Si legge spesso sulle cronache locali
la notizia di atti vandalici contro i busti del Pincio. Nel corso di uno degli
ultimi furono sfregiati Leopardi, i pittori Paolo Veronese e Alessandro Peruzzi
e l’architetto cinquecentesco Giacomo Barozzi detto Vignola. I balordi, guidati
probabilmente da una buona dose di alcool e di insolenza, si “divertirono” a
far saltare i nasi delle statue, prendendoli di mira con sassi e bastoni. Anzi,
per le sculture andò meglio di altre volte, quando alcune, tra cui quella di
Cavour, vennero divelte dai propri piedistalli lungo il viale del Belvedere. Ed
è curioso come le disavventure di questi marmi, dedicati alle memorie di grandi
personalità italiane, siano ricorrenti e non occupino solo le cronache più
recenti. Si può dire che la cattiva sorte li abbia accompagnati fin
dall’inizio. L’idea della loro realizzazione risale al 1849, su proposta di
Giuseppe Mazzini, che ne volle commissionare l’opera agli artisti caduti in
disgrazia e rimasti senza lavoro, in seguito ai moti del ’48. L’intento voleva
essere, probabilmente, quello di suscitare un po’ di orgoglio e coscienza
nazionale nel popolo che, passeggiando per i viali del parco, avrebbe
ripercorso, attraverso una galleria di italiani illustri, la storia del proprio
Paese.
Il Pincio fu, d’altronde, la prima area di verde pubblico messa a
disposizione dei cittadini della Capitale. Quante belle speranze animavano
l’”apostolo” del Risorgimento italiano, che dovette far presto i conti con una
realtà che non corrispondeva al suo entusiasmo. Problemi burocratici e mancanza
di fondi ritardarono, come sempre succede da noi, i lavori e la collocazione,
fino a quando la sollecitudine papale ne accelerò i tempi a scapito, tuttavia,
dell’originario progetto. Alcune immagini, infatti, non piacquero a Pio IX,
perché ritenute di eretici, atei e rivoluzionari. Ebbe così inizio
quell’irrefrenabile “vizio” di voler loro cambiare i connotati. Ad alcuni
scultori, tra cui il Sarrocchi, venne affidato il compito di mutare la
fisionomia di quei personaggi non graditi al papa e di ricavarne nuove
somiglianze e nuove denominazioni. In questo modo l’ultimo ferito, il senza
naso Leopardi, cela in realtà le sembianze del pittore Zeuxis, originario del
Ponto Eusino, forse reo di aver raffigurato nelle sue opere, sul finire del V
secolo a.C., gli dèi del pantheon greco. Al posto dell’eretico Savonarola si
preferì il musicologo e teologo Guido D’Arezzo, quello che, tra i vari lampi di
genio, assegnò un nome a ciascuna delle note del pentagramma. L’oratore e
tribuno della plebe Gaio Gracco, assassinato perché in contrasto con
l’oligarchia dominante, cedette il posto all’architetto Vitruvio, autore del
celebre trattato De architectura, dedicato all’imperatore Augusto.
Un’altra statua è segnalata come quella di Orazio. In realtà, la persona
effigiata non è il poeta del carpe diem, ma il condottiero Erasmo da
Narni, detto il Gattamelata, che con l’ars poetica ha veramente poco a
che fare. In questo caso, gli scultori non si preoccuparono nemmeno di
rimodellare la pietra e, sebbene i lineamenti del vate fossero noti attraverso
antichi medaglioni romani, si limitarono semplicemente a cambiare il nome
inciso alla base del busto.
Persino la presenza di Vittorio Alfieri urtò la
“sensibilità” di Pio IX (che precipitosamente la fece sostituire con quella di Vincenzo
Monti): fu forse a causa della passione amorosa del poeta, indirizzata spesso
verso donne sposate, che lo costrinsero a fughe precipitose o in qualche caso a
veri e propri duelli con gli oltraggiati mariti, oppure per gli scritti
satirici sui costumi italiani (tra cui Il divorzio). In ogni caso, la
censura dell’Alfieri tra gli immortali del Pincio non ebbe lunga durata. Il
Comune di Roma, difatti, nel 1871 (e col papa chiuso in Vaticano dopo la
breccia di Porta Pia), decise di dedicargli un busto nuovo di zecca. Sparse per
i viali del colle, le statue raggiungono oggi il cospicuo numero di
duecentoventotto. In realtà, la loro sistemazione si è prolungata oltre il
1900, e un’intera area, piazza dei Martiri, è stata destinata alla memoria
degli uomini illustri caduti nella Prima Guerra Mondiale. L’ultimo intervento
risale alla fine degli anni Sessanta. Ahimè, sono solamente tre i busti
dedicati alle donne: la poetessa Vittoria Colonna; la scrittrice premio Nobel
Grazia Deledda e, infine, ma non meno importante, la santa e compatrona di
Roma, Caterina da Siena, recentemente “eletta” protrettrice dei pattinatori
che, com’è noto, confluiscono puntualmente ogni weekend lungo i viali del
Pincio. Questi monumenti, realizzati in marmo di Carrara e travertino, non
sono, è certo, opere di noti e raffinati artisti. In ogni caso la loro presenza
rappresenta una curiosità e un’esclusività del parco del Pincio, nonché una
memoria storico importante per tutti gli italiani. C’è solo da augurarsi che un
maggior controllo faccia cessare una buona volta i raid vandalici che troppo
spesso relegano le erme negli studi dei restauratori.
(Gabriella Serio - Segreti e curiosità di Roma)