4° ITINERARIO - RIONE III COLONNA

marzo 01, 2021

Totale percorso Km.2,6    questa la mappa  

Il terzo rione probabilmente deve il suo nome alla Colonna Aureliana, che dà il nome anche alla piazza da dove inizia il nostro quarto itinerario. 
Fu eretta, da suo figlio e successore Commodo, probabilmente, fra il 180 e il 193 d.C., per celebrare le vittorie dell’imperatore Marco Aurelio contro i Marcomanni e i Sarmati, e ancora oggi si trova nella sua posizione originale. È alta circa 30 metri, arrivando a 42 se si calcola il basamento. Chiaramente ispirata alla Colonna Traiana, pur avendo la stessa altezza, ha un fregio scolpito a spirale meno lungo (110 metri di lunghezza se venisse “srotolato”, contro i quasi 200 di quello traianeo) ma più alto come scena e con meno avvolgimenti: i giri qui sono solo 21. La rappresentazione non segue un ordine cronologico, le scene sono molto ripetitive, i racconti più cruenti, quasi senza pietà, e Marco Aurelio, a differenza di Traiano, non viene mai rappresentato in mezzo ai suoi soldati, ma sempre frontale, distaccato, quasi a voler mostrare la sua supremazia. Le figure sono più grandi, distanziate le une dalle altre e dal fondo, realizzate con lo stile popolare, che si andava affermando in quegli anni, meno raffinato e più essenziale. Anche il basamento originale era decorato da bassorilievi, ma poiché rovinato durante il Medioevo, venne restaurato da Domenico Fontana su incarico di papa Sisto V, e i suddetti bassorilievi furono sostituiti da un’iscrizione, per giunta anche sbagliata, che attribuisce la Colonna come dedicata ad Antonino Pio. Sulla sommità venne posta la statua di San Paolo, al posto di quella di Marco Aurelio, distrutta anch'essa nel Medioevo. Una curiosa leggenda è ad essa legata. Ai piedi della Colonna, si trova la bella fontana di Giacomo Della Porta, realizzata in marmo di Chio e decorata da sedici fasce verticali in marmo di Carrara terminanti con testa di leone. Al centro della fontana un catino, poggiato su un balaustro, dal quale zampilla l’acqua, e ai suoi lati due gruppi di delfini con code intrecciate posti in una conchiglia aperta. Sulla piazza affaccia Palazzo Chigi, sede della Presidenza del Consiglio dei Ministri. 
Costruito nel 1578 dalla famiglia Aldobrandini, unendo una serie di casupole di loro proprietà. Venne poi venduto ai Chigi nel 1659 che lo ultimarono. Divenne proprietà dello Stato nel 1916, prima come sede del Ministero delle Colonie e poi del Ministero degli Esteri nel 1922, quando ricopriva la carica di ministro, Benito Mussolini, che dal balcone all'angolo fra via del Corso e piazza Colonna, soprannominato "la prua d'Italia", pronunciò i suoi primi discorsi, prima ancora che a Palazzo Venezia. Dal 1961 è la sede del Governo italiano. Altro edificio notevole in questa piazza è Palazzo Wedekind, sede del giornale “Il Tempo”, situato dove in antichità sorgeva il Tempio di Marco Aurelio.
Fu sede del Vicariato Romano e in seguito direzione delle Poste Vaticane. Dopo il 1871 fu anche sede del ministero dell’Educazione del Regno d’Italia fino a quando non fu venduto nel 1879 al ricco banchiere Wedekind. Per un breve periodo, dal settembre del 1943 fino alla liberazione di Roma, fu anche sede ufficiale dei Fascisti romani. L’elemento più prestigioso del palazzo è senza dubbio il suo portico di sedici colonne, undici delle quali, ioniche scanalate di marmo di Luni, provenienti dal Municipio romano della città etrusca di Veio, come si legge anche sulla lunga iscrizione posta sull’architrave in latino: “GREGORIUS XVI PONTIF MAXIM ANNO MDCCCXXXVIII FRONTEM AEDIFICII EXORNANDUM PORTICUM VEIORUM COLUMNIS INSIGNEM ADSTRUENDAM CURAVIT", e cioè: "Gregorio XVI Pontefice Massimo nell'anno 1838 fece decorare la facciata dell'edificio aggiungendovi il Portico di Veio famoso per le sue colonne”. Pochi passi alla destra del palazzo, ci portano in Piazza di Montecitorio.
Sull'origine del nome ci sono due versioni: secondo la prima, potrebbe derivare da "mons citatorius", ovvero le assemblee elettorali che in epoca romana vi si si svolgevano; per la seconda, invece, deriva dal fatto che quel luogo fosse destinato allo scarico dei materiali di risulta della bonifica di Campo Marzio, “mons acceptorius”. Il grande palazzo, attuale sede del Parlamento italiano, fu commissionato nel 1653 dal papa Innocenzo X all'architetto Bernini, per farne la residenza della famiglia Ludovisi, di cui il principe Niccolò aveva sposato sua nipote Costanza Pamphili. Il Bernini progettò un edificio che molto bene si adattava al territorio circostante, con la facciata che seguiva l’andamento curvo della strada e gli elementi di pietra appena sbozzata, che davano l’impressione di un edificio costruito nella viva roccia. Ben presto però, terminarono i fondi, e i lavori vennero sospesi per oltre trenta anni, quando un altro pontefice, Innocenzo XII, diede incarico a Carlo Fontana di portarli a termine. Quest’ultimo modificò in parte il progetto del Bernini, mantenendo però la caratteristica facciata, aggiungendo due porte al lato dell’ingresso principale e il campanile a vela. Vi si installò la Curia Pontificia. Con l’unità d’Italia, venne scelto come sede per la Camera dei Deputati e fu affidato a Paolo Comotto il compito di edificare l’Aula dell’Assemblea. Venne costruita all'interno del cortile, utilizzando un’intelaiatura di ferro ricoperta in legno. Poco dopo però, la nuova aula si rivelò del tutto inadeguata, sia per la pessima acustica, che per le condizioni climatiche: fredda in inverno e caldissima durante l’estate. Venne quindi affidato ad Ernesto Basile, il compito di costruire una nuova Aula, che venne inserita in un nuovo edificio costruito alle spalle di quello già esistente.
Davanti al palazzo è situato il grande  Obelisco di Psammetico II, portato a Roma da Augusto ed innalzato nel 10 a.C. nel Campo Marzio, con la funzione di gnomone per quella che era indicata come la “meridiana di Augusto”, cioè un enorme orologio solare. Crollato a seguito di un terremoto, o dopo il Sacco di Roma ad opera dei Normanni, rimase interrato fino al 1748, sotto le fondamenta della Casa degli Agostiniani di S.Maria del Popolo. Tra il 1789 e il 1792 Papa Pio VI lo fece riparare e innalzare con la sua base in Piazza di MontecitorioAndando a sinistra dell'Obelisco (con le spalle a Montecitorio), prendiamo via della Colonna Antonina, come se dovessimo tornare in Piazza Colonna, e svoltando sulla destra in via dei Bergamaschi, ci ritroveremo in Piazza di Pietra, davanti ad uno di quei monumenti che per me, è di una suggestione unica: il Tempio di AdrianoIl perché del nome della piazza lo si capisce subito: la presenza per secoli, dei ruderi dell'edificio, nell'antica regione del Campus Martius. Il tempio era un periptero con 8 colonne sulla fronte e 13 colonne corinzie di marmo bianco sui lati lunghi.
Undici di quelle colonne del lato nord e i blocchi di peperino che costituivano il muro esterno della cella, sono giunti fino a noi, grazie anche all’opera dell’architetto Carlo Fontana, che, nel XVII secolo, riutilizzò quei resti, inserendoli nella costruzione del palazzo della Dogana di Terra pontificia. Intorno al 1879, fu acquistato dalla Camera di Commercio per farne la propria sede, dopo un restauro ad opera di Virginio Vespignani. Le colonne, alte 15 metri e con un diametro di m. 1,44, sono innalzate su un podio alto m. 4, di cui una parte risulta interrato rispetto alla piazza a causa dell’innalzamento del suolo stradale. Parte della cornice e della trabeazione che sormonta le colonne è originale, mentre è ricostruita quella sulle ali laterali dell’edificio che ha inglobato il tempio. Dai numerosi fori sui muri della cella, capiamo che all'epoca questi erano ricoperti di marmo, probabilmente saccheggiato durante il periodo papale, mentre nei Musei Capitolini si conservano una serie di rilievi, rappresentanti le province romane,
che costituivano i piedistalli su cui poggiavano le semicolonne all'interno della cella, o forse, secondo una lettura più recente, collocati sull'attico dei portici che circondava la piazza. Dalla questa prendiamo via dei Pastini, e svoltiamo poco dopo a destra su vicolo della Spada di Orlando.
A metà circa del vicolo si trova un tronco di colonna con una strana fenditura e qui ben due versioni di una stessa leggenda, sono state create dalla fantasia popolare per spiegare l’origine del nome del vicolo. Ambedue riferite alla leggendaria Durlindana: la prima racconta “che il valoroso paladino di Carlo Magno, per proteggerla e non farla cadere in mano dei Saraceni, dopo l'agguato di Roncisvalle, avesse sferrato un potente colpo contro una colonna, tagliandola in due, e quel tronco fosse poi stato, inspiegabilmente, trasportato a Roma”.  La seconda invece racconta “che proprio in quel vicolo Orlando sarebbe stato assalito da nemici che avrebbe messo in fuga a colpi di Durlindana, tirando fendenti a destra e sinistra, e uno di questi, andato a vuoto, avrebbe colpito il masso e provocato l’ampia fessura”. Ora siccome io sono molto curiosa, ho cercato su internet ed ho trovato molto interessante questa lettura. Se non si sa per certo cosa sia quella strana fenditura, sappiamo di sicuro che quella colonna è quel poco che resta  (insieme agli altri avanzi sporgenti di un muro in laterizio che si vedono lungo il vicolo) del tempio di Matidia, suocera dell’imperatore Adriano (nonché nipote di Traiano), madre dell’imperatrice Sabina.
Da questo vicolo sbuchiamo in piazza Capranica, che prende nome dal palazzo costruito nella prima metà del Quattrocento dal cardinale Domenico Capranica, per ospitarvi un collegio per l’educazione degli ecclesiastici, il primo seminario di Roma. È uno dei pochi edifici romani del XV secolo sopravvissuti al tempo e rappresenta un raro esempio dell’architettura civile del primo rinascimento a Roma, con eleganti finestre a crociera e bifore tribolate di marmo. Anticamente, al suo interno vi fu un teatro, trasformato in seguito in un famoso cinema. Entro in Santa Maria in Aquiro, antica chiesa costruita da Anastasio I (398-402) restaurata successivamente da Gregorio III, nell'ottavo secolo.
L’aspetto attuale lo deve al Cardinal Salviati che la fece riedificare nel 1590 da Francesco Volterra, mentre la facciata fu portata a termine nel 1774, da Pietro Camporese il Vecchio, su disegno di Carlo Maderno. La chiesa era affidata alla Confraternita degli Orfani fin dal 1540, ai quali provvedeva dando loro educazione e assistenza sanitaria. La facciata si presenta divisa in due ordini, di cui quello inferiore con tre portali: più grande quello centrale sormontato da un timpano triangolare, mentre i due laterali, più piccoli e sormontati da timpani semicircolari; nell'ordine superiore due campanili gemelli, ai lati di un grande finestrone centrale, sormontato da timpano triangolare. L’interno è a pianta rettangolare, diviso in tre navate con tre cappelle per parte.
In una di esse è conservato il quadro più antico, a Roma, della Madonna di Lourdes, al quale è legato un curioso aneddoto. Il quadro in origine si trovava nella chiesa di Santa Rita alle Vergini, da dove venne spostato a seguito di lavori di ristrutturazione della chiesa, e dopo vari giri, da una chiesa all'altra, arrivò in S. Maria in Aquiro, affidato alle cure della marchesa Cecilia Serlupi Crescenzi.  E proprio dal diario della marchesa, apprendiamo che quando il restauro di S. Rita alle Vergini terminò e il quadro sarebbe dovuto tornare in quella sede, ci fu una vera e propria sommossa popolare, con le persone che si davano il cambio, giorno e notte, controllando che nessuno si “azzardasse” a portalo via.
Quando la richiesta  di riavere il “suo” quadro, da parte del curato della chiesa di Santa Rita, si fece più insistente, la marchesa andò direttamente da papa Leone XIII ad esporre le proprie ragioni e riporta testualmente sul suo diario: “Se il Santo Padre mi dà ragione tanto meglio, altrimenti, se il popolo ce lo consentirà, ciò che non sarà, il Comitato porterà il quadro in casa dell’eminentissimo cardinal vicario (non alle Vergini…) e lì il Comitato si dimetterà in massa e metteremo sul giornale il resoconto del nostro agire, semplicemente, senza astio alcuno”. Il papa diede ragione alla marchesa, e il quadro restò nella chiesa. Esco e  percorro via delle Colonnelle, arrivando in  piazza della Maddalena, dominata dalla facciata della Chiesa omonima. È uno dei pochi e dei più begli esempi d'arte barocca e rococò in Roma.
Venne costruita su una cappella del Trecento che apparteneva all'Arciconfraternita del Gonfalone, e nel 1586 fu affidata, con l’intero isolato circostante, a padre Camillo de Lellis, per farne la sede centrale dell’ordine religioso, da lui costituito quattro anni prima: la Compagnia dei Ministri degli Infermi. Nel 1621 venne ampliata la piazza antistante e iniziata la costruzione della nuova chiesa, che si protrasse per quasi un secolo, sotto la direzione di diversi architetti: Carlo Fontana, a cui viene attribuita la cupola e la volta, Giovanni Francesco Grimaldi, autore del convento, e Giovanni Antonio De Rossi. Nel 1735 invece, si concluse l’attuale facciata ad opera di Giuseppe Sardi, in stile rococò, concava, interamente decorata da stucchi e nicchie contenenti statue: quelle dell’ordine superiore raffigurano Santa Maria Maddalena e Santa Marta, le due nella parte inferiore sono San Camillo de Lellis e San Filippo Neri. Venne molto criticata e soprannominata “chiesa di zucchero” perché con tutte quelle decorazioni, veniva paragonata ad una torta. Si considerava lo stile rococò poco mistico e non adatto per edifici religiosi. L’interno è a navata unica, dalla forma ottagonale allungata, con cappelle ai lati, tutte riccamente decorate, transetto e profonda abside.
Molti i riferimenti al Santo, con numerosi affreschi raffiguranti episodi della sua vita e soprattutto le sue spoglie, contenute all'interno della cappella a lui dedicata, mentre in un’altra cappella si conserva il crocefisso ligneo del Cinquecento davanti al quale il Santo pregava e che durante uno dei suoi momenti di sconforto, lo abbracciò esortandolo: “Vai avanti, pusillanime! L'opera è mia non tua, non aver paura, coraggio”.
Sull'altare maggiore il dipinto con “Santa Maria Maddalena in preghiera” di Michele Rocca del 1698, mentre nel catino absidale domina l’affresco “le predicazioni di Cristo alle Turbe” di Aureliano Milani. Merita una visita anche la sagrestia, ritenuta una delle più belle e più ben conservate di Roma, ricca di dipinti, volute, dorature e policromie, esempio unico del barocchetto romano. Nella chiesa è conservata anche la statua lignea della Maddalena, del Quattrocento, alla quale viene attribuito un miracolo risalente al 1598, quando, durante una delle piene più terribili del Tevere, venne vista in piedi sull'acqua, che aveva invaso la chiesa, mentre si spostava da una cappella laterale verso l’altare maggiore, più riparato dalla furia del fiume. Nella chiesa è sepolta anche Teresa Bennicelli, antenata del Conte Adriano Bennicelli, meglio conosciuto come il Conte Tacchia, e cliccando sul suo nome potrete leggere la triste storia d'amore. Voltandomi per uscire dalla chiesa resto, è il caso di dirlo...di stucco!
Un magnifico organo di legno intagliato, decorato con figure in stucco che rappresentano: Angeli musicanti, ai lati del timpano curvilineo con la croce; la Speranza e la Carità posizionate sulla balaustra; la Fede e la Religione, sui lati dell’organo. L'insieme della Cantoria, risalente al 1729, rappresenta un modello unico nel suo genere, esempio del desiderio dell’arte barocca di suscitare la meraviglia dei fedeli, probabilmente attribuibile a Domenico Barbiani o comunque all'ambiente romano, mentre l'autore dell'organo è il tedesco Hans Conrad Werle. Un pò "frastornata" esco da questa chiesa, continuo su via della Maddalena, che arriva in piazza di Campo Marzio, e, tenendomi sulla destra, imbocco via di Campo Marzio, linea di confine fra il rione omonimo e quello di cui stiamo parlando, Colonna.
Sono in una di quelle zone di Roma che adoro, e passeggio lentamente, per non perdere nessun particolare. All'incrocio con via degli Uffici del Vicario, c'è una Madonnella, (di cui Roma è piena), conosciuta come Immacolata. Poi i palazzi seicenteschi, con i loro portali, come quello di palazzo Marescotti, civico 69, sormontato da un balcone sorretto da mensole a forma di protomi di pantere, elemento araldico della famiglia; o quella casa del Cinquecento, civici 72-73, avente un marcapiano di un fregio in travertino con greca e gigli araldici.
Al civico 24, un palazzo sul quale anticamente vi erano graffiti attribuiti a Palidoro da Caravaggio, ma che oggi si vedono appena, mentre al civico 48 mi fermo a guardare quella decorazione in stucco con teste femminile sulla parte superiore delle finestre, e mi chiedo perché una solo, invece, è ornata con la testa di un moro con una stella cometa sulla fronte. Al secondo piano, le finestre sono ornate da stelle comete, e, anche qui, una sola ha, come ornamento, una cometa fiancheggiata da due stelle. Al di sotto di questo edificio, scavi archeologici hanno scoperto resti del grande Orologio Solare di Augusto, e nella vetrina del bar adiacente il palazzo è esposta una pianta della meridiana.
Dove posso, cerco di intrufolarmi nei portoni, per andare ad ammirare i cortili, come quello del civico 46, palazzo Magnani, al quale si arriva attraversando un lungo androne che termina con un arco, sorretto da due colonne, e dove, in una nicchia è collocata una fontana. Poco più avanti, ancora portoni con colonne alveolate, con capitelli dorici, finestre con timpano curvo e triangolare, e cornicioni sagomati.
E arrivo, così, in piazza di San Lorenzo in Lucina, bellissima piazza che affaccia sulla via del Corso. Anche in questo caso il nome è strettamente legato alla chiesa, che troviamo sulla nostra destra, al centro fra due edifici: Palazzo Fiano sulla sinistra, e il Convento dei Caracciolini (oggi Caserma dei Carabinieri) sulla destra. Deriverebbe forse da una matrona romana, Lucina, che aveva adibito la sua domus a "ecclesia domestica"; ma esiste anche un'altra versione,  confermata dagli scavi archeologici, effettuati al di sotto della chiesa.
Sono stati infatti ritrovati un pozzo e un meraviglioso mosaico bianco e nero, corrispondenti ad una "domus Lucinae", un tempio precristiano dedicato alla dea Giunone Lucina, che veniva invocata al momento del parto: colei che fa vedere la luce al neonato. È una chiesa molto antica, costruita fra il IV e V secolo da papa Sisto III, e riedificata da papa Pasquale II nel XII secolo, che aggiunse il portico, con colonne di granito con capitelli ionici e il campanile a cinque piani: i primi due con bifore a pilastro, e gli ultimi tre con doppie bifore su colonnine marmoree; a lui si deve anche il bel portale riquadrato, con i due leoni romanici marmorei ai suoi lati, che come due guardiani, sembrano controllare l'ingresso dei fedeli.
L’interno in origine era a tre navate; fu poi modificato, intorno alla metà del Seicento, da Cosimo Fanzago, che trasformò la chiesa in navata unica, convertendo quelle laterali in cappelle, che divennero poi gentilizie e affidate a varie famiglie. Sull'altare maggiore, di Carlo Rainaldi, fra quattro colonne e due semi-colonne in marmo nero antico, c’è la celebre tela della “Crocefissione” di Guido Reni.
Io però sono attratta, come sempre, dall'opera del mio “amato” architetto, Gian Lorenzo Bernini, e vado diretta nella cappella Fonseca, da lui progettata, conosciuta anche come “Cupoletta con Angeli suonatori”.
Qui è il busto del medico portoghese, che emerge da una finta finestra, secondo un tipico artificio barocco, e sembra tranquillamente affacciato ad ammirare la bellezza delle cose che lo circondano. In un’altra cappella, sotto l’altare, è posta un’urna con la graticola sulla quale San Lorenzo subì il martirio.
Attraverso via del Corso, non senza prima pensare che sotto il palazzo Fiano, che si trova all'angolo fra piazza di San Lorenzo in Lucina e la via che sto attraversando, vennero trovati i resti dell'Ara Pacis. Sono ora in via Frattina, la via dello shopping di lusso, con i suoi cento negozi d’alta moda, ma anche d’arredamento e di argenteria, con ristoranti esclusivi.
È una via invasa dai turisti e a me piace poco, preferisco ricordarla per un paio di storie a lei legate. La prima racconta di un tale Pietro Curtelli che, nel Cinquecento, avrebbe rapito e sedotto una fanciulla durante il papato di Gregorio XIII; quando salì al potere papa Sisto V, famoso per il suo “temperamento”, tanto da essere chiamato dai romani il “papa tosto”, fece riaprire il processo e condannò a morte il giovane Pietro. Le sue gambe furono poi appese alla casa della ragazza sedotta, in Via Frattina per l’appunto. Le gambe dovevano però emanare un tale cattivo odore, che Sisto V le fece sostituire con un paio di pietra, a monito perenne per coloro che volessero attentare alla castità delle giovani fanciulle. La seconda storia, invece, è più recente, ed è legata ad uno dei “bulli” più famosi della città, “Er Più” di Trastevere, detto anche “er Tinea” dalla famosa frase, ricorrente fra i bulli di Roma, “sò sangue di Enea”, per sottolineare la discendenza dall’eroe. Romeo Ottaviani, questo il suo nome, era un fattorino delle poste a S. Silvestro. Una sera, mentre tornava a casa, proprio in via Frattina, si trovò ad assistere ad un pestaggio a sangue da parte di un “protettore” verso una prostituta. Romeo, d’istinto intervenne, riempiendo l’uomo di pugni e calci. Si seppe, poi, che il malvivente era nientemeno che “er malandrione” considerato il capo di alcuni protettori come lui. Con quell'episodio “er Tinea” diventerà “Er più” del suo rione, ma conosciuto e temuto in tutta Roma. Dalla sua storia, qualcuno se ne ricorderà, fu tratto un film, interpretato da Adriano Celentano.  Via Frattina, come è noto, termina in Piazza di Spagna, ma a noi non interessa la piazza, perché appartiene al rione Campo Marzio. Ci interessa, invece, il palazzo che ci troviamo di fronte: quello del Collegio di Propaganda Fide
Altro luogo, questo, della grande competizione fra i due geni del barocco: Bernini e Borromini. Il Palazzo fu commissionato al Bernini da Urbano VIII, ma appena terminata la facciata (quella che dà verso piazza di Spagna) il papa morì, e, salito al potere Innocenzo X, i lavori passarono al Borromini. Il passaggio si nota dal carattere architettonico diverso.
La Facciata su piazza di Spagna è severa e composta, come quella su via dei Due Macelli, ha cantonali bugnati, e un grande portale con timpano triangolare, ed in alto, al centro, la targa del collegio sormontata dallo stemma del papa Urbano VIII; mentre la parte che affaccia su via di Propaganda Fide è uno dei massimi capolavori dell’architettura barocca borrominiana, con la sua caratteristica facciata ondulata in una successione di rientranze e sporgenze.
C’è da dire, però, che mentre il Bernini fu costretto a lavorare su una costruzione preesistente, il Borromini fu più libero di muoversi, dando piena libertà al suo estro inventivo. Provo ad entrare per sbirciare il cortile, e chiedo al portiere se è possibile visitare l'Oratorio dei Tre Magi, supponendo già una risposta negativa. Invece con mia somma gioia mi dice di si!
Troppo grande per essere chiamato cappella, troppo piccolo per essere considerato una chiesa, fu costruito una prima volta dal Bernini in pianta ellittica, ma dopo soli tre anni, venne abbattuto per ingrandirlo, e questa volta i lavori furono assegnati al Borromini, che scelse, ovviamente, di cancellare l’impronta del suo rivale, ricostruendo la cappella in una classica forma rettangolare, nella quale però tutti gli spigoli sono smussati e il soffitto trasformato in una volta ribassata; l’effetto sia decorativo che spaziale, è affidato alla decorazione in stucco, con la quale riesce a creare un vero gioiello di originalità.
Resto incantata, completamente sola, ad ammirare questa meraviglia, che forse in pochi conoscono, e che è lì, a portata di mano, a pochissimi passi dalla strada, ma totalmente ignorata, anche perché non indicata. Per quanto io ami il Bernini, non posso non riconoscere l'estrema eleganza con cui il Borromini realizzava le sue opere, il suo stile è davvero inconfondibile! Certo non deve essere stato facile per il primo, che abitava proprio di fronte, nella casa che affaccia su via di Propaganda, con entrata in via della Mercede, assistere alla distruzione della "sua" cappella, proprio ad opera del suo antagonista,  e se l’aneddoto di Piazza Navona, con la statua del fiume Nilo che si copre gli occhi per non guardare la Chiesa fatta dal rivale, è pura leggenda, quello che accadde qui, sembra proprio essere vero.  Il Borromini, per esprimere la sua soddisfazione, e manifestare ciò che pensava dell'altro, scolpì sulle pietre della facciata del palazzo che guardava verso la casa del Bernini, due enormi orecchie d’asino. Ma la risposta di quest'ultimo fu rapidissima; durante la notte scalpellò un mensolone del cornicione del suo palazzo, dandogli la forma di un enorme fallo che indicava il cantiere del Borromini. Tutte e due le “opere” vennero in seguito “cancellate per decenza” dalle autorità. Lasciando Piazza di Spagna alle spalle, percorro via di Propaganda, ammirando nei particolari la meravigliosa facciata borrominiana, e arrivo all'incrocio con via della Mercede, via Capo le Case e via di S. Andrea delle Fratte. Prima di entrare nella Chiesa di S. Andrea delle Fratte, dove fra l'altro ritroveremo la "presenza" dei due artisti rivali, dobbiamo percorrere la leggera salita di Via Capo le Case, che la fiancheggia, per poter ammirare in pieno la movimentata struttura del tiburio e lo splendido campanile, realizzati dal Borromini.
Arrivati in cima alla strada, date un occhiata, gà che ci siete, anche al caratteristico palazzetto settecentesco Centini-Toni, definito "palazzo dei pupazzi". Tutte le finestre sono decorate a stucchi, ma quelle del primo piano, sono straordinarie, con una coppia di cariatidi che sorreggono timpani spezzati a volute con conchiglie e teste femminili al centro. Mi incanto a osservare i particolari: i timpani con al centro le teste hanno le volute rivolte all'interno, mentre in quelli con le conchiglie, le volute sono rivolte all'esterno. Uno degli appartamenti fu affittato a Massimo D’Azeglio nel 1820, che ne fece il suo studio di pittore. 
Torno indietro per andare a visitare la chiesa. Il nome deriva dal fatto che, anticamente, questa era una zona di campagna, disabitata e piena di sterpi e siepi. L'origine è molto antica, e nel 1585 venne affidata da Sisto V ai Minimi di S. Francesco da Paola. La sua ricostruzione iniziò nei primi anni del 1600, finanziata dal marchese Ottavio Del Bufalo, che nelle vicinanze aveva la sua abitazione (ricordate? Nel rione Trevi abbiamo parlato del suo palazzo con il portale e la fontana con l’effige del bufalo, in largo del Nazareno). Durò quasi un secolo, per la difficoltà di trovare fondi, e vide la partecipazione di tre architetti: il primo, dal 1605 al 1612, fu Gaspare Guerra, al quale si deve l’impostazione tardo cinquecentesca e la facciata; i lavori ripresero nel 1653 con Francesco Borromini, che si occupò della realizzazione dell’abside, del tamburo della cupola e del magnifico campanile, definito “ballerino”, perché quando la grande campana suona, la struttura oscilla paurosamente.  Infine, dopo la morte di quest’ultimo, i lavori furono portati a termine da Mattia de Rossi nel 1691.
La facciata, rimasta incompiuta per lungo tempo, venne ultimata solo nel 1826, dall'architetto Pasquale Belli, con il denaro, si dice, ricavato dalla vendita di una preziosa tabacchiera tempestata di diamanti, che il cardinale Consalvi aveva ricevuto in dono, dai Sovrani d’Europa, dopo il Congresso di Vienna. L’interno, a croce latina, è a navata unica, con tre cappelle per ogni lato, decorata con grandi tele del Seicento e Settecento.
Anche qui, però, resto incantata ad ammirare le due statue, ai lati dell’abside, scolpite da Gian Lorenzo Bernini, originariamente per il ponte di Castel Sant'Angelo: l’"angelo con il cartiglio” e l’"angelo con la corona di spine”. 
Al Bernini vennero commissionate tutte le dieci statue con i simboli della Passione, da posizionare sul ponte, che lui affidò ai suoi assistenti, eseguendo personalmente solo queste due. Il papa Clemente IX Rospigliosi, le considerò troppo belle per essere esposte alle intemperie, e sul ponte fece mettere due copie. Probabilmente, la vera ragione era che le avesse volute tenere per sé, e trasferirle nella casa natale della sua famiglia a Pistoia. Il papa, però, morì prima di mettere in atto il trasferimento, così le due statue non si mossero da Roma, e tornarono in proprietà dei Bernini, fino a quando, un nipote dell’artista, le donò alla chiesa, dove il nonno per 40 anni era andato, di buon mattino, ad ascoltare la Messa. Ultima, ma non in grado di importanza, particolarità di questa chiesa è la Cappella della Madonna del Miracolo, cosiddetta in seguito alla prodigiosa apparizione che la Vergine, nel gennaio del 1842, fece all'ebreo Alfonso Ratisbonne, entrato in chiesa solo per ammirarne le opere, e che, invece, dopo la visione, immediatamente si convertì e poco dopo chiese di essere battezzato.
Per questo avvenimento, la chiesa è conosciuta anche come Santuario del Miracolo o la “Lourdes romana”; anche questa!? (lo stesso “soprannome” infatti, lo abbiamo trovato nella chiesa di Santa Maria in Via,  per la presenza dell’acqua miracolosa). Qualche approfondimento sulle curiosità di questa chiesa lo troverete in questo articolo. Uno sguardo anche all'incantevole chiostro ed esco.
Uscita dalla chiesa, mi fermo davanti alla lapide posta sul palazzo di fronte, che indica il luogo dove visse e morì Gian Lorenzo Bernini, anche se in realtà, pur essendo tutto il palazzo di loro proprietà, la casa dove viveva e lavorava il “Sovrano dell’Arte”, era quella al civico 11 e non al 12 dove la targa è posta.
Proseguendo per via della Mercede arrivo in Piazza San Silvestro, dove fino a pochi anni fa, avevano il loro capolinea diversi autobus della città, era caotica e trafficata, mentre ora è radicalmente cambiata, interamente pedonalizzata, pavimentata a sampietrini e con grandi panchine di travertino, che le danno un aspetto signorile e rilassante.
Sulla piazza affaccia l’omonima chiesa preceduta da un suggestivo cortile in cui troviamo alcuni frammenti architettonici romani, fra cui un sarcofago con funzione di fontana, e alcune colonne che probabilmente appartenevano all'antico “Tempio del Sole”, che qui sorgeva, costruito da Aureliano nel 273 d.C.
Sotto il portico numerose lapidi, fra cui una molto curiosa, che attesta la proprietà della Colonna Aureliana (conosciuta allora come Antonina) da parte del convento, e minaccia di scomunica e maledizioni chi avesse tentato di alienarla."Poiché la Colonna di Antonino, di diritto del monastero di S. Silvestro, e della chiesa di S. Andrea (e Claudio), che si trova vicino ad essa, con le offerte che nell'altare di sopra ed in quello di sotto sono donate dai pellegrini, già per lungo tempo per locazione fu alienata al nostro monastero. Affinché non succeda ancora, con l'autorità di Pietro, principe degli apostoli e di Stefano e di Dionigi e di Silvestro confessore, malediciamo e leghiamo col vincolo dell'anatema l'abate ed i monaci che mai osassero affittare o dare in beneficio la colonna e la chiesa. Se qualcuno fra gli uomini avrà sottratto con la forza la colonna al nostro monastero, sia sottoposto ad eterna maledizione quale sacrilego e rapitore e violatore di cose sacre e sia costretto dal vincolo perpetuo dell'anatema. Così è giudicato con l'autorità dei vescovi e dei cardinali e della moltitudine di chierici e laici che erano presenti. Dietro per grazia di Dio umile abate di questo santo cenobio con i suoi confratelli fece e confermò nell'anno del Signore 1119, dodicesima indizione."
Originariamente la chiesa era dedicata ai santi Stefano e Silvestro, in seguito rimase solo il secondo con l’appellativo “in Capite”, in quanto qui venne portata una delle reliquie più importanti: la testa di S. Giovanni Battista. Ricostruita nel 1594 da Francesco da Volterra fu terminata da Carlo Maderno. La facciata, a un ordine, tripartita da lesene fu invece realizzata nel 1703 da Domenico de Rossi. Le statue sull’attico sono S. Silvestro, S. Stefano, S. Francesco e S. Chiara, al centro dei quali, un rilievo con la testa di San Giovanni Battista; sul portale invece uno con l’immagine Edessena, che qui si conservava dal XIII secolo, fin quando fu trasferita, nel 1869, in Vaticano, poco prima della presa di Roma da parte dell’esercito sabaudo. L’interno è a navata unica con cappelle laterali, in una delle quale, la seconda a destra, si conserva un “S. Francesco che riceve le stimmate” di Orazio Gentileschi (1610). Sulla volta invece è raffigurata la “Vergine Assunta con i Santi Silvestro e Giovanni Battista in una gloria di angeli e santi”, di Giacinto Brandi. Nella prima cappella a sinistra, quella dell’Addolorata, in un prezioso reliquiario è custodita la testa di S. Giovanni Battista.
Il campanile romanico, è considerato tra i più belli della capitale. Annesso alla chiesa era il convento, che fu espropriato dallo Stato dopo il 1870, e trasformato nel palazzo delle Poste e Telegrafi. Anche se non avete bollette da pagare, o bonifici da riscuotere, vi consiglio di entrare a vederlo, e capirete perché fu dichiarato “la più bella Posta d’Italia”.
Per concludere il nostro itinerario, e tornare a Piazza Colonna, passate attraverso la Galleria Aberto Sordi (ex Galleria Colonna).

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