I busti del Pincio

maggio 31, 2020


Si legge spesso sulle cronache locali la notizia di atti vandalici contro i busti del Pincio. Nel corso di uno degli ultimi furono sfregiati Leopardi, i pittori Paolo Veronese e Alessandro Peruzzi e l’architetto cinquecentesco Giacomo Barozzi detto Vignola. I balordi, guidati probabilmente da una buona dose di alcool e di insolenza, si “divertirono” a far saltare i nasi delle statue, prendendoli di mira con sassi e bastoni. Anzi, per le sculture andò meglio di altre volte, quando alcune, tra cui quella di Cavour, vennero divelte dai propri piedistalli lungo il viale del Belvedere. Ed è curioso come le disavventure di questi marmi, dedicati alle memorie di grandi personalità italiane, siano ricorrenti e non occupino solo le cronache più recenti. Si può dire che la cattiva sorte li abbia accompagnati fin dall’inizio. L’idea della loro realizzazione risale al 1849, su proposta di Giuseppe Mazzini, che ne volle commissionare l’opera agli artisti caduti in disgrazia e rimasti senza lavoro, in seguito ai moti del ’48. L’intento voleva essere, probabilmente, quello di suscitare un po’ di orgoglio e coscienza nazionale nel popolo che, passeggiando per i viali del parco, avrebbe ripercorso, attraverso una galleria di italiani illustri, la storia del proprio Paese.


Il Pincio fu, d’altronde, la prima area di verde pubblico messa a disposizione dei cittadini della Capitale. Quante belle speranze animavano l’”apostolo” del Risorgimento italiano, che dovette far presto i conti con una realtà che non corrispondeva al suo entusiasmo. Problemi burocratici e mancanza di fondi ritardarono, come sempre succede da noi, i lavori e la collocazione, fino a quando la sollecitudine papale ne accelerò i tempi a scapito, tuttavia, dell’originario progetto. Alcune immagini, infatti, non piacquero a Pio IX, perché ritenute di eretici, atei e rivoluzionari. Ebbe così inizio quell’irrefrenabile “vizio” di voler loro cambiare i connotati. Ad alcuni scultori, tra cui il Sarrocchi, venne affidato il compito di mutare la fisionomia di quei personaggi non graditi al papa e di ricavarne nuove somiglianze e nuove denominazioni. In questo modo l’ultimo ferito, il senza naso Leopardi, cela in realtà le sembianze del pittore Zeuxis, originario del Ponto Eusino, forse reo di aver raffigurato nelle sue opere, sul finire del V secolo a.C., gli dèi del pantheon greco. Al posto dell’eretico Savonarola si preferì il musicologo e teologo Guido D’Arezzo, quello che, tra i vari lampi di genio, assegnò un nome a ciascuna delle note del pentagramma. L’oratore e tribuno della plebe Gaio Gracco, assassinato perché in contrasto con l’oligarchia dominante, cedette il posto all’architetto Vitruvio, autore del celebre trattato De architectura, dedicato all’imperatore Augusto. Un’altra statua è segnalata come quella di Orazio. In realtà, la persona effigiata non è il poeta del carpe diem, ma il condottiero Erasmo da Narni, detto il Gattamelata, che con l’ars poetica ha veramente poco a che fare. In questo caso, gli scultori non si preoccuparono nemmeno di rimodellare la pietra e, sebbene i lineamenti del vate fossero noti attraverso antichi medaglioni romani, si limitarono semplicemente a cambiare il nome inciso alla base del busto. 


Persino la presenza di Vittorio Alfieri urtò la “sensibilità” di Pio IX (che precipitosamente la fece sostituire con quella di Vincenzo Monti): fu forse a causa della passione amorosa del poeta, indirizzata spesso verso donne sposate, che lo costrinsero a fughe precipitose o in qualche caso a veri e propri duelli con gli oltraggiati mariti, oppure per gli scritti satirici sui costumi italiani (tra cui Il divorzio). In ogni caso, la censura dell’Alfieri tra gli immortali del Pincio non ebbe lunga durata. Il Comune di Roma, difatti, nel 1871 (e col papa chiuso in Vaticano dopo la breccia di Porta Pia), decise di dedicargli un busto nuovo di zecca. Sparse per i viali del colle, le statue raggiungono oggi il cospicuo numero di duecentoventotto. In realtà, la loro sistemazione si è prolungata oltre il 1900, e un’intera area, piazza dei Martiri, è stata destinata alla memoria degli uomini illustri caduti nella Prima Guerra Mondiale. L’ultimo intervento risale alla fine degli anni Sessanta. Ahimè, sono solamente tre i busti dedicati alle donne: la poetessa Vittoria Colonna; la scrittrice premio Nobel Grazia Deledda e, infine, ma non meno importante, la santa e compatrona di Roma, Caterina da Siena, recentemente “eletta” protrettrice dei pattinatori che, com’è noto, confluiscono puntualmente ogni weekend lungo i viali del Pincio. Questi monumenti, realizzati in marmo di Carrara e travertino, non sono, è certo, opere di noti e raffinati artisti. In ogni caso la loro presenza rappresenta una curiosità e un’esclusività del parco del Pincio, nonché una memoria storico importante per tutti gli italiani. C’è solo da augurarsi che un maggior controllo faccia cessare una buona volta i raid vandalici che troppo spesso relegano le erme negli studi dei restauratori.

(Gabriella Serio - Segreti e curiosità di Roma)

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