Donna Olimpia

marzo 22, 2020

“Chi dice donna, dice danno / chi dice femmina, dice malanno / chi dice Olimpia Maidalchina / dice donna, malanno e rovina”. Così sentenziava Pasquino. All'epoca, siamo alla metà del Seicento, un personaggio importante era spesso sulla bocca di tutti, ma se era davvero potente era sulla bocca di Pasquino, la voce del popolo romano.


Donna Olimpia fu uno dei bersagli preferiti della famosa statua parlante e basterebbe questo per capire l’eccezionalità del personaggio, uno dei più intriganti della storia di Roma. Ma questo è niente. A Roma, da sempre e ancora oggi, se sei qualcuno generalmente il popolo ti affibbia un soprannome. Donna Olimpia Maidalchini in Pamphilj, era la “Pimpaccia”, dispregiativo del personaggio di una commedia seicentesca, la Pimpa, una donna furba, spregiudicata, dispotica e avida. Criticata, odiata, detestata per la sfrenata ambizione e la sfacciata avidità, praticamente da tutti i romani, nobili e popolani, come anche da parecchie personalità ben oltre i confini, bisogna riconoscere a Olimpia Maidalchini almeno un merito, anzi due: la coerenza e la determinazione. Ebbe sempre le idee chiare su ciò che voleva e, soprattutto, su ciò che non voleva. Lo dimostrò fin da giovanissima, opponendosi alla volontà dei genitori che la volevano suora. Olimpia era nata alla fine del Cinquecento da una modestissima famiglia di Viterbo, che per sistemarla l’aveva spedita in convento appena adolescente. La ragazza però, che non aveva nessuna intenzione di rinchiudersi tra quattro mura a pregare, decise di fuggire. Pensando ingenuamente di riuscire a piegarla alla volontà del Signore e alla loro, i genitori la affidarono a un frate confessore perché la convincesse. Poveri illusi: Olimpia accusò il frate di averla molestata con “turpi sollecitazioni” e cosi, mentre lui veniva inquisito, condannato a sei mesi di carcere e interdetto dall'esercizio della professione, lei archiviò definitivamente il velo da monaca per puntare a quello da sposa. Aveva l’indole dell’arrampicatrice sociale e, come abbiamo detto, le idee chiare: doveva impalmare un uomo ricco e lo trovò. Non era bella e nemmeno colta, ma intelligente e cinica, poteva contare su un carattere spigliato e su quella vivace disinvoltura che in certi casi può essere più risolutiva della bellezza, soprattutto in affari. E certo Olimpia, quando cercava un marito, non mirava ad innamorarsi ma a sistemarsi. Il “prescelto” era Paolo Nini, un ricco possidente viterbese che si dimostrò così gentile da schiattare dopo soli tre anni, lasciandola libera e benestante. Poteva passare alla fase due: sposare un nobile. La strategia era semplice: lei avrebbe messo i soldi, mentre l’eventuale marito il titolo, così da guadagnarci entrambi, soprattutto lei che avrebbe avuto accesso alla bella società. Durante un pellegrinaggio a Loreto, le venne concessa la grazia: incontrò il “buon partito”. Pamphilio Pamphilj aveva tutti i requisiti: era vecchio e squattrinato, ma apparteneva a una famiglia romana di antichissima nobiltà. Non appena sposata, la signora Olimpia Pamphilj si installò al centro di Roma, nella dimora di famiglia a piazza Navona. In quello che, all'epoca, era un piccolo palazzo senza pretese, vivevano i genitori del marito e soprattutto il fratello, Giovanni Battista, cardinale con passato da scapestrato (era soprannominato “passatempiamorevole”) con cui Olimpia entrò subito in sintonia. Era un uomo della Chiesa, quindi un buon partito e per lei, che puntava a diventare “qualcuno”, equivaleva al lasciapassare verso il potere. Il cognato era ambizioso come lei e altrettanto scaltro, ma impacciato sul piano pratico e poco portato a fare intrallazzi. Insieme, però, erano una coppia perfetta: lui ci metteva la faccia e l’abito cardinalizio, lei la faccia di bronzo e il denaro per ungere gli ingranaggi della Curia e ambire alla poltrona più importante, il trono di Pietro. Insieme trascorrevano gran parte del tempo, tanto che subito si iniziò a vociferare di una probabile relazione: “Andava la giovane sposa più spesso in carrozza col cognato che col marito; si tratteneva più nello studiolo con quello, che nel letto con questo”, si diceva. Non erano pochi a sostenere che Camillo, il figlio maschio di Olimpia e Pamphilio, fosse in realtà di Giovanni Battista. Forse erano solo malevole insinuazioni, che priverebbero per giunta il legittimo marito dell’unico ruolo ricoperto in questa storia, quello di padre dei tre figli di Olimpia: Camillo, appunto, Maria e Costanza. Maritate le figlie con due ottimi partiti e liberatasi del marito morto nel 1639, Olimpia poté concentrare tutte le sue inesauribili energie sulla carriera del cognato e, di conseguenza, del figlio Camillo. Diventata la padrona di casa Pamphilj, puntava a diventare anche la padrona di Roma. I pettegoli avevano di che sparlare: nulla di ciò che faceva Donna Olimpia passava inosservato, anche perché faceva di tutto per essere notata. In barba alla vedovanza, partecipava alle feste, assisteva alle rappresentazioni teatrali e presenziava agli eventi più mondani di Roma chiacchierando, giocando d’azzardo e divertendosi ad arraffare quanto più denaro poteva, mentre mandava avanti un lucroso business di strozzinaggio e, cosa ancor più riprovevole, riscuoteva personalmente gli incassi dei bordelli che gestiva. Tutti ne disprezzavano la condotta, ma nessuno mosse un dito per contrastarla, se non a parole. Solo Urbano VIII, l’uomo al cui posto Olimpia ambiva e che si sentiva in bilico sul proprio trono, avvertì la Curia che si stavano riscaldando una serpe in seno. L’interesse maggiore della Pimpaccia, infatti, rimaneva piazzare il cognato al vertice del Vaticano. Non sappiamo quanto peso la donna abbia avuto nel rissoso conclave che seguì la morte del papa, fatto sta che alla fine a essere eletto pontefice, con il nome di Innocenzo X, fu proprio Giovanni Battista.


Quello stesso 15 settembre 1644, donna Olimpia divenne “papessa”, come fu tempestivamente soprannominata dalla voce del popolo. Liberatasi anche di quel minimo di senso morale in dotazione a ciascun essere umano, si sistemò in Vaticano, ritagliandosi il ruolo di First Lady, occupandosi personalmente della gestione della “casa” e di tutto ciò che riguardava il santo padre, compresi il menù giornaliero e pure il letto. Passava tutto per le sue mani e molto vi rimaneva, dal momento che faceva la cresta sulle spese di palazzo e speculava su ogni cosa. La Curia era in grande imbarazzo, non tanto per i favoritismi di cui lei beneficiava, quanto per la sfacciata e smisurata ambizione della donna e per il suo presenzialismo, che la faceva essere sempre in prima fila a ogni cerimonia e impegno ufficiale del pontefice. Tra i primi impegni nella sua agenda di governo, ci fu ovviamente la nomina del figlio Camillo a cardinal nepote. Fu così che con la Pimpaccia si inaugurò la stagione del “cognatismo”. Il popolo – che non vedeva di buon occhio Olimpia quando era solo “donna” e ora da “papessa” la detestava con tutto il cuore – cominciò presto a criticare l’anomalo ménage vaticano. Giocando con il latino e il suo nome, Pasquino sentenziò: “Olimpia: Olim pia, nunc impia”, ovvero “Olimpia: una volta era pia, ora è empia”. Pia non lo era mai stata, ma da quel momento agì senza più remore né decenza, atteggiandosi a padrona indiscussa di Roma: mentre le si spalancavano le porte dei palazzi e diventava la protagonista dei salotti e degli eventi mondani, il risentimento popolare aumentava, alimentato da quella sfacciata avidità che le valse il soprannome di “porta del Vaticano”, perché chiunque volesse un favore, ambisse a una nomina, avesse una richiesta o soltanto intendesse chiedere udienza al papa, doveva passare attraverso di lei, che non faceva niente per niente e pretendeva parcelle salate per la propria intermediazione. “Chi porta vede la porta/ chi non porta non vede la porta” commentavano Marforio e Pasquino, a proposito del via vai di questuanti, che animava il palazzo di piazza Navona, curiosamente a due passi dalla statua parlante.


Il suo potere era enorme, ma sembrava non bastarle mai; si arricchiva con ogni mezzo, lecito e illecito, imbrogli e furti compresi, sbattendo in faccia al popolo il suo lussuoso e disonesto tenore di vita. Ogni occasione era buona per lucrare e guadagnare più soldi, perfino il Giubileo. L’anno santo del 1650 fu per lei un’ottima annata: la Pimpaccia fece affari d’oro con il business degli alloggi, ma anche con un losco traffico di offerte e reliquie. Destò scandalo, se non orrore, ciò che accade durante la cerimonia di traslazione del corpo di santa Francesca Romana, quando al momento di deporlo nella teca scolpita dal Bernini, le monache di Tor de’ Specchi si accorsero che alla santa mancava una spalla. Qualche tempo dopo, la preziosa reliquia ricomparve miracolosamente nelle mani di Donna Olimpia, sotto forma di dono fatto dal papa alla sua adorata cognata. Di fronte a tale gesto sacrilego, la rabbia del popolo, già a conoscenza di tutte le malefatte e le ruberie della Pimpaccia, fu ingestibile e si rese necessario aumentare la sicurezza davanti al palazzo di piazza Navona, per evitare tentativi di aggressione. Ma alla Pimpaccia le chiacchiere della gente non interessavano. Si sentiva al di sopra di tutto e di tutti e, armata di una gran faccia tosta, alle maldicenze rispondeva in modo piuttosto verace: “A cavallo biastimato je ariluce il pelo”, che parafrasato vuol dire che più si parlava di lei – anche male – più lei risplendeva. Il restyling del palazzo di famiglia e di piazza Navona fu un’altra iniziativa che esacerbò il risentimento dei romani. Divenuta la padrona di Roma, la Papessa aveva bisogno di un palazzo all'altezza del suo ruolo e quindi avviò i lavori per trasformare la modesta abitazione dei Pamphilj in una reggia, ingrandita e decorata in maniera superba per far schiattare tutti d’invidia.  Piazza Navona ne sarebbe stata l’anticamera, anzi il salotto bene che andava arredato e decorato di conseguenza, pertanto tutti i mercatari con i loro banchi furono costretti a sloggiare.


Una delle piazze preferite dai romani divenne quindi una sorta di prolungamento privato di casa Pamphilj, un’azione “illegale” che ai cittadini non piacque affatto, anche perché per finanziare i lavori furono costretti a pagare imposte straordinarie. A trasformare le vasche, che ornavano la piazza, in maestose fontane, ci pensò Bernini e fu proprio grazie alla Pimpaccia se ottenne la commessa, rientrando nelle grazie del papa. Come diceva Pasquino: “Per chi vuol qualche grazia dal sovrano/aspra e lunga è la via del Vaticano/ ma se è persona accorta/ corre da Donna Olimpia a mani piene/ e ciò che vuole ottiene/. È la strada più lunga e la più corta.” E così Bernini, bisognoso di riacquistare visibilità e farsi amico il papa, puntò sulla ben nota avidità di donna Olimpia per soffiare il progetto della Fontana dei Fiumi a Borromini.


La sua strategia fu abilissima e ben studiata: prima ammorbidì la Pimpaccia con un regalo in denaro, poi si lavorò il figlio Camillo regalandogli un brillocco di valore e, infine, il colpo di grazia fu recapitare un modellino della fontana in argento massiccio. Era fatta, la decisione presa e papa Innocenzo X d’accordo: Bernini ottenne l’incarico per la Fontana dei Fiumi e anche per quella del Moro. In principio al centro della vasca di Giacomo Della Porta, l’artista aveva sistemato una scultura a forma di chiocciola sorretta da due delfini. Ma donna Olimpia si lamentò che una lumaca non fosse elegante né abbastanza scenografica, così Bernini dovette cedere ai desideri della Papessa, piazzando al centro della fontana un bel Nettuno seminudo, che con tutto il suo virile vigore stritola un delfino a mani nude, un soggetto ben più stuzzicante di una lumaca, a detta della signora (lumaca che comunque si fece regalare per arredare i giardini di Villa Pamphilj).


Come tutti a Roma, anche Bernini sapeva benissimo che Innocenzo X contava poco e che a prendere tutte le decisioni era sempre e solo l’avida cognata: non a caso le poche volte che il papa prese un’iniziativa di sua sponte, scoppiò il putiferio. La prima occasione fu quando ebbe la sciagurata idea di non affidare il prestigioso incarico di cardinal padrone al nipote Camillo. La reazione di donna Olimpia fu feroce. In realtà il papa aveva nominato Camillo cardinale solo per compiacerla, perché non aveva nessuna stima del nipote che, a sua volta, aveva ben altre idee per la testa, che non la carriera ecclesiastica tanto che, poco dopo, in barba ai progetti materni, abbandonò l’abito cardinalizio per sposare la bella e ricca Olimpia Aldobrandini. La decisione fu osteggiata sia dalla mamma che dallo zio papa, ma Camillo tenne il punto. Offesa e risentita per essere stata scavalcata, la Pimpaccia bandì gli sposi da Roma, non prima di averne disertato il matrimonio obbligando anche il papa a non partecipare. I dissapori tra madre e figlio servirono a ravvicinare i due cognati. Innocenzo X era depresso per questioni di politica internazionale e donna Olimpia ne approfittò per riguadagnare terreno: nonostante alcune scaramucce, restava sempre la consigliera prediletta del papa, un ruolo a cui la donna teneva particolarmente. Viceversa, Innocenzo X era consapevole della sua dipendenza dalla Pimpaccia, senza la quale si definiva “una nave senza timone”. I rapporti si guastarono nuovamente quando Innocenzo X, che evidentemente non aveva imparato la lezione, fece ancora di testa sua nominando Camillo Astalli cardinal nepote. A influenzarlo ad agire senza interpellare la cognata, furono non tanto le lamentele del popolo, della cui opinione gli importava poco, quanto le critiche mosse da chi, come Ferdinando III da Vienna, protestava contro le ingerenze di una donna nelle faccende politiche. La decisione del papa scatenò l’ira funesta della Pimpaccia, che fece al cognato una sfuriata epocale, roba de fra tremare le mura vaticane, dissero i presenti. Innocenzo X fu costretto a cacciarla, confinandola nel castello di San Martino al Cimino. L’esilio di donna Olimpia permise il rientro a Roma di Camillo e sua moglie, la quale con maldestre manovre tentò di prendere il posto della suocera come consigliera del papa. Questa iniziativa fece rimpiangere a Innocenzo X la sua vecchia e (mal)fidata consigliera, che si affrettò a richiamare a Roma. Fu proprio in seguito a questa grande rentrée che la Pimpaccia fece ristrutturare il palazzo di famiglia, mettendo mano alla piazza e alla chiesa di Sant’Agnese: tutti dovevano saper che la Papessa era tornata, più potente e spietata di prima.


Quando nel 1564 le condizioni di salute di Innocenzo X si aggravarono, il potere di Olimpia aumentò: il papa voleva solo lei al suo fianco. La donna era abbastanza intelligente da sapere che, morto il cognato, le cose sarebbero cambiate e cominciò a pensare a un “piano pensione”. Si racconta che ogni giorno andava al capezzale del Santo Padre e ogni notte usciva di nascosto dal palazzo Vaticano con una carrozza carica di beni preziosi, trafugati dal tesoro pontificio. Fonti ostili ma ben informate sostenevano che negli ultimi giorni di vita del papa la donna si fosse anche data alla vendita sfrenata di benefici ecclesiastici, accumulando in dieci giorni cifre da capogiro. Quando nel gennaio 1655 Innocenzo X morì, il popolo esultò, perché finalmente si sarebbe liberato di Olimpia: “Finita è la foia/di questa poltrona/di piazza Navona: chiamatele il boia./Finita è la foia/ è morto il pastore/ la vacca ci resta; / facciamole festa/ cavatele il core./ E’ morto il pastore.” Incurante di tali dimostrazioni d’odio, Olimpia sparò gli ultimi colpi di cinica avidità dando il peggio di sé (su questo tutte le fonti sono concordi): dopo essersi affrettata ad arraffare alcune casse piene d’oro che il cognato teneva nascoste sotto il letto, si rifiutò di pagare le spese del funerale: “Sono solo una povera vedova”, si giustificò con una recita poco credibile. Tale ultima meschinità le meritò l’eterno e definitivo biasimo del popolo. La salma di Innocenzo X rimase abbandonata per diversi giorni in una sorta di deposito per arnesi finché, per motivi igienici, venne chiusa in una cassa di legno per una sepoltura provvisorio. Passarono ventidue anni prima che il papa potesse avere una degna sepoltura a Sant’Agnese.


Morto un papa, se ne fa un altro e donna Olimpia cercò di manipolare il conclave a suo favore, ma senza risultato. Il “cognatismo” era morto con il cognato. Tra le prime risoluzioni prese dal neoeletto Alessandro VII Chigi, ci fu quella di mettere fuori gioco la Papessa e così la cacciò da Roma condannandola agli arresti domiciliari a Orvieto. Poi iniziò a raccogliere la documentazione per un’azione legale accusandola, tra le altre cose (ben nove i capi d’accusa), di essersi appropriata del denaro dello Stato e del tesoro del papa. Olimpia cercò di cavarsela attraverso l’unica via da sempre perseguita, quella della disonestà, ovvero tentando di corrompere Alessandro VII con numerosi doni, vincendo la sua famigerata avarizia. Il papa, invece, scelse le vie legali e nel rispedire al mittente tutti i regali, specificando che il Vaticano non era luogo opportuno per le donne, le diede il benservito mettendo fine alla dittatura della Pimpaccia. Donna Olimpia fu costretta a fuggire da Roma e trascorse gli ultimi anni a San Martino al Cimino, dove morì poco dopo di peste. Lasciò due milioni di scudi in oro, una cifra esorbitante per l’epoca, un tesoro accumulato a suon di malefatte, ma soprattutto lasciò un pessimo ricordo di sé. Nessuno la rimpianse e nessuno si lamentò della sua assenza anche se, secondo la tradizione popolare, continua a far sentire la propria molesta presenza ogni 7 gennaio, quando il suo fantasma si manifesta a bordo di una carrozza che, trainata da quattro cavalli e carica di forzieri d’oro, si lancia in una corsa perdifiato da Villa Pamphilj fino a ponte Sisto, prima di scomparire nel Tevere. Evidentemente la Pimpaccia non vuole liberare Roma dalla sua presenza. Questo, però, più che un pettegolezzo è una leggenda.

(Giulia Fiore Coltellacci - Storia pettegola di Roma) 


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