Giordano Bruno

febbraio 17, 2021


"Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell'ascoltarla" 



Alla fine, la Chiesa, il sant’Uffizio, il cardinale Bellarmino, lo bruciarono davvero Giordano Bruno. L’eretico, il filosofo che aveva teorizzato l’infinità dei mondi era stato estradato, con qualche reticenza, dalla Serenissima Repubblica di Venezia su richiesta dell’Inquisizione romana. In laguna lo aveva invitato Giovanni Mocenigo e solo dopo molte insistenze Bruno aveva accolto l’ospitalità del nobile veneziano, che desiderava diventare suo allievo, ma questi, insoddisfatto della brevità del soggiorno dello studioso, o forse sospettando che Bruno non volesse insegnargli certe sue conoscenze nel campo della mnemotecnica o della magia, fini per denunciarlo come eretico. Il 26 maggio 1592 Bruno compare per la prima volta davanti all’Inquisizione di Venezia.


Sembrava una cosa da nulla, o quasi… un processo basato sulle accuse di un solo testimone, e maldisposto, cioè lo stesso Mocenigo che lo aveva denunciato; l’imputato, dal canto suo, ne aveva ben due a suo favore: il patrizio Andrea Morosini e il libraio Ciotto. Pendeva a favore di Bruno anche l’orgogliosa indipendenza della Serenissima dalle ingerenze del papato, unita alle capacità di argomentare del filosofo che comunque aveva manifestato la volontà di pentirsi. E invece un insieme di sfortunate combinazioni andarono a saldarsi insieme. Fu così che il destino si mise in moto. Nei territori del papa Bruno arrivò via mare: il 27 febbraio 1593 la nave attraccò nel porto di Ancona. Una volta a Roma venne rinchiuso nelle prigioni del Sant’Uffizio e iniziò il processo romano. Ci vollero sette anni per l’intero procedimento perché i giudici, a un certo punto, ritennero necessario reperire gli scritti dell’imputato: l’unico in loro possesso era La cena delle ceneri. E i libri ci volevano perché nemmeno ai giudici dell’Inquisizione sfuggiva che contro il nolano c’erano solo testimoni di dubbia moralità o prevenuti. Infatti, al primo, e inizialmente unico, testimone se ne erano aggiunti altri: tutti compagni di cella dell’imputato; il principale fra questi era fra’ Celestino da Verona, anche lui accusato di eresia. Tutta gente che si giocava la testa e che poteva trarre vantaggio dall’accusare un altro. A fra’ Celestino, con tutta probabilità uno squilibrato, poco servì quella mossa, perché finì al rogo, come eretico, qualche mese prima di Bruno. Clemente VIII, il papa che “tutto vuol sapere, tutto leggere e tutto ordinare”, presenziava spesso le udienze e, a suo modo, cercherà di non mandarlo a morte. Era convinto che, in cambio della vita, il filosofo avrebbe abiurato, accettando di ritirarsi a una non-esistenza in qualche luogo sorvegliato. E, dal canto suo, Bruno era convinto delle sue armi intellettuali. Anche troppo…aveva ciarlato in abbondanza, a Venezia, con i compagni di cella, rendendo evidente che il pentimento manifestato non era stato reale, inoltre disquisisce strenuamente con i suoi accusatori: si pone sul loro stesso piano, in una disputa filosofica e teologica, in cui arrivava a cercare di stabilire lui, l’accusato, cosa sia eresia e cosa non lo sia. Sta sempre bene attento a distinguere fede e filosofia, a precisare che, dopo la scomunica che lo aveva colpito, non si era mai avvicinato ai sacramenti, a motivare la sua presenza in terre eretiche.


Non per nulla il processo è lungo, lunghissimo, e subisce varie fasi di stallo. Si sblocca con l’arrivo di un teologo preparatissimo e famoso: il gesuita Roberto Bellarmino, che dai libri di Bruno estrapola otto tesi sicuramente eretiche, e certamente da rinnegare, si trattava probabilmente solo di capire la disponibilità dell’accusato a recedere dalle sue posizioni. In Clemente VIII tanti avevano riposto delle speranze, incluso Bruno, che lo definirà “un galant’uomo perché favorisce i filosofi e posso anche io sperare d’esser favorito”. Il papa veniva considerato uomo colto, buon diplomatico interessato alla filosofia. Si sperava anche nel nuovo clima inaugurato con l’ascesa al trono di Enrico IV. Un protestante riconvertito al cattolicesimo sembrava aprire una stagione di conciliazione. Perché Giordano Bruno sapeva rischiare grosso. Le cose andarono molto diversamente, come si sa. E Bruno, dopo essersi difeso, aver negato ciò che poteva negare, aver controbattuto punto su punto, essersi offerto di abiurare ciò che poteva, dovette costatare tra sé che tutto era perduto o che, forse, abiurare non voleva. E così, assieme all’abiura, aveva inviato uno scritto al papa, in cui ribadiva puntualmente le sue idee. E il papa ne decretò la condanna. La sentenza era stata emanata in una sala di Castel Sant’Angelo e Bruno, in ginocchio, l’aveva ascoltata nel palazzo del cardinale Madruzzi, in piazza Navona. Dopo lunghi anni di prigionia aveva lasciato la cella che era stata la sua dimora ed era stato consegnato al braccio secolare. Il suo ultimo memoriale al papa fu aperto, ma non letto. Gli ultimi giorni di vita era destinato a trascorrerli nel carcere di Tor di Nona, per venire condotto al rogo in Campo de’ Fiori ed essere arso vivo, come “eretico, impenitente, pertinace” durante il Giubileo del 1600. Il giorno della condanna era stato stabilito per giovedì 17 febbraio e così fu, naturalmente. Nudo, fu legato a un palo e bruciato vivo all’angolo fra via dei Balestrari e Campo de’ Fiori.


Il parlare gli venne impedito con una sorta di museruola di ferro, la mordacchia, che gli bloccava la lingua per evitare che pronunciasse eresie davanti al popolo. Una volta compiuto l’orrendo rito, le sue ceneri vennero gettate nel Tevere affinché nulla rimanesse di lui.

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(Marita Bartolazzi - Le strade del mistero e dei delitti di Roma)

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