Il Monte dei Cocci

marzo 01, 2020


Che il rapporto dei romani moderni con i rifiuti non sia dei migliori è sotto gli occhi o, sarebbe meglio dire sotto il naso, di tutti. Poco educazione, cattiva organizzazione, interessi politici e criminali di varia natura, la Roma di oggi rischia di rimanere sommersa sotto cumuli di spazzatura. I Romani antichi potrebbero esserci di ispirazione anche in questo campo, avendo creato un’enorme isola ecologica destinata al riciclo e allo smaltimento dei rifiuti. La possiamo ammirare ancora oggi, sulle sponde del Tevere, a due passi da Eataly. Sto parlando del Monte dei Cocci, detto Testaccio, come poi il quartiere circostante, dai milioni di frammenti di testae (cocci) che lo compongono: c’è chi dice 53 milioni, ma chi può stabilirlo con certezza? Si tratta di un cumulo di frammenti di anfore alto 54 m che si estende su un’area più o meno triangolare compresa tra il fiume e le Mura Aureliane. Sono anfore olearie, provenienti quasi tutte dalla Betica (attuale Andalusia).


Venivano sbarcate nel vicino porto fluviale, il prezioso contenuto era qui travasato e il materiale poroso dei recipienti, che non ne permetteva il riutilizzo, veniva eliminato. I Romani provvedevano dunque a rompere le anfore e ben presto iniziarono ad accumulare accuratamente i cocci così ricavati in file sovrapposte, che a intervalli ricoprivano di calce per igienizzare la zona ed evitare il cattivo odore. Questo almeno dal 140 d.C. alle metà del III secolo. Arrivarono così a realizzare un monte che in origine doveva essere molto più alto dell’attuale.


La cima veniva raggiunta grazie ad una rampa percorribile dai carri, probabilmente corrispondente a quella oggi ancora esistente. Grazie a tale cura il monte è per gli studiosi un incredibile archivio delle attività economico-commerciali del periodo medio e tardo-imperiale. Le anfore, infatti, sono bollate e hanno tituli picti che ne indicano il luogo di produzione, il contenuto, il venditore, la data consolare ed altro. Se ne rese conto per primo Heinrich Dressel che sul finire dell’Ottocento iniziò a classificarle. Il monte non ha conosciuto solo fasi di accumulo; a esso andavano infatti ad attingere coloro che cercavano materiale di recupero per i più svariati fini. Nel Medioevo il luogo venne scelto come location (ormai ogni sito è una location, anche una discarica!) per lo svolgimento dei festeggiamenti legati al Carnevale: aveva, infatti, qui luogo il ludus Testaccie, attestato per la prima volta nel 1256 durante il pontificato di Alessandro IV e da allora riproposto annualmente fino al 1470 circa, quando Paolo II decise di spostarlo sulla via Lata (via del Corso). Fulcro dei festeggiamenti era la c.d. “ruzzica de li porci”, sorta di Pamplona romanesca in cui maiali e cinghiali venivano fatti scapicollare giù dalle pendici del monte a bordo di carretti: quando questi si sfracellavano, alla fine di una folle corsa, i partecipanti al “gioco” se li contendevano per catturarli e mangiarli.


Talora sembra che si usassero anche dei tori. I comuni vicini pagavano annualmente un tributo, cui l’Università degli Ebrei si sottraeva, pagando alla Camera Apostolica le spese dei festeggiamenti, per ottenerne in cambio l’esonero dal terribile gioco che, secondo un Codice Vaticano, sembra vedesse vittima anche un anziano, novello Attilio Regolo, chiuso in una botte che veniva lasciata poi ruzzolare giù. Del resto per bighellonare non si doveva attendere la ruzzica: a ottobre ad esempio Testaccio era luogo di ritrovo per i romani che, come ricorda Zanazzo, si godevano le belle giornate di un autunno che sembra spesso primavera, con quel clima mite che solo l’ottobre romano sa regalare. Nel 1670 Pietro Ottini e Domenico Coppitelli acquistarono 200 canne di terreno intorno al colle per aprirvi dei “grottini” da destinare a osterie e cantine: nasceva così il Testaccio moderno, fatto di trattorie, oggi mutate in lussuosi e costosi ristorantini. La scelta era azzeccatissima, poiché nei locali realizzati alle pendici del monte, sfruttando il potere isolante della ceramica, la temperatura si mantiene costante intorno a ca. 10° C: ogni anfratto è dunque naturalmente climatizzato, ottimo rifugio per i vini che le mozzatore (raccoglitrici d’uva) portavano qui dai Castelli. 


Non a caso il sito divenne sede privilegiata, come abbiamo visto, delle ottobrate romane. A forza di scavare iniziarono però i primi problemi, tanto più che dagli inizi del Seicento fino alla metà del Settecento il monte fu utilizzato anche come poligono di tiro dagli artiglieri, o meglio bombardieri di Castel Sant’Angelo. Ne restano tracce nel profondo avvallamento riscontrabile sulla sommità. Fu per tutelare quel che del deposito ancora si conservava che papa Benedetto XIV ne vietò prima l’asportazione di materiale e, poco dopo, anche il pascolo. Ma le guerre patite dalla città lo videro ancora protagonista. Nel 1849 fu utilizzato per cannoneggiare i francesi acquartierati presso la basilica di San Paolo, poi durante la Seconda Guerra Mondiale vi furono realizzate delle piattaforme in cemento armato per i cannoni destinati alla contraerea, di cui restano tracce sulla sommità. Sommità su cui sorge anche una croce, lì posta il 24.05.1914, come punto di arrivo della Via Crucis, che un tempo partiva da una casa ormai scomparsa, ubicata in via della Bocca della Verità, passava per la Casa dei Crescenzi (ritenuta la casa in cui Pilato avrebbe soggiornato quando fu chiamato dall'imperatore a chiedere conto del suo operato), proseguiva poi verso Santa Maria in Cosmedin, attraversava l’Arco di San Lazzaro e terminava sul Monte Testaccio, Calvario capitolino.


Nel 1868 Pio IX diede l’autorizzazione per l’inizio dei lavori del mattatoio, rimasto in uso fino al 1975. Dalla cima del Monte Testaccio possiamo vedere tutto il comprensorio, (ora sede della facoltà di Architettura dell’Università di Roma Tre, del Macro Testaccio e della Città dell’Altra Economia), il Gazometro, il ponte Settimia Spizzichino, la Piramide Cestia, Porta San Paolo, l’Aventino e una panoramica generale della città.


Ai piedi del monte sorgevano molti Horrea (magazzini), tra cui quelli realizzati da L. Emilio Lepido e L. Emilio Paolo all’inizio del II sec. a.C. Si tratta della Porticus Aemiliae, la più grande esistente a Roma, lunga poco meno di mezzo chilometro e con ben 50 navate, per una superficie totale di 25.000 mq.


La visita del Monte deve essere richiesta al Comune tramite Associazioni culturali. La passeggiata è davvero sorprendente e la sensazione di camminare su una catasta di cocci e su una montagna di Storia è davvero unica.



(Flavia Calisti – Alla scoperta dei segreti perduti di Roma)

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