. Rimase chiuso fino alla firma dei Patti Lateranensi nel 1929.
A questo punto ripercorrendo via dei Coronari, arriveremo nuovamente in Piazza di Ponte S. Angelo, e la visita al Rione Ponte è conclusa.



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