Teresa Bennicelli
gennaio 31, 2020Nel dicembre 1925 tutta Roma si
scosse all'annuncio che era morto il Conte Tacchia. Il compianto fu unanime:
Adriano Bennicelli per quasi venti anni aveva deliziato la capitale, con le sue
stranezze e le sue amene prepotenze. Temperamento impulsivo, generoso,
insofferente, egli assai bene incarnava (pur con un certo spirito di
signorilità), la spregiudicata franchezza, la scottante ironia e l’indole
personalissima degli autentici romani d’un tempo. Si rievocarono vecchie storie
e vecchi tipi della famiglia Bennicelli, gente alla buona, pervenuta
all'agiatezza e alla nobiltà, come i Grazioli, i Chiassi ed altri, attraverso
un duro e onesto lavoro. Larga notorietà ebbe un tempo a Roma don Bennicelli,
molto santo e parecchio bizzarro parroco della Maddalena. Appunto nella piccola
e ricchissima chiesa dei Camillini, nella cappella laterale che, a destra
dell’altar maggiore, separata com'è da un nero e grosso cancello, sembra quasi
una minuscola chiesa a sé, c’è un marmo funebre che bisogna osservare. Il
latino chiesastico porta il giorno della morte: 21 luglio 1842 e l’età, 23 anni
e poi il nome: Teresa Bennicelli. Era bella, era bruna, era l’orgoglio della
madre e dei fratelli. E madre e fratelli, con tenerezza appassionata, facevano i
più lieti disegni per il suo avvenire, ma furono sogni. Un giorno Teresa
conobbe un cadetto dei dragoni pontifici, giovane bello, simpatico, affabile;
bello sì, ma senza beni di fortuna. Si videro e si amarono, illudendosi che il
loro grande amore sarebbe valso a infrangere tutti gli ostacoli. La necessità
di nascondere, almeno per il momento, agli occhi di tutti la pura e ardente
passione, ne accresceva l’intimo ardore. Ma, col tempo, gli ostinati silenzi,
l’ansioso pallore, i lenti sguardi insaziati misero in sospetto la famiglia.
Con l’austerità delle antiche famiglie non si poteva permettere che la
fanciulla nutrisse un’aspirazione e un affetto di libera scelta. Dai sospetti
si passò a una cauta sorveglianza, finché una sera, a ora tarda, fu sorpresa
mentre rispondeva a una lettera del suo innamorato. Addio pace domestica!
Rimbrotti, divieti, visi severi, musi lunghi e occhiate minacciose. La ragazza
fu guardata a vista e al giovane si fece sapere che smettesse ogni
corrispondenza, precisando in termini crudi che mai si sarebbe acconsentito a
simile unione. Né bastò: passano alcuni giorni e il cadetto riceve, dal
colonnello, l’ordine di trasferirsi, “illico et immediate”, al
distaccamento di cavalleria di guarnigione a Viterbo. Era facile capire che si
era brigato, per vie occulte e si era ottenuto un tal risultato. I fratelli si
stropicciarono le mani, giulivi, convinti di aver schiantato il male dalle
radici e non s’avvedevano che attiravano la sventura sulla loro casa. La povera
Teresa sentì tutta la violenza del colpo: il suo cuore spasimò fino a
spezzarsi. Un simile allontanamento le rendeva difficile, per non dire
impossibile, ogni comunicazione. Però, trascorse appena due settimane,
l’impaziente giovane ottenne una breve licenza, si precipitò a Roma, gli riuscì
di far sapere il suo arrivo e poté rivederla nella notte, dalla strada, da cui
non si allontanò che alle prime lividi luci dell’alba. Furono notti di gioia e
martirio, di esultanza e di parole tenerissime e di giuramenti. Poi di nuovo il
silenzio e la solitudine. La poveretta divenne melanconica, taciturna,
astratta, insensibile a ciò che la circondava. L’anima, perdutamente malata
d’amore, riverberava e traeva il delicato corpo a consunzione. La famiglia si
impressionò del suo stato; i medici consigliarono l’immediato cambiamento
d’aria. Fu mandata in campagna, ma essa non riuscì a distrarsi, il deperimento
progrediva nel suo corso fatale. Venne il giorno in cui la scienza medica
dichiarò di non poter far che ogni speranza andava rapidamente dileguandosi. A
quell'annunzio la casa fu sossopra. Un’ansia indefinibile, spaventevole invase
gli animi di tutti. Furono pianti, pentimenti, disperazioni. Fu soprattutto
rimorso. E siccome si voleva tutto tentare, riparare al mal fatto, furono superate
tutte le difficoltà, si promise tutto, si accondiscese a tutto. La madre, con
finta lietezza, ma col cuore in angoscia, confidò a Teresa che i fratelli
avevano mutato consiglio e acconsentivano che il soldato la venisse a trovare.
A tale annunzio non diede segno di letizia: levò gli occhi al cielo e crollò
leggermente la testa che teneva reclinata sul guanciale. Il giorno dopo,
accompagnato da due dei fratelli, il giovane, in uno stato difficile a
descriversi, entro nella camera della morente. Al vederla così mutata, incerto
e quasi atterrito, ristette un attimo, poi tremante, convulso, afferrò le mani
di Teresa, le baciò più volte, la chiamò coi più dolci nomi e tra singhiozzi
infrenabile implorò uno sguardo, una parola. Essa schiuse a stento gli occhi
languidissimi: poi con voce che era divenuta un soffio mormorò: “E’ tardi,
troppo tardi” e cercò di stringere la mano dell’uomo per il quale, tributo
d’immenso amore, sentiva di aver sacrificato la vita. Tre giorni dopo, dame e
damigelle dell’aristocrazia e una fiumana di popolo si riversavano nella chiesa
di San Salvatore in Lauro. Su una bara di nero velluto tutta frange d’oro
giaceva la povera Teresa vestiva, amara ironia, di una ricca veste da sposa,
tutta guarnita di veli, nastri, stelle d’argento e fiori freschissimi. Sul
finire della messa, mentre l’organo mandava suoni mesti e lenti, quasi ad
accompagnare il muto pianto della folla, si sentì un concitato batter di sproni
e un giovane ufficiale, terreo in viso, si fece largo, giunse presso la bara, si
fermò a guardare con occhi esterrefatti l’estinta “morta parea nel suo bel
viso”, si chinò a baciarle replicatamente le mani, le impresse un lungo,
disperato bacio sulla fronte, le staccò un fiore che teneva appuntato sul petto
e scomparve. Dopo un così drammatico addio corse in casa, si chiuse in camera e
senza un gemito, senza un lamento, staccò da una parete una pistola, balbettò
una preghiera, bacio e ribaciò una ciocca di capelli, puntò l’arma verso il
petto e con rapido movimento fece scattare il grilletto. Il cane batte sulla
pietra focaia, ma la polvere non prende fuoco. Impaziente solleva la molla e
con tremendo sangue freddo ripete la prova: ma il colpo che doveva ucciderlo
non esplode. Allora rientra in sé, getta l’arma lontano ed esclamando: “Dio mi
riserva forse un altro destino”, esce di casa e si avvia verso la Piazza
Barberini. Otto giorni dopo il Generale dell’ordine dei Cappuccini accoglie tra
i novizi e veste del saio, il venticinquenne Pio Pratesi. Due anni più tardi
padre Pacifico da Roma, tale il nome da lui assunto, celebra la sua messa
novella sulla tomba di Teresa Bennicelli, presso quella lapide il cui freddo
marmo bene sembra intonarsi alle memorie della fanciulla romana, morta d’amore.
E chiunque si ferma lì presso, non può trattenere un brivido di commozione,
leggendo le lodi di lei che era “forma et moribus praestans” ed era adorna del
più gentil fiore di “virtù insignis castitate”. La lunga e commovente
iscrizione accenna velatamente alla triste sorte di lei giacché reca che fu
spenta da un “rapace morbo”. Non si è voluto che nella penombra della cappella,
sotto gli occhi soavi della Vergine che è sull'altare, sotto quel Cristo che
attraverso il cristallo, tra i cuori votivi, sembra volgere intorno il suo
sguardo severo, non si è voluto esprimere tutto il nascosto tormento di
quell’anima appassionata, tutto l’arcano dolore della famiglia che piangeva
l’irreparabile perdita, ma si è solo, nella prima linea dell’iscrizione,
lasciato inciso come un grido d’ammirazione di pietà, un grido che risuona
ancora nel nostro cuore mirare qui legis (ammira, tu che leggi). È un
elogio colmo di dolorosa tenerezza per chi non seppe recare all'uomo amato e
sognato, nulla più che il mistico e crudele dono dell’amore e della morte.
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