Raffaello

aprile 06, 2021


Al contrario di Michelangelo, che era il prototipo dell’artista inquieto, tutto tormento interiore e tormenti con le committenze, Raffaello era tutta estasi artistica, senza il tormento. Bello, elegante, nobile nel portamento, era fiero e consapevole del proprio talento, benedetto da un carattere sereno e amabile, capace di cogliere le opportunità senza cedere a compromessi. “E’ uno dei pochi grandi artisti”, ha detto lo storico dell’arte Federico Zeri, “che, come Rubens, sia stato felice. Si sentiva a proprio agio con la vita. Dipingeva allegramente, amava, beveva, mangiava, non aveva tormenti e non avrebbe avuto mai bisogno di uno psicanalista”. Uno dei pochi artisti a godere di grandissima fama già in vita, considerato dai contemporanei un divo, ha lasciato un segno profondissimo nella storia dell’arte. Da un certo punto di vista ebbe vita facile. Breve, ma facile. La sua prematura scomparsa, a soli 37 anni e all'apice della carriera, contribuì a fare di lui un mito. Avevo il fascino del divo e vantava stuoli di fan: le donne lo corteggiavano per ottenerne i favori sessuali e i ricchi committenti per riuscire a ingaggiarlo. Tutti lo volevano e lui a tutti si concedeva, generosamente. A raccontarci la vita dell’artista fin dagli esordi è il Vasari il quale, pur considerando Raffaello non un uomo comune, ma addirittura un dio mortale, ci informa che il piccolo genio aveva avuto la strada spianata in quanto figlio d’arte. Il padre, Giovanni Santi, pittore alla corte di Urbino, grazie alle sue conoscenze era riuscito a farlo entrare a soli undici anni nella bottega del Perugino, all'epoca una degli artisti più quotati.


In poche parole, Raffaello era stato raccomandato dal padre. Il suo talento naturale, però, fece il resto e proprio Perugino fu il primo a “cadere ai suoi piedi”, eleggendolo allievo prediletto. Secondo alcuni critici la pittura del maestro subì addirittura l’influenza del giovanissimo e precoce allievo. Il ragazzo era ambizioso. Urbino gli stava stretta, sognava Firenze, la culla del Rinascimento, patria di artisti come Leonardo, Botticelli e Michelangelo. Detto fatto. Grazie all'amicizia con i duchi di Montefeltro riuscì a far arrivare all'attenzione di Pier Soderini, gonfaloniere della Repubblica di Firenze, una lettera firmata da Giovanna della Rovere, in cui molto esplicitamente raccomandava Raffaello “il quale avendo buono ingegno nel suo esercizio, ha deliberato stare qualche tempo in Fiorenza per imparare”. E così fu. Raffaello, come scrive Vasari, “studiando le fatiche de’ maestri vecchi e quelle de’ moderni, prese da tutti il meglio e fattone raccolta, arricchì l’arte della Pittura di quella intera perfezione che ebbero anticamente le figure di Apelle e di Zeusi”.


Carico di studi e di esperienza – era dotato di una capacità di assimilazione sorprendente – iniziò a stargli stretta anche Firenze e puntò a Roma, il cuore dell’arte classica, una fonte d’ispirazione per l’artista che si trasformerà in una vera passione oltre che in una missione. Il ragazzo voleva andare nella Città Eterna? Detto fatto, fu presto accontentato. Nel 1508 venne chiamato a Roma dal papa in persona, Giulio II. A raccomandarlo presso il pontefice fu Donato Bramante, che era un mezzo parente. Secondo quanto riportato da Vasare, quell'intrigante dell’architetto, che dal 1506 soprintendeva ai lavori per la costruzione della nuova basilica di San Pietro, lo aveva segnalato proprio “per un poco di parentela ch'aveva con Raffaello e per essere di paese medesimo”. Stando ad alcune voci, Bramante aveva sollecitato la venuta di Raffaello alla corte papale anche per togliersi di mezzo Michelangelo. Probabile, ma certo Giulio II sapeva quello che faceva e guardava ben altre qualità che non la parentela, la comune origine marchigiana o le invidie tra artisti, tant’è che fu così scaltro da tenerli tutti in Vaticano, contemporaneamente. Al papa guerriero interessava il talento, che certo a Raffaello non mancava e, nonostante la giovane età, l’eco dei suoi successi era arrivata anche a Roma, pertanto non aveva bisogno di particolari raccomandazioni. Così, mentre dopo mille insistenze, litigi e ipotesi di complotto Michelangelo lavorava alla Cappella Sistina, nel 1508 Raffaello si vide affidare l’incarico di decorare le stanze degli appartamenti privati del papa in Vaticano. Giulio II infatti si rifiutava di rimanere dove aveva vissuto nel peccato quel lussurioso di Alessandro VI Borgia, odiatissimo rivale e si era trasferito al piano superiore del palazzo Vaticano. Raffaello non ebbe difficoltà a interpretare i desideri del papa con cui condivideva la passione per il mondo antico e per la bellezza come rappresentazione del divino – riuscendo a farsi portavoce della sua politica culturale, che mirava a chiamare a Roma i migliori artisti in circolazione per restituirle l’immagine di Città Eterna e capitale della cristianità.


Nella Stanza della Segnatura, dove convivono La Scuola di Atene, esaltazione della ricerca razionale della Verità e La Disputa del Sacramento, celebrazione della Verità Rivelata, nonostante la complessità del tema, Raffaello riesce a tradurre i concetti in immagini che dall'intelletto arrivano al cuore: questa è la sua grandezza, la capacità di rendere vivi e comprensibili anche i più complessi concetti teologici.


La sua pittura è caratterizzata da un senso di armonia e di equilibrio che si contrappone al “furor” di Michelangelo, al dramma dei suoi personaggi. Al contrario del Buonarroti, Raffaello prediligeva il lavoro di équipe: come un regista ideava e impostava il progetto che poi i suoi collaboratori realizzavano prestando ciascuno la propria creatività, ma sempre nel rispetto dell’idea del maestro che supervisionava, vigilava, controllava, correggeva e suggeriva.
 

Talentuoso e diplomatico, ci mise poco a diventare una star. Si racconta che quando camminava per le strade di Roma, scortato da uno stuolo di assistenti, le donne cadevano ai suoi piedi, letteralmente: qualcuna si limitava a sospirare, mentre altre svenivano incapaci di resistere al fascino del bel pittore. Proprio la nomea di tombeur de femmes – o meglio “persona molto amorosa e affezionata alle donne” nella definizione del Vasari – scatenò tra i contemporanei pettegolezzi a non finire. La fama di amatore era pari a quella di pittore, ma, se nell'arte ricercava l’equilibrio e l’armonia, Raffaello, a letto, era tutto fuoco e furore, passione e ardore. Era capace di lavorare senza sosta a ritmi serratissimi (dipingeva, progettava e studiava come se sapesse di avere poco tempo a disposizione) ma se aveva una donna in mente perfino il lavoro passava in secondo piano. Lo imparò a sue spese Agostino Chigi, il ricco banchiere senese che affidò a Raffaello parte della decorazione della sua villa a via della Lungara, oggi Villa Farnesina.


Fiero di essersi accaparrato il miglior artista in circolazione, lo stesso che affrescava le stanze del papa per capirci, Chigi non ne aveva messo in conto l’irruenza amorosa. È Vasari a informarci del love affair tra Raffaello e Margherita Luti, una giovane donna che viveva a Trastevere soprannominata la Fornarina in quanto figlia di un fornaio. Tra tutte le avventure presenti nel curriculum dell’urbinate, questa forse fu l’unica vera storia d’amore, tanto che Vasari si sbilancia sostenendo che Raffaello amò Margherita fino alla morte. Esistono due versioni del fatidico incontro, entrambe concordi su un punto: fu amore a prima vista, un vero colpo di fulmine. Nella versione più romantica, gironzolando per le strade intorno a via della Lungara durante una pausa di lavoro, Raffaello vide Margherita affacciata alla finestra e rimase folgorato dalla sua bellezza (secondo alcuni maligni, la Fornarina era una prostituta e si sporgeva per adescare i clienti). Nell'altra versione, più maliziosa, l’incontro avvenne sulle rive del Tevere: Raffaello avvistò Margherita mentre si bagnava mezza discinta in compagnia di alcune amiche e la vista delle sue grazie esposte senza veli lo mandò su di giri. Vasari sostiene che si innamorò a tal punto da non riuscire più a concentrarsi sugli affreschi e minacciò di non terminare il lavoro se non avesse avuto Margherita al suo fianco. Agostino Chigi iniziò a preoccuparsi per il ritardo che i capricci della sua star rischiavano di costargli. Il senese era un ricco e raffinato culture dell’arte, ma restava pur sempre un banchiere, quindi attento alle spese. Pur di rimettere l’artista al lavoro, acconsentì alle sue bizzarre richieste ospitando la ragazza nella villa. Ispirato e soddisfatto dalla presenza della sua musa, Raffaello infuse la sua incontenibile vitalità erotica e passionale nella decorazione della Loggia di Amore e Psiche dove, grazie alla felice intuizione di prolungare la vegetazione del giardino della villa nei festoni di fiori e frutta dipinti nella finta pergola, è riuscito a creare una suggestiva continuità tra interno e esterno in un trionfo di vitalità che ora sappiamo da dove proveniva.


Altro che ispirazione, sarebbe meglio parlare di passione, quella vera. Ispirati da tale tripudio d’amore, nonché suggestionati dalla favola di Amore e Psiche, ci piacerebbe concludere con un classico “e vissero tutti felici e contenti”, Chigi con il lavoro finito e Raffaello con la sua bella Fornarina, ma fu così solo per poco. L’artista, infatti, era ufficialmente fidanzato con Maria Dovizi, nipote del potentissimo cardinal Bibbiena, braccio destro del nuovo papa Leone X. Si trattava di un rapporto di convenienza più che d’amore, lo sapevano tutti, a cominciare da Vasari, sempre il meglio informato sulle vite degli artisti. In realtà Raffaello si era ritrovato incastrato in una situazione scomoda. Aveva conosciuto Maria a Urbino e in seguito si erano frequentati a Roma perché lo zio, cardinal Bibbiena, gli aveva commissionato vari lavori, tra i quali la decorazione di un paio di ambienti, piuttosto singolari, della sua personale abitazione nel palazzo pontificio. La ragazza non era il tipo di Raffaello, bruttarella e pure malaticcia, ma era la nipote di un grande committente. Così l’artista si era ritrovato con le spalle al muro e nonostante i continui e ripetuti tentativi per non formalizzare il matrimonio, non era riuscito in alcun modo a contrastare le insistenze del cardinal zio che era arrivato perfino a minacciarlo. Da alcune lettere in cui l’artista allude al fidanzamento, si capisce che era certo di non uscirne vivo. E infatti ne uscì solo a causa della sua prematura e inaspettata morte. Non fu lo stress di questa situazione delicata a farlo ammalare, nonostante Vasari insinui che il decesso dell’artista sarebbe da imputare anche ai suoi eccessi amorosi, ma il troppo lavoro e una probabile polmonite. Lo abbiamo detto, il pittore era uno stacanovista dell’amore e dell’arte. Durante la sua permanenza a Roma fu impegnato contemporaneamente su più fronti: nominato conservatore delle Antichità romane, direttore dei cantieri della basilica e del palazzo in Vaticano, in seguito alla morte di Bramante, Raffaello era conteso da committenti illustri e sommerso da richieste di lavoro, tra le quali riusciva a barcamenarsi egregiamente coadiuvato da una schiera di talentuosi artisti, giovani della sua bottega, come Giulio Romano, Giovan Francesco Penni, Giovanni da Udine, solo per citarne alcuni. Senza di loro non sarebbe certamente riuscito a portare a termine l’impresa di realizzare, in appena un anno, la decorazione delle Logge Vaticane, un miracolo possibile solo grazie al genio unificante di Raffaello, alla sua visione unitaria e globale. Si ammalò quando, chiamato da Leone X per discutere alcuni cambiamenti da apportare agli affreschi delle Stanze, solerte e tempestivo si precipitò dal papa fradicio fino al midollo a causa di un forte temporale. Neanche il tempo di rientrare in bottega che la febbre era già altissima e la situazione grave. L’agonia fu breve, la morte, “per febbre continua e acuta”, decisamente inaspettata e sconvolgente. Era il 6 aprile 1520, un Venerdì Santo. Tutta Roma ne rimase scossa e non solo in senso metaforico. In una lettera indirizzata a Elisabetta Gonzaga in cui fa riferimento al panico scatenato in città dalla notizia della morte di Raffaello, Pico della Mirandola scrive: “Quando nostro signore Raffaello spirò, un grande nembo di addensò sul Vaticano e s’aprirono crepe nelle pareti e in cielo apparvero carri; gli stessi segni della morte di Nostro Signore Gesù Cristo e il papa, urlando, scappò all'interno più oscuro dei palazzi vaticani”. Perfino la natura era straziata dal dolore, la natura che come recita l’epitaffio scritto da Pietro Bembo: “madre di tutte le cose, temette di essere vinta quando lui era in vita e di morire ora che è morto”.


Nessuno, forse, era più addolorato di Margherita, amante, musa e modella dell’artista, che si chiuse nel convento di Sant'Apollonia in Trastevere, dove morì pochi mesi dopo. Un recente restauro de La Fornarina, splendido ritratto di donna oggi al Museo di Palazzo Barberini e quasi certamente raffigurante Margherita, ha messo in evidenza un anello di rubini all'anulare sinistro in cui i più romantici hanno voluto vedere la prova di un matrimonio segreto, anche se probabilmente si tratta del simbolo di un matrimonio d’amore indissolubile.


Indissolubile anche il legame con Maria Dovizi, la fidanzata imposta, mai amata e mai sposata che, ironia della sorte, è ricordata con un epitaffio nel Pantheon proprio accanto a Raffaello, una vera persecuzione. A proposito della sepoltura dell’artista, qualcuno potrebbe malignare palando dell’ennesima e ultima raccomandazione. Raffaello, infatti, ricevette un trattamento di favore: non solo la sua salma venne esposta come quella dei papi al centro della Cappella Sistina (sotto gli affreschi del grande rivale Michelangelo) ma fu anche il primo pittore ad avere l’onore di essere sepolto nel Pantheon. Ma qui la raccomandazione non c’entra, c’entra davvero solo il merito.


A Roma nella sua brillante, folgorante e rapida carriera, in soli dieci anni di attività frenetica e ininterrotta Raffaello ha raggiunto l’immortalità con il suo messaggio universale di bellezza, ordine, armonia e amore. Amore inteso anche come Eros, passione fisica e carnale, perché Raffaello, i pettegolezzi lo confermano, oltre a dipingere divinamente, divinamente amava come il più passionale degli uomini. Nella sua arte l’Eros è inteso come desiderio che spinge verso la bellezza, bellezza che consola, che calma il tormento, che rasserena l’animo. Come la sua arte. Raffaello era bello. Raffaello rappresenta “il Bello”.



(Giulia Fiore Coltellacci - Storia pettegola di Roma )

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