Il Mosè di Michelangelo

gennaio 26, 2020


“Se la s’ha da fare, la dev'essere la più bella del mondo”. Così scriveva l’entusiasta Michelangelo in una lettera del 1505, subito dopo aver ricevuto la commissione per la tomba di Giulio II. Non s’immaginava di certo che l’opera, in cui voleva esprimere tutto sé stesso, non si sarebbe mai compiuta. Per quasi quarant'anni, le contrastate vicende della tomba, che inizialmente doveva sorgere al centro di San Pietro, furono la tragedia della sua vita. Aveva solo trent'anni quando l’autore del David e della Pietà fu chiamato da papa Giuliano della Rovere, affinché innalzasse per lui la più grandiosa sepoltura mai concepita. La portò a termine che era quasi un vecchio e triste alla soglia dei settanta e completamente diversa di come l’aveva immaginata. Anche il luogo di destinazione era un altro: San Pietro in Vincoli. Per il maestro toscano, avrebbe dovuto essere “un monumento classico alla Cristianità”. Qualcosa che assomigliasse a un antico mausoleo, articolato su tre livelli: il mondo terreno al primo, con i Prigioni (gli schiavi);
 

quindi il Mosè, che doveva fare da pendant alla statua di San Paolo, allusivi del mistero della rivelazione di Dio; al culmine il cenotafio del pontefice, l’immagine dell’impero spirituale della Chiesa. Giulio II fu entusiasta della visione michelangiolesca, tanto che ordinò all'artista di partire per le cave apuane, dove avrebbe potuto assicurarsi i marmi più adatti per l’impresa scultorea. Il soggiorno del Buonarroti, fra quei picchi, durò ben otto mesi, durante i quali selezionò con scrupolo ogni blocco da tagliare, che poi fece trasportare a Roma su muli, navi, rulli e slitte fino alla meta: piazza San Pietro. Quei marmi erano talmente tanti e superbi che andare ad ammirarli era diventata una delle più frequenti distrazioni popolari. Accadde però che il papa, tutto preso dal progetto della nuova basilica petriana, raffreddò il suo fervore per il maestoso sepolcro e ne differì l’attuazione forse anche, credette Michelangelo, per la “invidia di Bramante et di Raffaele da Urbino”. Lo scultore, deluso, lasciò Roma per due anni. Fu più che altro una fuga, oppresso dall'affronto di essere ripetutamente evitato dal papa, che aveva sospeso i pagamenti, lasciando scoperti i conti per i marmi, che di continuo arrivavano in città. Qui vi tornò solamente nella primavera del 1508, con la speranza di poter riprendere il lavoro. Ma il della Rovere aveva in mente per lui una nuova sfida artistica: l’affresco della Cappella Sistina. Dopo questo capolavoro, venne anche quello del Giudizio Universale, mentre sul soglio pontificio si erano nel frattempo succeduti Leone X, Adriano VI, Clemente VIII e Paolo III. Il Buonarroti, seppur preso da mille impegni, trascorse quegli anni perseguitato dall'ossessione di terminare la tomba di Giulio II, il cui progetto veniva più volte modificato o interamente rifatto. Furenti, peraltro, erano gli eredi del defunto papa, che reclamavano a gran voce l’opera, per la quale era stato già pagato. Stanco e ormai quasi vecchio, non si rassegnò mai alla soluzione, molto ridotta, che portò al monumento oggi custodito nella chiesa del rione Monti. Tuttavia, nulla può diminuire la maestà del Mosè, col suo sguardo “terribile e i suoi muscoli, tesi che risaltano come se tutta la statua palpitasse, viva, sotto l’impulso dell’ira. 


Al pari delle celebri statue romane, il Mosè ha raccolto intorno a sé le sue leggende, alcune vere, altre probabilmente inventate. Si racconta che il suo artefice, stupito egli stesso dal realismo di quel colossale blocco di pietra che aveva reso umano, abbia scagliato il martello contro il ginocchio di marmo, esclamando le parole: “perché non parli?”. Si dice pure che nella barba del profeta egli abbia ritratto il profilo di se stesso e di papa Giulio II.


Tutto questo, visitabile, gratuitamente, entrando nella basilica di San Pietro in Vincoli nel rione Monti.


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