7° ITINERARIO - RIONE V PONTE (PRIMA PARTE)

giugno 18, 2021

Totale percorso km 2,1 questa la mappa

Il rione V, deve il suo nome al famoso Ponte Sant'Angelo, l’antico ponte Elio, fatto costruire dall'imperatore Adriano nel 134, per poter accedere al suo mausoleo. Oltre ad essere il più bello, è anche l’unico, fra tutti i ponti romani, ad avere resistito quasi duemila anni senza mai crollare per effetto delle piene del Tevere.
Il rione si estende lungo il fiume e per questo, un tempo, terreno di paludi e di frequenti alluvioni. Il primo a restaurarlo, fu papa Sisto IV che, nel XV secolo, fece selciare tutte le vie e ripulire la zona da tutti i tuguri fatiscenti.  Da Ponte S. Angelo si diramano le strade che portano nel cuore del rione. Non ci sono siti famosissimi, è un labirinto di stradine e stretti vicoli, dove è bellissimo passeggiare, anche a caso, osservando con calma ogni piccolo particolare, alla ricerca dei moltissimi angoli pittoreschi che è possibile scorgere.
Vicolo in via dei Coronari e Via del Banco di Santo Spirito
Anche in questo caso, preferisco dividere la visita in due parti, per poter girovagare, vicolo per vicolo, in ogni angolo di Ponte. Una caratteristica del rione sta nel suo impianto architettonico medievale, costituito da innumerevoli archi, toponimo che ritroviamo spesso nelle sue strade: arco dei Banchi, arco della Fontanella, Arco della Pace, Arco di Parma, Arco degli Acquasparta e c’è perfino una via dei Tre Archi. Gli archi svolgevano una funzione di puntello tra una casa e l’altra e, in qualche caso, potevano contenere camere aggiuntive. Non potevo non iniziare questa mia passeggiata dalla strada che porta il mio nome: Via Paola, che è una delle tre strade, insieme a via del Banco di Santo Spirito e via di Panico, che convergono verso il Ponte, formando un piccolo tridente. Arrivo in Piazza dell’Oro, caratteristica piazzetta all'inizio della splendida via Giulia, dove prospetta la bellissima facciata della Chiesa di San Giovanni dei Fiorentini.
La chiesa fu costruita per volere di papa Leone X Medici, per la numerosa comunità fiorentina che viveva in questa zona, e per questo dedicata al Santo Patrono di Firenze. Iniziata nel 1519 da Jacopo Sansovino, richiese quasi un secolo per essere completata, passando sotto la direzione di Antonio da Sangallo il Giovane, di Giacomo Della Porta e infine di Carlo Maderno che nel 1620 realizzò la caratteristica cupola a forma allungata, che i romani ribattezzarono subito con l’appellativo “il confetto succhiato”. La facciata invece fu realizzata da Alessandro Galilei e finita nel 1734. L’interno è a tre navate, separate da grandi pilastri, con cinque cappelle per lato. In questa chiesa sono stati sepolti Carlo Maderno e Francesco Borromini.
Quest’ultimo a causa di una profonda depressione si tolse la vita gettandosi su una spada, ma non morì subito e durante i due giorni di agonia che seguirono al suo disperato gesto, accettò i Sacramenti e si pentì, per questo fu accolta la sepoltura in un luogo consacrato. Per molto tempo si pensò che i Trinitari, che avevano per lui riservato un posto nella cripta di S. Carlo alle Quattro Fontane, non avessero voluto accoglierlo in quanto suicida. Ma un testamento trovato attestò, invece, che fosse volontà dell'artista, quella di essere sepolto nella chiesa dove era ospitato anche il suo Maestro, nonché parente alla lontana, Carlo Maderno.  L’artista è anche l’autore dell’altare maggiore e della cripta della famiglia Falconieri, la sua ultima opera, poi completata dai suoi allievi, dopo la sua morte. Dietro l’altare, è collocato il gruppo marmoreo del Battesimo di Gesù di Antonio Raggi.
Da pochi anni, invece, è tornato nella sua collocazione naturale, dopo un assenza di oltre quattrocento anni, il colossale "Battesimo di Cristo", gruppo scultoreo in marmo, capolavoro barocco di Francesco Mochi, realizzato tra gli anni Trenta e Quaranta del '600, appositamente per l'altare maggiore della chiesa, dove, in realtà, non venne mai posizionato, girovagando fra Palazzo Falconieri, in via Giulia e, dagli anni '80 del Novecento, Palazzo Braschi.
Nella chiesa, infine, è sepolto anche il famoso Marchese del Grillo.
Un ultima curiosità: questa è anche, forse, l’unica chiesa dove gli animali sono bene accetti durante la Messa. Uscendo dalla chiesa, sulla piazzetta, notiamo delle caratteristiche case quattrocentesche, con finestre ad arco e cornici in travertino, chiamate “Case dei Fiorentini”, in quanto erano state donate da papa Giulio II alla suddetta comunità fiorentina. Su ambedue le facciate della prima palazzina (sia quella che affaccia sulla piazzetta, che quella in via del Consolato), è apposto, all'interno di una cornice marmorea, il giglio simbolo di Firenze.
L’altra palazzina appartenente alla Comunità era quella al civico 82 di Via Giulia, con il caratteristico balconcino sopra il portone ad arco bugnato. Fra le due case, un edificio Cinquecentesco chiamato “Casa Sangalletti” dal nome del cameriere segreto di papa Pio V, nonché maggiordomo del cardinale Ferdinando de’ Medici, che vi ha abitato per una ventina di anni. Il cortiletto interno è delizioso, con un sarcofago strigilato del III secolo che funge da fontana. Inizio la mia passeggiata su via Giulia, per la parte che riguarda il rione Ponte, visto che l'altra metà appartiene a Regola.
Nei primi anni del Cinquecento papa Giulio II, insieme al Bramante, progettò la nuova strada, la prima e più lunga via di Roma, un rettilineo di circa un chilometro, che fu chiamata “strada Julia”. Vennero a costruire qui i loro palazzi  i nomi più importanti dell’epoca, dai Ricci ai Chigi, ai Sacchetti, il cui palazzo è proprio poco più avanti, ma prima di arrivarci, sulla sinistra, un iscrizione sulle tre finestre al primo piano di un edificio colpisce la mia attenzione: “POSSEDEVA – RAF  SANZIO – NEL MCXX”; tradizione dice sia la casa in cui visse Raffaello, ma è più probabile, invece, che qui avesse dei terreni, sui quali fu costruito l’edificio, visto che l’artista morì prima che il palazzo fosse completato.
Al civico 66 è Palazzo Sacchetti, forse il più bello di tutta la via. Fu costruito su progetto di Antonio da Sangallo il Giovane per sé stesso, ma l’artista vi abitò solo pochi anni prima di morire nel 1546.
Fu venduto, passando attraverso diversi proprietari, che lo ampliarono e restaurarono, ma poi sempre costretti a rivenderlo, per poter rientrare delle spese sostenute, fino al 1648 quando venne acquistato dai Sacchetti. Sulla facciata in una nicchia era presente uno stemma di Paolo III Farnese con la scritta: “TU MIHI QUODCUMQUE HOC RERUM EST”, che voleva essere un omaggio dell’artista verso il papa che, con la sua protezione, gli aveva permesso di vivere in modo tanto agiato.
Ma nel 1799, lo stemma del giglio Farnese, venne scambiato dai francesi per quello della casa reale di Francia, appena soppressa con la rivoluzione, e la superficie venne tutta graffiata. Angolo con il palazzo è vicolo del Cefalo, e strani “sedili” affacciano lungo le pareti di tutto l’isolato, che da qui arriva fino alla traversa successiva, che è via dei Bresciani. Si tratta delle fondamenta di quello che doveva essere, nei progetti di Giulio II e del Bramante, il Palazzo dei Tribunali, dove riunire tutte le prefetture e tribunali sparsi in varie parti di Roma. Il progetto però si fermò poco dopo a seguito della morte sia del papa che dell’architetto, ma restarono le fondamenta, che sono ancora lì, inglobate dai palazzi costruiti dopo, e soprannominate dal popolo romano “i Sofà di via Giulia”. 
Al centro dell’isolato la chiesa di San Biagio degli Armeni, o della Pagnotta, cosi chiamata perché il giorno della ricorrenza del Santo, il 3 febbraio, la chiesa distribuisce dei panini benedetti, che allontanano le malattie della gola, essendo San Biagio protettore proprio di questa parte del corpo. Era infatti un medico che curava i poveri, e mentre veniva portato al martirio, una donna con un bambino che stava soffocando per una spina di pesce andata di traverso, gli si avvicinò; lui poggiò le sue mani sulla gola del piccolo e lo guarì.
Questo miracolo lo vediamo rappresentato sull’affresco che sovrasta il portone. La chiesa venne affidata nel 1836 all’Ospizio degli Armeni. Via Giulia è un concentrato di chiese, ce ne sono ben sette! La prossima che incontriamo, subito dopo via dei Bresciani, è la Chiesa di Santa Maria del Suffragio, costruita da Carlo Rainaldi nel 1669, per l’Arciconfraternita che aveva il compito di pregare per le anime del Purgatorio. 
Ha una bella facciata in travertino, divisa in due ordini: il superiore con lesene a capitello ionico, e finestrone centrale, l’inferiore con lesene a capitello in stile composito, un bel portale con timpano triangolare, e due portoncini laterali con timpano curvo. Sono arrivata in via del Gonfalone, che prende nome dall'Oratorio, costruito sull'antica chiesa di Santa Lucia, che continuò ad essere utilizzata come luogo di sepoltura.
L’attività dell'Arciconfraternita iniziò alla fine del Quattrocento e durò fino al 1890, occupandosi di opere assistenziali, organizzando anche numerose processioni e cerimonie; molto caratteristici i loro abiti bianchi con il cappello blu. L’oratorio, che custodisce preziosi dipinti raffiguranti le “Storie della Passione di Cristo”, opera dei principali esponenti del Manierismo romano, cadde in disuso e fu abbandonato tanto da diventare un “deposito” per i netturbini. All'inizio del Novecento, fu restaurato dalla soprintendenza e dal 1960 è affidato al Coro polifonico romano. L’adiacente Museo Criminologico nato con l’intenzione di ricostruire la storia del crimine e del suo castigo e illustrare l’attività di polizia, è purtroppo chiuso ormai dal 2016, senza che si abbia un’idea di quando sarà possibile riaverlo a disposizione. Era nato nel 1930, con sede nella prigione seicentesca delle Carceri Nuove, in via Giulia. Venne poi chiuso negli anni Sessanta e riaperto nella nuova sede di Via del Gonfalone, nei primi anni Settanta, per essere chiuso nuovamente verso la fine di quegli stessi anni. Rimasto chiuso per una quindicina di anni, riaprì nel 1994 con un nuovo assetto. Diviso in tre sezioni: le prime sale sono dedicate al periodo dal Medioevo al XIX secolo, e agli oggetti utilizzati per le torture, allo scopo di ottenere confessioni o quelli utilizzati nelle esecuzioni, come per esempio la spada che decapitò la giovane Beatrice Cenci. Nella stessa sezione si trova il mantello rosso che era solito indossare il Boia ufficiale di Roma, mastro Titta. 
Poi ci sono le sale dedicate al contrabbando, con oggetti utilizzati per sfuggire ai controlli della polizia; la sezione dei falsi: dai quadri d’autore falsificati a strumenti per ottenere banconote e francobolli falsi, e la sezione delle malizie carcerarie, come Cesare Lombroso definiva le ingegnose invenzioni che i detenuti mettevano in atto per imbrogliare le guardie e nascondere per esempio oggetti con i quali tentare l’evasione o provocarsi ferite. C’è infine, la pistola usata da Gaetano Bresci per uccidere il re Umberto I, le armi usate per compiere delitti passionali, o gli strumenti con cui la mafia ammazzava i suoi nemici, e un’area dedicata agli omicidi che hanno destato, nel corso del Novecento, maggior scalpore, primo su tutti quello di Aldo Moro ad opera delle Brigate Rosse. Per info qui
Sono arrivata alla fine dell'appartenenza di via Giulia al rione Ponte, da qui fino alla fine in piazza di San Vincenzo Pallotti, la strada, come abbiamo detto, fa parte del rione Regola. Svolto quindi a sinistra su via delle Carceri e arrivo in via dei Banchi Vecchi, ad angolo sulla destra trovo subito la Chiesa di Santa Lucia al Gonfalone. Probabilmente costruita tra il XII e il XIII secolo, venne affidata alla fine del Quattrocento all'Arciconfraternita del Gonfalone, e dopo vari restauri nel 1511 e nel 1603, venne ricostruita nel 1764 in stile tardo-barocco, e nuovamente restaurata nel 1866 da Francesco Azzurri, che fu anche l’autore della decorazione interna. La facciata presenta un bel portale affiancato da due semi colonne nella parte inferiore, e in quella superiore un bel finestrone centrale; l’interno è a navata unica e tre cappelle per lato. 
Fra le opere più interessanti, un Crocefisso ligneo del XVI secolo e, sopra l’altare maggiore, un dipinto del Cinquecento raffigurante la “Madonna del Gonfalone”. Uscita dalla chiesa, vado a sinistra; anche qui bisogna andare piano, e guardarsi intorno, osservare bene i particolari, le finestre ad arco, il cornicione con greca a svastica, che nulla a che vedere con la simbologia che, purtroppo, soli dodici anni di storia (dal 1933 al 1945) hanno contribuito a dare a questo simbolo. In realtà esso è molto più antico, rappresenta il sole, ed è quindi fortemente positivo e irraggiante energia. Al civico 22 è una stranissima palazzina, chiamata “la casa dei pupazzi”. Impossibile non notare la sovrabbondanza degli stucchi che la decorano. Si tratta del palazzo Crivelli, dal nome dell’orefice milanese che se lo fece costruire nel 1538, come dice l’iscrizione del marcapiano sopra il portone: "IO PETRUS CRIBELLUS MEDIOLANEN(SIS) SIBI AC SUIS A FUNDAMENTIS EREXIT". La facciata è ricca di particolari: trofei di scudi e corazze, grotteschi mascheroni e teste leonine, candelieri sorretti da puttini, satiri che reggono lunghi festoni vegetali. Addirittura, all’ultimo piano, due bassorilievi, dove in uno è raffigurato Carlo V che bacia il piede di papa Paolo III, e nell'altro il Papa che riconcilia Carlo V e Francesco I a Nizza. Resto un bel po’ a guardare, poi mi rimetto in moto.
Sempre lentamente, godendo a fondo di quell’aria di antico/vecchio che si respira, in modo particolare, in questa via, arrivo a Largo Ottavio Tassoni. Sul lato del palazzo che affaccia sulla piazza una targa ricorda che “in questo edificio eretto ad uso di zecca lavorò Benvenuto Cellini”. Infatti, prima di divenire sede del Banco di Santo Spirito, fondato nel 1605 da papa Paolo V, con lo scopo di accogliere depositi e fare prestiti, questo palazzo era la Zecca pontificia. Trasferita qui, per volere di papa Giulio II, nel 1404, da palazzo Sforza Cesarini, vi rimase fino al 1541, anno in cui fu spostata al Vaticano. Bellissima la sua facciata, leggermente concava, che realizzò Antonio da Sangallo il Giovane, divisa da quattro paraste al centro delle quali si trova una grande nicchia ad arco, con quattro finestre e due oculi ai lati. Il grande stemma sulla sommità di Paolo V Borghese, con le due statue della Carità e dell’Abbondanza fanno parte, invece, dell’opera di rinnovamento del palazzo, quando, nel 1667, fu trasferito in questa sede, il Banco di Santo Spirito.
Un altro edificio particolare che si affaccia su questa piazza, è il Palazzo Gaddi Niccolini, costruito probabilmente tra il 1518 ed il 1527 da Jacopo Sansovino, per il banchiere fiorentino Luigi di Taddeo Gaddi. Passato poi a diverse famiglie, dai Valdina Cremona, ai Niccolini, agli Amici ed ai Montani, attualmente ospita l'Ambasciata della Repubblica di Argentina. 
Giro per via dei Banchi Nuovi. Anche qui la denominazione della strada fa riferimento ai banchi dove negozianti, banchieri, notai, scrivani e mercanti esercitavano i loro affari, essendo il punto di passaggio obbligato dei pellegrini verso S. Pietro. Il distinguo fra vecchi e nuovi è dovuto allo spostamento della Zecca Pontificia, che come abbiamo visto, precedentemente, era situata in via dei Banchi Vecchi a palazzo Sforza Cesarini. Quando venne spostata in quello che poi sarà il palazzo del Banco di Santo Spirito, si spostarono di conseguenza anche i vari banchieri e mercanti e la via limitrofa prese il nome di Banchi Nuovi. Il primo palazzetto sulla sinistra è quello dove abitò Carlo Maderno, come ci ricorda una lapide apposta dal Comune di Roma.
Molto belle le finestre del primo piano ad arco, in travertino, mentre quelle al secondo piano hanno timpano triangolare e curvo alternati. Anche qui, quello che mi affascina è il contrasto fra il vecchio, quello dei palazzi quasi fatiscenti, e l’antico, quello dei palazzi con le facciate in bugnato, le finestre architravate, i timpani triangolari, tondi, o spezzati… io mi incanto a notare tutti questi particolari. Man mano che mi avvicino a Piazza dell’Orologio, lo scorcio che si ha sul bellissimo Orologio del Convento dei Filippini, che dà il nome alla piazza, è fantastico.
È posto sulla torre costruita dal Borromini nel 1648. La mano dell’artista si riconosce dalle tipiche curve concave e convesse. Sulla sommità un’architettura con volute di ferro che sostengono le campane, mentre ai suoi fianchi sono posti due cippi con stelle araldiche di bronzo a 24 punte.
Sotto l’Orologio un bellissimo mosaico della “Madonna della Vallicella”, disegnato da Piero da Cortona, mentre all'angolo dell'edificio con via del Governo Vecchio, è un tabernacolo della Madonna circondata da angeli, molto tipico del Bernini.
Sulla piazza affaccia palazzo Bennicelli, dove nacque e visse il Conte Tacchia. Ma il palazzo originariamente era stato costruito, su volere del monsignor Spada, per essere la sede del Banco di Santo Spirito, anche se non aveva l’appoggio dei ministri dell’Istituto bancario, secondo i quali il palazzo era troppo lontano da quello che era comunemente ritenuto il centro degli affari. Alla morte del monsignore, avvenuta solo dopo due anni dall'inizio della costruzione, i ministri decisero di posizionare la sede nel palazzo di cui abbiamo già precedentemente parlato, quello che ancora oggi è conosciuto come Banco di Santo Spirito.
Gli eredi Spada furono così costretti ad acquistare il palazzo e terminarlo. Fu poi venduto ai conti Bennicelli, che lo ristrutturarono, a fine Ottocento, ad opera dell’architetto Koch. Di fronte al palazzo si apre via degli Orsini, dal nome della famiglia che qui ebbe molte proprietà a cominciare dall'edificio che si affaccia a sinistra sulla via, costruito nei primi del Seicento.
La facciata del palazzo presenta due portoni gemelli: da uno entravano le carrozze, dall'altro uscivano. Al primo piano le finestre hanno timpani triangolari e sono ornati con conchiglie, mentre al secondo con capitelli e al terzo con teste femminili. Entro a sbirciare nel cortile, e riesco anche a fotografare la bella fontana settecentesca a parete, incastonata in un’edicola ad arco, con timpano spezzato, con al centro un’aquila, emblema araldico della famiglia Stampa, che fu proprietaria del palazzo nel Settecento, dopo la vendita da parte degli Orsini.
Nell'Ottocento l’edificio fu venduto ai Pediconi, e in seguito ai Cavalletti, che sono gli attuali proprietari. Entrando mi colpisce una lapide sulla parete a destra, che testimonia la nascita, in questo palazzo, di Eugenio Pacelli, colui che divenne poi papa con il nome di Pio XII, dal 1939 al 1958. Alla fine della strada, che incrocia con via di Monte Giordano, c’è un altro meraviglioso palazzo facente parte delle proprietà degli Orsini: il Palazzo Orsini Taverna. Fu la loro roccaforte, con torri e edifici suddivisi fra i vari rami della famiglia: dai duchi di Bracciano, che furono i più importanti, ai conti di Pitigliano, ai signori di Marino e di Monterotondo. Fu ricostruito da Giordano Orsini, dopo la distruzione da parte di Cesare Borgia, e abitato dal cardinale Ippolito d’Este, che lo rese luogo di incontri mondani e culturali.
Alla fine del Seicento, l’ultimo duca di Bracciano fu costretto a venderlo, per ripagare i suoi enormi debiti. Dopo vari passaggi di proprietà, che videro personaggi illustri abitarvi o esserne ospitati, tra cui l’imperatrice Eugenia de Montijo, moglie di Napoleone III e il Cardinale Luciano Bonaparte, il palazzo divenne proprietà dei Taverna, ai quali ancora appartiene. Sono entrata in questa roccaforte in occasione della Giornata Nazionale A.D.S.I, che prevedeva l’apertura dei cortili delle dimore storiche, ed è stato molto interessante ascoltare la storia del palazzo, oltre alla straordinaria sensazione di fare un tuffo nel passato, perché, come in molti altri casi, se le facciate di questi palazzi hanno un’aria elegante, a volte austera, nei loro giardini o cortili, si percepisce tutta l’atmosfera di una Roma che non c’è più. Bellissima anche la fontana che prospetta sul vialetto d’entrata, visibile a tutti.
Da qui inizia via di Panico, che percorro per un breve tratto, girando subito dopo il palazzo Taverna, a destra, nel vicolo Domizio, per sbucare in via dei Coronari, proprio dove all'angolo si trova la famosa “Immagine di Ponte”, considerata la più antica delle edicole sacre di Roma. Più che un’edicola, sembra un piccolo monumento, realizzato da Antonio da Sangallo il Giovane per conto di Alberto Serra da Monferrato, nel 1523. L’immagine dell’“Incoronazione della Vergine” è stata dipinta da Pierin del Vaga. La cosa curiosa: il committente di questa edicola era notaio della Camera Apostolica, e, durante il sacco di Roma, si salvò a stento dalla cattura dei lanzichenecchi correndo a Castel S. Angelo e arrivandoci un attimo prima di essere acciuffato. Peccato che appena varcata la soglia, gli venne un infarto, non si sa se per la corsa o per lo spavento! 
Via dei Coronari è una delle più belle strade di Roma, cosi chiamata dai venditori di oggetti sacri, che qui avevano le loro botteghe, in quanto strada di transito dei pellegrini che si recavano a S. Pietro. È una via che concentra tutti e tre gli aspetti di Roma: il medievale, che ritroviamo nei vicoli, il rinascimentale dei palazzi e casette, e il barocco. Quasi di fronte all'edicola, un palazzetto del Cinquecento, abitazione dell’abbreviatore apostolico Prospero Mochi, ai tempi di Paolo III, ha delle curiose scritte sopra il portone e sopra le finestre del primo e secondo piano. Sul portone ci dice: “tua pute que tute facis” (“considera tuo quel che tu stesso fai”); sulle finestre del primo piano il suo nome e il suo mestiere: “P.  De Mochis Abbr. A:” (“Prospero De Mochis abbreviatore apostolico”) su quelle del secondo piano: “non omnia possumus omnes” (“non tutti possiamo fare tutto”) e “Promissis mane” (“mantieni le promesse”).
Mi dirigo verso piazza dei Coronari e giro a sinistra in via di Panico; sopra il civico 29, una edicola settecentesca originale in tutte le sue parti: dal cupolino a spicchi, con ciondoli e frange, al mensolino di legno e il lume. L’immagine della “Madonna della pietà” fu invece rubata nel 1992 e venne sostituita. Recuperato l’originale, fu ricollocata, durante un restauro, nel 2000, ma senza la cornice a tortiglione con punti e cherubini che aveva precedentemente. Molto curioso anche il palazzo ad angolo fra via dei Coronari e via di Panico, che forma un vertice.
Arrivo fino al vicolo della Campanella, entro nel vicolo, e continuo la mia passeggiata, passando davanti all’Oratorio di San Celso, conosciuto anche come San Celsino, per distinguerlo dalla chiesa dei Santi Celso e Giuliano, nella via del Banco di Santo Spirito, nella quale arrivo dopo aver percorso il vicolo del Curato. Prima di andare a visitare la suddetta chiesa, attraverso la strada per fotografare l’Arco dei Banchi, un caratteristico passaggio che collega direttamente con via Paola, e all'interno del quale si trova un’edicola con una immagine della Vergine molto venerata. Ma la cosa più interessante sotto l’arco è sicuramente la lapide, considerata la più antica, che attesta il livello raggiunto dal Tevere durante la tremenda alluvione avvenuta il 7 novembre 1277.
In origine la targa era posta sotto il portico della Chiesa dei Ss. Celso e Giuliano, quando questa era situata in Piazza di Ponte, e la scritta, in caratteri semigotici, tradotta recita cosi: “Qui arrivò il Tevere, ma torbido, di qui presto si ritirò nell'anno del Signore 1277, sesta indizione, settimo giorno del mese di novembre, mentre la chiesa era vacante”. Il riferimento alla chiesa vacante è dovuto al fatto che il pontefice Giovanni XXI era morto, e passarono sei mesi prima che venisse eletto il nuovo pontefice, Niccolò III. Sono ora davanti alla Chiesa dei Ss. Celso e Giuliano, che come ho già detto, in origine si trovava sulla Piazza di Ponte. Fu papa Giulio II a farla demolire, incaricando il Bramante per la ricostruzione, ma a causa della morte del papa, il progetto  fu sospeso e la chiesa portata a termine solo nel 1535. Anche questa fu poi demolita per volere di papa Clemente XIII, che la fece ricostruire da Carlo De Dominicis nel 1735, e, più di un secolo dopo, nuovamente restaurata dall'architetto Andrea Busiri Vici.
La facciata, molto particolare, scandita da lesene e doppie colonne, con capitelli compositi decorati da rami di palme. Nella parte superiore una grande finestra e un timpano mistilineo in stile borrominiano.  Nella parte inferiore, ai lati del portone, due nicchie ornate da una conchiglia, mentre sopra il portone un oculo incorniciato da rami di palma e gigli in stucco. L’interno è a pianta ellittico con cappelle laterali. Un notevole dipinto raffigurante il “Cristo in gloria e i Ss. Celso, Giuliano, Marconilla e Basilissa” è posto sull'altare maggiore ed è opera di Pompeo Batoni del 1738. L'ultimo edificio della via, che fa angolo con la Piazza di Ponte S. Angelo, è palazzetto Bonadies, un edificio quattrocentesco, costruito su precedenti strutture, restaurato e modificato nell'Ottocento, quando furono costruiti i muraglioni sul Tevere. Particolarissimo il porticato che si trova al pianterreno, che fa da cornice alle vetrine di un negozio di stampe antiche, con colonne con capitelli in stile ionico e una cornice con palmette e protomi leonine.
All'attico, invece, una bellissima loggia ad archi su pilastri e colonnine, che offriva sicuramente una vista privilegiata sugli "spettacoli" che si tenevano soventemente in questo luogo. Piazza di Ponte S. Angelo fu tristemente nota, intatti, per essere stata luogo di esecuzioni capitali. In questo post non ho parlato appositamente del Ponte perché riserverò per tutti i Ponti di Roma, una sezione apposita.

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