Santo Stefano Rotondo

gennaio 26, 2021

È una delle chiese più sorprendenti di Roma, eppure, forse per la sua posizione leggermente defilata, non è una di quelle prese d’assalto dai turisti. Ma di curiosità e di primati anche qui ce ne sono in abbondanza. Innanzitutto, la sua forma, che costituisce il primo esempio conosciuto a Roma di chiese a pianta rotonda (il Pantheon non conta, in quanto nasce come tempio pagano, mentre quello di Costanza in realtà era un mausoleo), è inoltre dedicata al primo martire cristiano. La meraviglia sta proprio nella struttura circolare, voluta da papa Simplicio nel V secolo d.C., nel giro di colonne al centro, che la rende molto simile alla basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme, alla quale in molti credono sia ispirata.


Sorge sui resti dei Castra peregrinorum, la caserma delle truppe provinciali distaccate a Roma, e sui resti di un antico mitreo, dal culto di Mitra, che era molto popolare fra i legionari romani. Per accedere nel cortile che conduce all’entrata, si passa sotto un’arcata dell’acquedotto Neroniano.


Una volta al suo interno è facile perdere l’orientamento, ci si sente come storditi, ma basta poco che quelle linee curve diventano un abbraccio e subentra una piacevole sensazione di pace. Questa atmosfera raccolta, ne fa uno dei luoghi privilegiati, scelti dalle coppie, per pronunciare il fatidico sì. Il suo aspetto, ai tempi di Sulpicio, era comunque diverso. Consisteva in tre navate circolari e concentriche, ognuna delle quali era separata dall’altra mediante giri di colonne antiche, di spoglio. Durante il restauro del 1450, voluto da Nicolò V, fu murato l’anello esterno e ridotte le dimensioni della chiesa, che cambiò aspetto.


A questo punto, a ben guardare quel “nuovo muro”, quell’effetto rassicurante di cui sopra, sparisce all’improvviso e sopraggiunge lo spavento. Come in un truculentissimo film splatter, scorre davanti ai nostri occhi la rappresentazione del più grande martirologio della storia dell’arte. Nel 1582, quando Gregorio XIII consegnò il complesso al Collegio Germanico Ungarico, le pareti della chiesa, che chiudevano l’ambulacro, furono affrescate dal Pomarancio, al secolo Niccolò Circignani, con la collaborazione di Matteo da Siena per le prospettive, con un ciclo di 34 scene raffiguranti il martirio dei primi cristiani.


Siamo alla fine del Cinquecento, in piena Controriforma e la scelta di un soggetto così raccapricciante aveva uno scopo ben preciso: informare i missionari gesuiti in partenza per il Sud America dei pericoli a cui andavano incontro, avvertendoli della possibilità del martirio che avrebbero potuto subire. Neanche la scelta della chiesa era stata fatta a caso: Santo Stefano era stato il primo martire, il numero zero di una lunga serie.


Per i seminaristi il ciclo d’affreschi rappresentava una sorta di addestramento militare, ma l’avvertimento era valido anche per i fedeli: attenzione, perché gli indigeni del Sud America sono pericolosi quanto ogni altro eretico, protestanti compresi, quindi in campana e occhi bene aperti. Non è l’unico esempio di decorazioni di questo genere, altre chiese di Roma offrono soggetti simili, ma il martirologio di Santo Stefano Rotondo è unico per il sorprendente realismo, quasi insopportabile per un pubblico impressionabile o debole di stomaco: c’è chi viene sbranato da belve feroci,


chi affogato con una pietra al collo, chi schiacciato da pesanti massi, chi arso vivo, chi accecato, chi trafitto da spade, chi cotto in un calderone,


chi dilaniato dalla ruota, chi sbollentato nell’olio, chi strangolato, chi lapidato, chi mutilato, il tutto in un tripudio di dettagli truculenti come intestini spappolati, occhi che fuoriescono dalle orbite, mani mozzate, lingue recise, denti cavati, seni strappati e sangue, tanto sangue.


Stendhal ne rimase disgustato, disse che gli affreschi erano troppo spaventosi anche solo per parlarne, ma se reputate lo scrittore francese eccessivamente emotivo, sappiate che perfino il marchese De Sade, che di sadismo se ne intendeva, rimase piuttosto turbato, tanto da scrivere: “Lungo le pareti della chiesa vi sono degli affreschi che rappresentano un’infinità di martiri al momento del supplizio.


È una delle collezioni più spaventose di orrori che sia possibile mettere insieme”. Al centro dell'aula vi è un recinto ottagonale a stucco, decorato da Antonio Tempesta con le "Storie di S. Stefano", la "Strage degli Innocenti" e la "Madonna dei Sette Dolori".


Un’altra curiosità si trova nella piccola cappella dedicata ai Santi Primo e Feliciano: è un antico mosaico del VII secolo, in cui è raffigurato un Cristo benedicente, anziché crocefisso, entro un medaglione sovrastante una croce.


Un’iconografia decisamente inconsueta che richiama i tempi in cui il primo cristianesimo evitava figurazioni cruente. Le reliquie dei due santi, a cui la cappella è dedicata, provengono da un antico cimitero sulla Nomentana e furono portate qui per volere di papa Teodoro. Erano gli anni attorno al 647 e si trattò di una delle primissime traslazioni entro la città; in seguito, com’è noto, divenne la prassi normale.


Nella chiesa si pensa abbia predicato anche san Gregorio Magno, al quale viene attribuita una cattedra che tuttora è qui conservata, un sedile in marmo di epoca romana, dal quale vennero eliminati nel XIII secolo la spalliera ed i braccioli.




(Gabriella Serio – Curiosità e segreti di Roma)
(Marita Bartolazzi - Le strade del mistero)
(Giulia Fiore Coltellacci – I luoghi e le storie più strane di Roma)

You Might Also Like

0 commenti

POST POPOLARI