Il carcere Regina Coeli

febbraio 26, 2021


Diceva una vecchia ballata popolare: “Dentro Regina Coeli c’è sta ‘no scalino, chi nun salisce quello nun è romano e manco trasteverino”. Lo scalino in questione è quello dietro il grande portone al civico 29 di via della Lungara, a Trastevere. In realtà, però, non è attraverso quel gradino che i detenuti vengono portati in carcere, ma tramite l’ingresso che si trova in via San Francesco da Sales, alle spalle di via della Lungara.


Il carcere di Regina Coeli, per i romani, non è un semplice reclusorio, ma piuttosto un luogo simbolo, una sorta di monumento carico di suggestioni.  Ad aumentare l’atmosfera cupa e austera del carcere è la sua posizione. Si trova sprofondato qualche metro sotto il Lungotevere, in un angolo scuro e vagamente malandato. È come se tutte le vie e i vicoli intorno scontassero una parte delle pene del migliaio di detenuti che qui sono reclusi. Dopo l’Unità d’Italia e l’elezione di Roma a capitale, si rese necessario adeguare il sistema carcerario pontificio. Il reclusorio femminile del Buon Pastore, le Carceri Nuove di via Giulia e il complesso del San Michele a Ripa Grande, come aveva sottolineato anche il “Times”, erano ormai strutture vecchie, non di rado ex monasteri e conventi riadattati alla meglio e in cui le evasioni erano piuttosto frequenti. Inizialmente si pensò alla costruzione di un moderno istituto di pena, ma alla fine si decise di ristrutturare un complesso preesistente, costituito da un monastero seicentesco, chiamato Regina Coeli perché le monache, carmelitane scalze, avevano l’obbligo di recitare ogni quattro ore l’antifona Regina Coeli, nome che rimase anche per il nuovo Carcere.  


In quegli anni già esisteva una piccola casa circondariale riservata alle donne, chiamata dai romani “le Mantellate”, perché situata nell’omonima via che un tempo ospitava un convento delle suore mantellate. Anche in questo caso, c’è una nota canzone popolare che recita: “le Mantellate so’ delle suore, ma a Roma so’ soltanto celle scure…”. La via è un breve tratto rettilineo che dalla Lungara termina alle pendici del Gianicolo.


Qui si trova un angolo di Roma molto suggestivo, chiuso tra alti muri, il verde del vicino orto botanico e i resti di quella che una volta era la chiesa del convento delle suore, presso la bella scalinata in fondo alla via.


Dall’altro lato, a ridosso del Lungotevere, troviamo una porticina, è l’accesso al parlatorio, dove i detenuti possono incontrare i familiari sotto lo sguardo severo della polizia penitenziaria. Nel giro di una decina d’anni nacque così la prigione trasteverina in cui lavori, diretti dall’ingegner Carlo Morgini, furono eseguiti in grande economia e con il contributo dei reclusi. Al termine della costruzione il costo fu di circa il 43% in meno rispetto al prezzo corrente sulla piazza. Non fu quindi il “grande carcere degno della civiltà dei tempi e di Roma Capitale” che avrebbe voluto il governo e più volte nel corso degli anni si è diffusa la notizia del suo smantellamento, che ancora oggi non si è mai verificato. Il primo ad annunciare con fermezza la chiusura dei battenti fu Benito Mussolini nel 1936 e, visto il personaggio, c’era da credergli davvero. Come al suo solito, aveva in mente grandiosi e sventratori progetti. Il primo: demolire tutto per aprire una scalinata monumentale che dalla Lungara salisse al Gianicolo. Il secondo: costruire una nuova città penitenziaria sulla Boccea. Ma non se ne fece più nulla perché le risorse economiche furono dirottate per la guerra di Etiopia (dodici miliardi di lire) e per gli aiuti ai nazionalisti spagnoli di Franco (cinque miliardi). Un nuovo conto alla rovescia per la chiusura avvenne negli anni Settanta, con l’apertura del complesso di Rebibbia. Anche allora, però, nuovo stop. Se ne parlò, infine, agli inizi del 2000, quando si disse che la struttura sarebbe stata trasformata in un centro culturale. Comunque sia, tra proclami e polemiche, emergenze e ristrutturazioni, Regina Coeli, o semplicemente “er Coeli” per i romani, svolge ancora la sua funzione di carcere di “primo arresto” (dove cioè il recluso si trattiene, in genere, solo per i tempi degli interrogatori e dell’eventuale processo). Magari il futuro sarà pure già domiciliato a Rebibbia, ma il passato rimane attestato qui in via della Lungara.
 Se le celle potessero parlare, racconterebbero una storia lunga e avvincente che va dai coltelli dei bulli del rione, ai mitra dei nazisti, dalla caduta della mala romana del dopoguerra, all’avvento delle nuove leve del terrorismo, della droga e delle bande organizzate. Ne è passata di gente da queste parti, e non solo criminali. Durante il fascismo il carcere fu prima adibito a scuola di polizia e poi, sotto l’occupazione nazista, a prigione per detenuti politici insieme a quella più famosa di via Tasso.


In quegli anni di oppressione straniera, un intero braccio del carcere era dedicato ai condannati a morte e le fucilazioni si svolgevano a ritmo sostenuto, specialmente a ridosso della liberazione. Fra quelle mura, vi soggiornarono, fra gli altri Antonio Gramsci, Alcide De Gasperi, Cesare Pavese, Luchino Visconti e due futuri presidenti della Repubblica: Sandro Pertini e Giuseppe Saragat, protagonisti peraltro di una rocambolesca fuga il 24 gennaio 1944. Non andò allo stesso modo per don Giuseppe Morosini, accusato di essere un esponente della resistenza. Dopo crudeli torture per fargli confessare i nomi di altri partigiani, fu fucilato da un plotone italiano a Forte Bravetta: al segnale “fuoco” dieci uomini spararono in alto, due lo colpirono ferendolo gravemente, fu finito dal comandante del plotone con un colpo alla nuca.


Ovviamente non lo si può visitare pagando un semplice biglietto d’ingresso, ma in compenso si può salire sulle pendici del Gianicolo per avere un’idea d’insieme delle architetture del complesso. E anche per udire, ma sempre più di rado, le “trasmissioni telegrafiche” dei familiari ai detenuti nel carcere, che da alcuni punti del colle dista pochissimi metri. Fino a qualche tempo fa, si trattava di una consolidata tradizione, che le forze dell’ordine, in una sorta di cavalleresco rispetto, lasciavano correre. E così si urlavano a squarciagola testimonianze d’affetto del tipo “te salutano Mario e l’amici der bar” o piuttosto secchi consigli processuali “dice l’avvocato che hai da negà”. Rispondere è sempre stato vietato, ma per segnalare la ricezione del messaggio bastava accendere un fiammifero e muoverlo avanti e indietro tra le grate, verso il “famoso” cielo a scacchi.

(Gabriella Serio - Curiosità e segreti di Roma)
(Claudio Colajacomo - Roma perduta e dimenticata)


You Might Also Like

0 commenti

POST POPOLARI