9° ITINERARIO - RIONE VI PARIONE (PRIMA PARTE)

ottobre 04, 2021

Totale percorso circa km. 2  questa la mappa

Il sesto Rione di Roma è Parione, che deriva dal latino Paries, cioè muro, con riferimento, molto probabilmente, a qualche struttura antica che non è mai stata però esattamente identificata. Si pensa ad un rudere che poteva appartenere allo Stadio di Domiziano. La sua forma ricorda un triangolo, con i suoi tre lati che corrispondono ai confini con altrettanti rioni: Ponte, Regola e S. Eustachio. È attraversato da Corso Vittorio Emanuele II, e i due itinerari che ho previsto per la visita di questo Rione, si riferiscono proprio ad un lato e all'altro della via. Da una parte Piazza Navona, e le sue strade limitrofe, quali via di Parione, via del Governo Vecchio, via del Teatro Pace, eleganti, con palazzi e chiese rinascimentali; dall'altra la zona più popolare, ma altrettanto affascinante, di Campo de’ Fiori, con le vie che, nei loro toponimi, sono un chiaro riferimento alle attività commerciali che un tempo vi si svolgevano: via dei Giubbonari, via dei Baullari, via dei Chiavari, via dei Cappellari ecc. ecc.
Non posso non partire, per la scoperta di questo Rione, dal suo luogo più famoso, Piazza Navona, una delle più ampie e più belle piazze del centro di Roma, entrando in essa da via Agonale, proprio accanto a quella che, un tempo, era una delle entrate all'antico Stadio di Domiziano. La piazza, infatti, nella sua forma ovale, con un lato curvo e l’altro dritto alle due estremità, e gli edifici circostanti che occupano il luogo delle gradinate della cavea, ricalca esattamente l’arena del vecchio impianto.
Lo stadio fu fatto costruire da Domiziano già prima dell’86 d.C. e vi si svolgevano prevalentemente giochi atletici che però non erano molto seguiti dai Romani. 
Questi giochi venivano chiamati “agones” e proprio la corruzione di questo termine porta all'attuale nome della piazza: agone divenne “in agone” poi “innagone”, “navone” e infine “Navona”. Vicino allo stadio si trovava un Odeon, una specie di teatro dove si svolgevano gare e spettacoli musicali. Anche di questo è possibile individuarne la posizione e la forma, perché fu utilizzato come base dalla famiglia dei Massimo per costruirci sopra i loro palazzi, di cui vi parlerò più avanti, nella seconda parte. Lo stadio rimase in funzione fino a metà del V secolo e dall'ottavo secolo iniziò la sua distruzione. L’area archeologica di Tor Sanguigna, a circa 4,50 metri dal piano stradale, è quanto resta del primo e unico esempio di stadio in muratura conosciuto a Roma.

Durante i lavori di realizzazione del Corso Rinascimento, vennero trovati alcuni resti, ancora visibili sotto i portici di quel tratto di strada che, caso unico a Roma, è denominato “Corsia Agonale”.

Intorno all'anno 1000 la zona si presentava con lo Stadio ancora interamente chiuso, mentre la piazza era divisa in piccoli orticelli con qualche casupola e la piccola, antica Chiesa di S. Agnese e sul lato opposto, quella dedicata a San Giacomo. Nel Quattrocento venne ampliata quest’ultima chiesa e sulle fondazioni delle gradinate dell’antico stadio, sorsero pian piano delle abitazioni private; venne qui trasferito il mercato che precedentemente si teneva nella piazza antistante il Campidoglio, (lo stesso che poi verrà trasferito in Campo de’ Fiori) e la piazza cominciò a popolarsi. 
Il papa Gregorio XIII Boncompagni, fece portare nella piazza tre fontane, di cui una era un abbeveratoio per gli animali, ponendo le basi per un miglioramento della piazza che poi si avrà, nelle forme che conosciamo, grazie al cardinale Giovanni Battista Pamphili, che nel 1630, fece costruire un edificio, in forma tardo rinascimentale, che verrà poi ampliato quando, nel 1644 il suddetto cardinale diverrà papa con il nome di Innocenzo X.  Palazzo Pamphili fu costruito da Girolamo Rainaldi con un corpo centrale con balcone al primo piano, retto da quattro colonne sopra un portale ad arco bugnato.
Le finestre del primo piano hanno timpano centinato e triangolare alternato, mentre al secondo ci sono finestre con cimasa decorata da conchiglia e piccole finestrelle quadrate del mezzanino. Al centro il grande stemma dei Pamphili e sopra il cornicione una bellissima loggia a tre arcate e due finestre. Ai due lati del corpo centrale ci sono due edifici uguali di tre piani, con portali incorniciati e un piccolo balconcino sopra.

Questa fu la residenza di una delle donne più famose, più temute e detestate di Roma: Donna Olimpia Maidalchini Pamphilj, soprannominata la “Pimpaccia”, soprattutto da Pasquino che ne fece spesso oggetto delle sue “pasquinate”: “Olim pia nunc impia” (un gioco di parole in latino che tradotto suona “Un tempo pia, ora empia”), “Per chi vuol qualche grazia dal sovrano, aspra e lunga è la via del Vaticano.  Ma se è persona accorta, corre da Donna Olimpia a mani piene, e ciò che vuole ottiene. È la strada più larga e la più corta.”   “Chi dice donna, dice danno, chi dice femmina, dice malanno, chi dice Olimpia Maidalchina, dice donna, danno e rovina”. 
Donna Olimpia nasce a Viterbo in una famiglia di origini borghesi, che l’aveva destinata al convento, come le sue sorelle, per non dover dividere il patrimonio destinato all'unico figlio maschio, come era in uso a quei tempi. Ma il carattere forte e l’ambizione di Olimpia, che era decisa ad avere un ruolo importante nella società e non a vivere da reclusa in un convento, fecero sì che la donna, con uno stratagemma, sfuggisse a questo destino. Accusò, infatti, di molestie sessuali il sacerdote che si occupava della sua preparazione alla vita monastica, il quale venne sospeso dal servizio spirituale, (salvo poi essere nominato vescovo, alcuni anni dopo, proprio per intercessione della stessa Olimpia, che nel frattempo si era imparentata con la famiglia del pontefice regnante!) e donna Olimpia fu libera di sposare, all'età di 16 anni, un ricco proprietario viterbese che, dopo soli tre anni, la lasciò vedova, libera e … ricca! A venti anni andò in sposa a Pamphilio Pamphilj, più vecchio di 27 anni, di famiglia nobile, ma impoverita, alla quale faceva comodo l’ingente patrimonio della donna che, per contro, aveva la possibilità di entrare nella società romana e soprattutto di essere imparentata a Giovanni Battista, fratello del marito, nonché brillante avvocato di curia il quale, grazie anche al suo sostegno economico, divenne il futuro papa Innocenzo X.
Questo la portò ad essere la dominatrice indiscussa e assoluta della corte papale, tanto da essere soprannominata “la Papessa”. Il legame fra i due fu subito evidente dal giorno stesso della cerimonia della Presa di Possesso, quando il papa fece deviare il corteo per passare sotto le finestre di Palazzo Pamphilj ad impartire la benedizione alla sua “Olimpiuccia”, e pochi giorni dopo la sua elezione stilò un testamento che la rendeva erede di tutti i suoi beni personali. Tutta Roma, Pasquino in primis, cominciò a sparlare di Donna Olimpia e di come fosse più legata al cognato che al marito, e a sospettare che fra i due ci fosse più che solo un rapporto spirituale e platonico, soprattutto dopo la morte di Pamphilio avvenuta nel 1639. Chiunque volesse arrivare al papa, doveva passare attraverso donna Olimpia e, vista la sua avidità, i suoi favori costavano molto cari! Oggi palazzo Pamphlilj è proprietà del Brasile che vi ha istituito la sede ufficiale dell’Ambasciata e dell’istituto di cultura italo-brasiliano. Una curiosità relativa a questo palazzo riguarda i due paracarri all'ingresso del portone principale: sono due frammenti di una colonna dell’antica Basilica costantiniana di S. Pietro. Quando la basilica fu ricostruita le antiche colonne andarono o perdute o trasformate in calce da riutilizzare per nuove opere; tra le poche che si salvarono, c’era anche quella dalla quale furono ricavati i due paracarri, sui quali venne poi incisa la colomba con il ramoscello d’ulivo nel becco simbolo dei Pamphilj. 
Nel 1647, proseguendo l’opera di riqualificazione della piazza,  Innocenzo X fece di nuovo spostare il mercato (come abbiamo già detto a Campo de’ Fiori) e pensò alla costruzione di una nuova fontana al posto dell’abbeveratoio centrale. Per la costruzione della Fontana dei Quattro Fiumi fu indetto un concorso fra i migliori architetti dell’epoca, dal quale fu escluso il Bernini, architetto favorito dal papa precedente, Urbano VIII Barberini, famiglia contro la quale l’attuale papa aveva intrapreso un’azione legale per malversazione di denaro pubblico.
Quasi sicuramente l’incarico sarebbe andato al Borromini, anche perché fu costui a suggerire al papa l’idea di rappresentare con le statue i quattro fiumi (Danubio, Gange, Rio de la Plata, e Nilo) del mondo conosciuto, riconducibili ai quattro continenti (Europa, Asia, America e Africa) ma il suo disegno, pur seguendo il progetto, era piuttosto scadente. Il Bernini, invece, nonostante fosse escluso dal concorso, riuscì, ad ottenere l’incarico. 
Le versioni a tal proposito sono due: una racconta che sia stato Nicolò Ludovisi a convincere il Bernini a fare un modellino della fontana, e a fare in modo che il papa lo vedesse “per caso”; una volta visto, il pontefice non poté che affidargli l’incarico, tanto quel progetto era meraviglioso. L’altra versione vuole, invece, che l’astuto Bernini abbia realizzato il modello della fontana in argento massiccio e lo abbia regalato all'avida Donna Olimpia, la quale avrebbe convinto il papa ad affidare l’incarico a lui. Ovviamente facile immaginare l’ira del povero Borromini a vedersi preferire il suo acerrimo rivale! L’obelisco fu posto sulla fontana per volere del papa stesso, dopo che lo aveva visto in terra presso il Circo di Massenzio. Per realizzare la fontana vennero imposte delle nuove tasse su pane, vino e altri generi di consumo, che portarono la popolazione a odiare ancor di più la Pimpaccia, ritenuta responsabile della scelta del papa, e sul dorso di Pasquino spuntò un cartello con la scritta: “altro che guglie e fontane, pane volemo, pane, pane, pane!” Sicuramente la fontana è uno dei più bei monumenti della Roma barocca e, come già detto, rappresenta i quattro fiumi fino ad allora conosciuti: il Gange, il Nilo, il Danubio e il Rio della Plata. 
Il Nilo venne rappresentato con la testa velata in quanto, a quel tempo, la sua sorgente non era ancora conosciuta, ma il popolo tramutò questo significato con il disprezzo del Bernini verso la chiesa di S. Agnese, opera del Borromini, tanto da non voler guardare la chiesa, come anche il braccio alzato del Rio de la Plata, quasi a protezione della testa, fu interpretato dal popolo come un tentativo di proteggersi da un eventuale crollo della chiesa, perché mal progettata. In realtà queste sono solo dicerie prive di fondamento, perché la fontana fu terminata ben prima della costruzione della chiesa.
La fontana dei Fiumi è ricca di simbologie che forse non tutti conoscono. Iniziando dall'obelisco, che nella civiltà egizia era legato al culto del Sole. La sua forma simboleggia i raggi del sole che arrivano sulla terra. Sulla sua sommità si trova la colomba bronzea con il ramoscello di ulivo tra il becco, simbolo del potere divino, ma anche emblema della famiglia Pamphilj. 
Il significato quindi sta nell'attribuire al potere divino, ma anche a quello papale, come fossero raggi di sole, la forza di scendere fino alla roccia e dare vita ad ogni essere, nelle quattro regioni del mondo. Metafora non solo della Creazione divina, ma anche del potere della Chiesa sul mondo. Ogni fiume e riconducibile al continente attraverso dei simboli: il Gange con un remo per indicare la navigabilità del fiume;
il Nilo
, come su detto, velato perché ancora non si conosceva la sorgente e, come tipicità del continente, una palma e un leone;
il Danubio rappresentato come un vecchio a simboleggiare l’Europa, il vecchio continente;
l’America, con il Rio della Plata, era ancora un continente poco conosciuto, e il fiume viene rappresentato in modo strano, calvo e con la barba. 
Vicino ad esso un animale particolare, assolutamente sconosciuto a quel tempo: un armadillo, che il Bernini doveva aver visto nel Museo delle Meraviglie di Athanasius Kircher, gesuita tedesco di grande cultura, considerato il più celebre “decifratore” di geroglifici di quel tempo.
Altri animali sono rappresentati nella fontana, ognuno con la sua simbologia presa dalla cultura egizia: il leone, simbolo dell’abbondanza, l’ippopotamo, sostituito dal cavallo (la parola ippopotamo significa in realtà “cavallo di fiume”) simbolo di carestia, il serpente minaccioso con la bocca spalancata, sulla roccia vicino al cavallo, aggiunge ancora più negatività all’idea di carestia. Altri animali non hanno propriamente una funzione simbolica ma, artistica nel caso del drago che si avvolge al remo del Gange, in quanto con il suo movimento toglie staticità alle figure della scultura, oppure sono un vero e proprio espediente per nascondere gli inghiottitoi dell’acqua della fontana, come nel caso del serpente di mare e del delfino, rappresentati che sembrano nuotare in superficie ingoiando acqua.
Per quanto riguarda il vecchio abbeveratoio che una volta occupava il posto della Fontana dei Fiumi, lo possiamo ora ammirare all'interno di Villa Borghese, in uno spiazzo vicino al laghetto.
Le due fontane alle due estremità della piazza vennero eseguite da Giacomo Della Porta, su incarico, come abbiamo visto, di papa Gregorio XIII nel 1574. Originariamente poggiavano su due gradini, protette da una cancellata di marmo. Per la loro decorazione il Della Porta riciclò quattro grandi tritoni che erano destinati per piazza del Popolo, ma mai utilizzati. Vennero quindi posizionati nella fontana che è all'estremità meridionale della piazza, per intenderci l’attuale Fontana del Moro, davanti al Palazzo Pamphilj, e dai loro corni sgorgava l’acqua, come pure dalle rocce posizionate al centro della fontana. Furono scolpiti anche delle maschere in mezzo a due delfini, con le quale ornare ciascuna delle due fontane. Quando però si dovettero scolpire i rimanenti quattro tritoni per la fontana all'estremità settentrionale della piazza, i fondi erano finiti, e anche le suddette maschere destinate a tale fontana furono utilizzate per la costruzione della fontana del Pantheon, sempre ad opera del Della Porta. Quando Innocenzo X iniziò i lavori nella piazza chiese al Bernini di restaurare la fontana, ovviamente, che prospettava davanti al suo palazzo. 
Il Bernini disegnò un gruppo di tre delfini che sorreggevano in alto una grossa conchiglia, un murice, che i romani non ci misero molto a rinominare “La lumaca”. La soluzione non piacque, però, al papa che regalò il gruppo a sua cognata e ordinò al Bernini qualcosa di più grande. Fu realizzata, quindi, la possente figura di un muscoloso tritone, che trattiene fra le gambe un delfino e a causa dei lineamenti del viso, vagamente somigliante ad un africano, venne chiamata la Fontana del Moro.
Successivamente il Bernini eliminò gradini e cancellata di marmo da ambedue le fontane, quella a nord e quella a sud, ma solo per quest’ultima realizzò attorno alla vasca una bella piscina a livello del suolo, ripetendone il disegno. Diversa la storia per l’altra fontana, detta dei Calderari, (per la presenza nella zona di fabbricanti di catini e vasi di rame) che non aveva la fortuna di essere davanti al palazzo di Donna Olimpia. Per questo rimase a lungo abbandonata, priva di decorazioni, fino al 1873 quando un bando di concorso, indetto dal Comune di Roma, assegnò la sua sistemazione ad Antonio Della Bitta, per il gruppo centrale del Nettuno che con il tridente infilza un grosso polpo e a Gregorio Zappalà, per le figure più piccole dei cavalli marini guidati da fanciulli, dei putti e delle naiadi. Il nuovo nome fu la Fontana del Nettuno.
Ultima curiosità che riguarda la piazza e le sue fontane: una grande manifestazione iniziò il 23 giugno 1652 su idea di papa Innocenzo X o, più probabilmente, di sua cognata; sembra che durante un’inondazione del Tevere, affacciandosi dalle sue finestre, ella vide la piazza allegata e le carrozze che, passando, sollevavano alti spruzzi d’acqua ed ebbe l’idea di realizzare questo svago per i romani. 
Per quasi due secoli, durante il sabato e la domenica del mese di agosto, si chiudevano gli scarichi delle tre fontane, lasciando che l’acqua allagasse la piazza, al quel tempo concava. All'inizio fu una festa riservata solo ai nobili e l’ingresso nella piazza, in quei giorni, era vietato al popolo. Poi i Pamphilj permisero a tutti di partecipare, così la festa diventò popolare, con tanto di banda che suonava e bancarelle che vendevano cocomeri. I nobili si divertivano attraversando la piazza con le loro carrozze o a cavallo, mentre il popolo si divertiva a sguazzarci dentro, giocando e facendo scherzi. In quel periodo, però, non tutti potevano permettersi il lusso di avere acqua corrente in casa, cosi molti ne approfittavano per lavarsi o per lavarci i propri animali, tanto che nel giro di poche ore l’acqua diventava un vero e proprio letamaio. Cosi dopo una prima interruzione, si arrivò nel 1866 alla sua definitiva soppressione. Quando poi, nel 1870, venne rifatta la pavimentazione, il marciapiede centrale fu costruito a schiena d’asino, la piazza divenne quindi convessa e impossibile da allagare. Entro ora nella chiesa di S. Agnese, costruita sul luogo dove avvenne il martirio della giovane Agnese.
A dodici anni, durante la persecuzione dei cristiani sotto Diocleziano, rifiutò di andare sposa al figlio del prefetto di Roma, per questo giudicata cristiana e portata in un postribolo, dove venne denudata. I suoi capelli, miracolosamente, crebbero fino a coprirle interamente il corpo e colui che tentò di violare la sua verginità, cadde fulminato ai suoi piedi. Fu gettata nel fuoco, ma questo si spense durante le sue preghiere, venne quindi trafitta con un colpo di spada. La chiesa più antica risale all’VIII secolo. Nel 1652 Innocenzo X la fece ricostruire, quasi come una cappella privata annessa alla sua residenza, affidando il progetto a Girolamo Rainaldi, ma la lentezza e le incertezze dell’architetto, o forse l’influenza della potentissima Donna Olimpia, convinsero il papa, l’anno successivo, ad affidare la direzione a Francesco Borromini. Questi mantenne quasi completamente il progetto di Rainaldi, modificando però la facciata, rendendola concava, inserendo ai lati due campanili gemelli, in modo da non ostacolare la vista della cupola, anzi ottenendo l’effetto di farla risaltare maggiormente. Dopo la morte del papa, il suo successore Alessandro VII rimosse dall'incarico il Borromini e la chiesa fu portata a termine, nel 1672 dal figlio di colui che l’aveva iniziata, Carlo Rainaldi. L’interno è a croce greca, riccamente decorato con stucchi dorati nelle volte e quattro altari dedicati a Sant'Alessio, con pala marmorea e statue di Giovanni Francesco Rossi; S. Emerenziana, (Leonardo Reti); Sant'Eustachio (Melchiorre Cafà)  e Santa Cecilia (Antonio Raggi).
I due transetti sono invece dedicati a Sant'Agnese e a San Sebastiano. Nella Cappella di San Filippo Neri, in un tabernacolo a forma di tempietto è custodito il teschio di Sant'Agnese
. La cupola è affrescata con la raffigurazione della Santa introdotta alla Gloria del Paradiso, opera di Ciro Ferri e Sabastiano Corbellini.
Nella chiesa è il monumento funebre di Innocenzo X, in una posizione nascosta a chi entra, infatti è posto sopra l’ingresso e curioso il fatto che, anche in vita, egli soleva assistere alla messa, non visto, da una stanza dell’adiacente palazzo, tramite una finestra aperta nel tamburo della cupola. 
Per chi poi è proprio tanto curioso e vuole maggiori dettagli, consiglio di sedersi su una delle panche e visitare il sito ufficiale della chiesa. Finendo il giro della piazza, non posso non segnalare l’ultima (ma chissà quante ancora ce ne saranno!!) curiosità che la riguarda. Nel lungo caseggiato subito dopo il Palazzo Pamphilj e la chiesa di S. Agnese, guardando bene vicino ad una finestra del secondo piano, si noterà una piccola testa di marmo.
La leggenda racconta che al papa Sisto V piaceva molto andare in giro per la città, mescolandosi fra il popolo, travestito per non farsi riconoscere, ed ascoltare i commenti della gente e soprattutto sentire cosa pensassero di lui. Un giorno entrò nella bottega di un oste che, non riconoscendolo, si lasciò andare ad ardite critiche verso il potere papale. Ovviamente quando capì con chi stesse parlando era già troppo tardi! Il povero oste venne giustiziato e i suoi amici, commossi per la sua sventura, decisero di ricordarlo facendo scolpire il suo ritratto nel marmo e murandolo poi sulla parete di una casa della piazza. Ora prendo proprio la via che separa il caseggiato dalla chiesa, via di Sant'Agnese in Agone, e mi ritrovo in via di Santa Maria dell’Anima, proprio di fronte alla bellissima Torre Millina,
una torre medievale probabilmente del XIII secolo, inserita, dopo un opportuno restauro, da Pietro Millini, scrittore apostolico e cancelliere perpetuo di Roma, nella costruzione dei due palazzetti che l’affiancano. Le finestre del primo e secondo piano vennero inserite in questa occasione, mentre il ballatoio, che in origine era aperto, fu chiuso con un tetto e sui quattro lati vi fu apposta la scritta "MILLINA". In occasione poi delle nozze del figlio di Pietro con la nipote di Innocenzo VIII, la torre fu decorata con graffiti a monocromo riproducenti stemmi, candelabri, girali, cornucopie, bucrani di cui purtroppo oggi non rimane quasi più nulla. Continuo su via di Tor Millina, fino ad arrivare a via di Parione, dove giro a sinistra e, prima di svoltare a destra nella via della Fossa, mi affaccio, purtroppo solo attraverso una cancellata chiusa, a sbirciare il cortile del Pio Sodalizio dei Piceni, nell’antico palazzo di fine Quattrocento, chiamato casa di Sisto V, perché acquistato dal papa per sua nipote Flavia Peretti in occasione del matrimonio con il duca di Bracciano, Virginio Orsini che, alla morte della moglie, ne cedette la proprietà ai parenti.
Fu venduto poi al monsignor Giovanni Andrea Castellani, il quale, a sua volta, nel 1645 cedette il palazzo in dono alla Confraternita della S. Casa di Loreto dei Piceni, che divenne poi, nel 1899, il Pio Sodalizio dei Piceni. Quello che riesco a vedere dalle inferriate del cancello è un meraviglioso cortile porticato con soffitti affrescati. Ma la meraviglia sta nel piano superiore, con un doppio loggiato e una terrazza pensile con affreschi di Paul Brill, mentre l’interno della loggetta fu decorata dal Cavaliere d’Arpino e Federico Zuccari. Giro quindi in via della Fossa e, arrivata in piazza del Fico, svolto a sinistra e prendo via del Corallo, che mi conduce in via del Governo Vecchio, dove giro a destra e percorro l’ultimo tratto di questa strada, sapendo che da ora fino alla fine dell’itinerario, percorrerò a zig-zag le vie e i vicoli che uniscono questa strada e corso Vittorio Emanuele e quindi farò di nuovo capolino in questa straordinaria via. In questo tratto, che confina con il Rione Ponte, incontro il Palazzo Avila, edificato nel 1670, caratterizzato dalla facciata per metà ricoperta in bugnato e da una grande lapide a ricordare che "IN QUESTA CASA A DI XXV GENNAIO MDCCCXXX (25 gennaio 1830) NASCEVA PIETRO COSSA CHE L'OPERA GLORIOSA DI METASTASIO E D'ALFIERI RINNOVELLANDO ALL'ITALIANA LETTERATURA LA TEATRALE CORONA RINVERDIVA CON GLI IMMORTALI SUOI DRAMMI MDCCCLXXXII (1882)".
Accanto ad esso un edificio del Quattrocento con finestre curve e incorniciate di travertino al primo e secondo piano e piccolo portone arcuato anch'esso incorniciato. Poco più avanti, quando la via finisce su piazza dell’Orologio, ad angolo con via Orsini, troviamo l’imponente Palazzo Corcos Boncompagni che, nonostante il nome, non fu mai di proprietà della celebre famiglia romana. I Corcos erano una famiglia di origini ebree e quando un loro componente, Salomon Corcos, si convertì al Cristianesimo, in onore del papa reggente, Gregorio XIII Boncompagni, assunse nome e cognome del Papa, ovvero Ugo Boncompagni. Il palazzo, dopo vari passaggi di proprietà, è ora sede del Consiglio Nazionale Forense.
Ha un magnifico portale con colonne a sorreggere un balcone balaustrato. Tra le due colonne c’è una grande conchiglia mentre  i due capitelli sono teste di drago, il simbolo araldico dei Boncompagni. Al primo piano le finestre hanno timpani curvi con decorazioni a mascheroni, mentre al secondo ci sono teste femminili all'interno di clipei. Fra il pianterreno e il primo piano e fra quest’ultimo e il secondo piano ci sono due piani ammezzati con finestre più piccole incorniciate. Da notare anche gli angoli ricoperti di bugne che hanno uno spessore digradante man mano che salgono fino al cornicione. Io lo trovo di una bellezza incredibile e la curiosità mi ha portato a trovare questo video che ce lo spiega e illustra anche all'interno, dove è comunque possibile effettuare visite su prenotazione.


Sempre a confine con il rione Ponte, percorro la via dei Filippini e arrivo in piazza della Chiesa Nuova, che, manco a dirlo, prende il nome dalla Chiesa, che si trova accanto all' Oratorio dei Filippini, (opera del genio di Borromini) e che è profondamente legata alla figura di San Filippo Neri.
Originariamente qui si trovava una vecchia chiesetta medievale, “Santa Maria in Vallicella” cosi chiamata per la presenza di un piccolo avvallamento del terreno. Fondata probabilmente da Gregorio Magno alla fine del VI secolo, vi si conservava l’immagine della Vergine col Bambino, precedentemente posta sul muro di una cosiddetta “stufa” (bagno pubblico) e ritenuta miracolosa quando, colpita con un sasso, prese a sanguinare. Nel 1575 papa Gregorio XIII donò a S. Filippo Neri la chiesetta, come ringraziamento per la sua opera di assistenza dei pellegrini bisognosi che giungevano a Roma, che lo aveva portato a fondare la Confraternita dei Pellegrini e dei Convalescenti. Il Santo, con l’aiuto dello stesso papa e del Cardinale Cesi, che fu il maggior finanziatore dei lavori, fece edificare una nuova chiesa, che per questo prese, e ancora mantiene, l’appellativo di “Chiesa Nuova”. I lavori furono affidati a Matteo da Città di Castello, per passare nel 1586 a Martino Longhi il Vecchio, che era l’architetto di fiducia del cardinale, sotto il quale vennero aggiunti l’abside a pianta semicircolare, il transetto e la cupola. Inizialmente era a navata unica con quattro cappelle per lato; solo più tardi, fra il 1594 e il 1617, su progetto di Giacomo Della Porta, vennero arretrate le cappelle laterali, permettendo di aggiungere due strette navate laterali e altre due cappelle, una per ogni lato.
La Facciata è opera di Fausto Rughesi, iniziata nel 1594 e terminata nel 1606; a due ordini di lesene, presenta nell'ordine inferiore un bel portale, con due colonne per lato e architrave coronato dallo stemma di Angelo e Pier Donato Cesi (un albero su un monte a sei cime) e sopra un timpano spezzato in cui è inserita una targa con dedica alla Vergine Maria e a S. Gregorio Magno. Sulla trabeazione un’iscrizione che recita: “Angelo Cesi vescovo di Todi fece nell'Anno del Signore 1605” e sul timpano curvo è posta la Vergine col Bambino tra due angeli. Nell'ordine superiore una bella finestra con balaustra con a fianco due nicchie con statue di San Girolamo (dx) e San Gregorio Magno (sx). A coronamento dell’intera facciata, un timpano triangolare, intervento di Carlo Maderno, a centro del quale è posto un grande stemma dei Cesi. La cupola fu modificata da Pietro da Cortona nel 1650, il quale aggiunse una lanterna sormontata da un cupolino per permettere una migliore illuminazione dell’interno e, infine, nel 1666 fu aggiungo il campanile da Camillo Arcucci.
Da un punto di vista artistico, se la facciata rappresenta ancora una fase di transizione, entrando in chiesa non si hanno dubbi: è un vero e proprio tripudio del Barocco! Tutto è decorato minuziosamente, oro, stucchi e affreschi ovunque!... e pensare che il desiderio di San Filippo era invece che tutto restasse bianco e semplice. Venne infatti decorata dopo la sua morte da Pietro da Cortona che affrescò la volta con “il Miracolo della Madonna che resse il tetto cadente”, (relativo alla visione, che ebbe il Santo, della Vergine mentre sosteneva una trave pericolante che rischiava di cadere sui fedeli che stavano assistendo alla Messa);
la cupola con “il Trionfo della Trinità” e l’abside con “l’Assunta con i Santi”. L’antico affresco della Vergine con il Bambino, già conservato nell'antica chiesa della Vallicella, è ora collocato sull'altare maggiore, all'interno di una pala in ardesia dipinta da Rubens, ma non è sempre visibile. Per proteggerla venne coperta con una lastra di rame, sempre dipinta da Rubens, raffigurante la “Madonna con bambino benedicente”, che può essere sollevata tramite un congegno meccanico, e svelare l’immagine miracolosa.
Di solito questo avviene durante le principali festività come, ad esempio, la festa di San Filippo Neri il 26 maggio. Al lato del presbiterio ci sono altre due tele del celebre pittore, sempre realizzate su lastre di ardesia, e rappresentano i Santi Gregorio Magno, Papia e Mauro nella parete a sinistra, mentre in quella a destra abbiamo i Santi Flavia, Domitilla, Nereo e Achilleo. A commissionare questo straordinario ciclo pittorico fu il vescovo di Milano, Federico Borromeo. Infine, a sinistra dell’altare c’è la meravigliosa Cappella di San Filippo Neri, dove sull'altare maggiore, in un’urna di cristallo, riposa la salma del Santo, con maschera d’argento.
Era molto amato dai romani che lo ricordano affettuosamente come “Pippo bbono”. La cupola con lanterna sopra l’altare è anch'essa opera di Pietro da Cortona, mentre sulle pareti scene raffiguranti la vita del santo, sono opera del Pomarancio. Uno dei muri della Cappella, sembra sia l’unico superstite della stanza in cui il Santo morì, risparmiato dall'incendio del 1620 e dai lavori di demolizione della vecchia casa dei filippini. Accanto alla Chiesa vi è un edificio forse ancor più famoso della chiesa stessa: l’Oratorio e Convento dei Filippini, i membri dell’Ordine creato da S. Filippo Neri nel 1575.
Anche se l’idea di costruire una nuova sede si ebbe nel 1611, i lavori iniziarono solo nel 1621, su progetto di Marco Antonio a cui fece seguito Paolo Maruscelli, che ci lavorò per almeno tredici anni. Nel 1637 subentrò il Borromini, vincitore di un concorso indetto dai Padri Filippini e, fin dall'inizio, cercò di mantenere abbastanza fede al progetto iniziale del Maruscelli, dedicandosi alla realizzazione della facciata dell’Oratorio, del primo e secondo cortile, del Refettorio e della Sala di ricreazione, della Libreria, della Torre dell’Orologio e di tutti gli ambienti sul cortile di servizio. La facciata, in particolar modo, è uno dei capolavori dell’artista, caratterizzata dal susseguirsi di piani concavi e convessi, ispirata al corpo di un uomo con le braccia aperte quasi ad abbracciare i fedeli ed è realizzata interamente in laterizio, anche per seguire le direttive di Filippo Neri, che non voleva fossero impiegati mami pregiati o travertino. Più austere e sobrie, invece, le tre facciate del Convento, interrotte nella loro semplicità, solo dalla Torre dell’Orologio.
Dopo l’Unità d’Italia, nel 1870, parte del convento e dell’Oratorio vennero espropriati dallo Stato e per circa quaranta anni, furono destinati a sede della Corte d’Assisi, provocando lo sdegno di tutti coloro che ricordavano quanto quel luogo fosse ritenuto sacro. Vi si svolsero i processi più famosi della Roma di fine Ottocento. Solo nel 1911 il convento tornò ai Filippini, mentre l’Oratorio rimase allo Stato. Oggi, chiamato Sala Borromini, ospita convegni e dibattici pubblici ed è possibile visitarlo, grazie al fatto che vi si trova la Biblioteca Vallicelliana, appartenente al Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Prima di lasciare la piazza, una nota sulla statua in marmo di Pietro Trapassi, un grande poeta di Roma, conosciuto con il nome grecizzato di Metastasio (1698-1782)  e sulla caratteristica fontana che un tempo era situata in Campo de’ Fiori e venne spostata qui per lasciare il posto al monumento di Giordano Bruno. Era una vasca aperta di marmo bianco ma l’utilizzo che ne facevano i possessori dei banchi del mercato, come lavarci la verdura o tenerci a fresco i cocomeri, indussero il Papa Gregorio XV ad apporre sopra la fontana un coperchio di travertino, con al centro una palla, facendola somigliare così ad una zuppiera, tanto che fu subito ribattezzata, dal popolo romano, "la Terrina". Curiosa la scritta incisa sul coperchio "Ama Dio e non fallire, fa del bene e lascia dire", con la data MDCXXII (1622), che forse si riferiva ai condannati al patibolo che si trovava in Campo de’ Fiori.
Ora l’itinerario prosegue passeggiando, come ho precedentemente detto, a zig-zag fra le due strade parallele, Corso Vittorio Emanuele e via del Governo Vecchio, dove mi dirigo attraverso via della Chiesa Nuova e subito dopo, a destra, passando sotto il caratteristico Arco. Sulla parete a sinistra un’immagine della Vergine al di sotto della quale sono alcuni cherubini. Nella parete di fronte una targa di marmo reca inciso “Elemosina dia, chi è devoto a Maria”, ma la fessura al centro di essa è ormai chiusa. Sicuramente l’Arco, appartato e riparato da sguardi indiscreti, deve essere stato una postazione privilegiata di qualche “donna curiale”, come venivamo chiamate le prostitute durante il Papato, in quanto dipendenti direttamente dalla Curia romana o dal tribunale del Cardinale Vicario, e tutta la zona era considerata “infame”, come risulta dalla “dichiarazione” del 1551 che accompagna il disegno della pianta della primitiva chiesa: “la contrada di questa Chiesa era anticamente pubblico prostibolo...” Purtroppo anche oggi immondizia e degrado la fanno da padroni sotto l’Arco, che è diventato un deposito rifiuti spesso non considerato dall'Ama, parcheggio abusivo e rifugio di qualche senza tetto.
Arrivo in via del Governo Vecchio di fronte all'edificio che dà il nome alla strada: Palazzo Nardini, dove aveva appunto sede il Vecchio Governo Pontificio, prima di essere spostato a Palazzo Madama nel 1755. Fu costruito tra il 1470 e il 1480 e prende il nome dall'arcivescovo di Milano, Stefano Nardini, che alla metà del XV secolo fu nominato governatore di Roma dal papa Paolo II. Purtroppo, il palazzo versa in uno stato di abbandono da più di trenta anni, nonostante l’impegno di comitati ed associazioni di quartiere che si battono per il suo recupero.
Il suo maestoso portale è divenuto ricovero permanente di clochard, spettacolo non dei migliori per i turisti e non, che si fermano stupiti. Per anni occupato dall'associazione femminista, diventa “la Casa delle Donne” fino al 1984, il cui passaggio è ancora documentato da poche tracce sbiadite di scritte e murales, che hanno resistito ad una parziale ristrutturazione iniziata e ferma ormai dal 2006. Venduto dalla Regione Lazio ad un fondo di investimento immobiliare, la vendita è stata dichiarata nulla dai giudici del Tar del Lazio, a causa dei vincoli apposti dalla Soprintendenza, che rendono lo stabile inalienabile. Se ne auspica il recupero ad una destinazione culturale pubblica, che potrebbe interessare gli Istituti  del rione, quali l’Istituto per il Medioevo e la Biblioteca Vallicelliana, che hanno gravi problemi di spazio, divenendo così  una sorta di “Polo Culturale”.
Proseguo la mia passeggiata ed arrivo all'angolo con via Sora, dove si trova la gelateria Frigidarium: non resisto dal prendermi uno dei più buoni gelati, a mio parere, di Roma. Percorro la via e mi ritrovo di nuovo sul Corso, passando davanti a Palazzo Sora, costruito nel Quattrocento, probabilmente dal Bramante, per il Conte di Lavagna Urbano Fieschi. Acquistato nel 1547 dai Savelli, fu poi venduto a Gregorio XIII, che lo destinò al figlio Giacomo Boncompagni, duca di Sora, motivo per il quale fu così denominato. Oggi ospita una delle sedi dell’Istituto tecnico De Amicis Cattaneo.
Girando sul vicolo Savelli posso osservare la facciata quattrocentesca del Palazzo, mentre all'angolo con via del Governo Vecchio un’altra proprietà coeva, acquistata dai Boncompagni nel Cinquecento, reca ben visibile sotto il cornicione il drago rampante, emblema della loro casata. Sono di nuovo in via del Governo Vecchio, curioso l’edificio che trovo subito alla mia destra al civico 106, decorato con una serie di medaglioni con all'interno ritratti di giuristi, e mascheroni alle finestre.
  
E’ una casa del Quattrocento appartenuta all'avvocato curiale Bartolomeo de’ Dossi, raffigurato in un affresco nella seconda finestra dell’ultimo piano affacciato ad una loggetta insieme al suo segretario. Bellissimo il cornicione con testine, conchiglie e rosoni.
  
Di fronte, poco più avanti, Palazzo Fonseca. Ricordate il medico portoghese di Innocenzo X, che il Bernini scolpì come fosse affacciato ad un davanzale nella cappella in San Lorenzo in Lucina? (4° itinerario Rione III Colonna). Questa era la sua casa, che poi a fine del Seicento, vendette a Rosa Venerini, una religiosa di Viterbo, fondatrice dell’Ordine delle Maestre Pie, al quale ora appartiene. Prossima ed ultima svolta a destra, vicolo della Cancelleria, ultimo passaggio in corso Vittorio Emanuele e di nuovo a sinistra in via dei Leutari.
Questa via, all'apparenza piuttosto insignificante, trasuda letteralmente di memorie storiche, leggende, ricordi sospesi fra la realtà e il mito. Al civico 35, per esempio, Gioacchino Rossini trovo l’ispirazione per scrivere il suo Barbiere di Siviglia come ci ricorda la lapide sul muro «Abitando questa casa/Gioacchino Rossini/trovò le armonie sempre nuove/del Barbiere di Siviglia».
Ai civici 21-23 si trova Casa Peretti Ricci, costituita da due edifici cinquecenteschi acquistati dal Cardinale Peretti ancora prima di diventare papa, con il nome di Sisto V. Il cardinale regalò la casa alla sorella che ci abitò con il figlio e la nuora, Vittoria Accoramboni. Da queste case ebbe inizio una serie di tragiche vicende che riempirono le cronache del tempo. 
Si narra che il duca di Bracciano, principe Paolo Giordano Orsini, infatuatosi della bella Vittoria, fece uccidere il marito Francesco da alcuni sicari, con la complicità del fratello di lei, Marcello. Una sera del 1582 qualcuno consegnò un biglietto a casa Peretti, al civico 21, nel quale Marcello invitata il cognato a raggiungerlo in una zona vicino al Quirinale. Non servirono a nulla le preghiere della madre, che lo supplicava di non andare; venne prima colpito da un archibugio e finito poi a pugnalate. Pur sapendo bene chi fosse il colpevole, non si riuscì a condannarlo e i due si sposarono poco dopo, durante il papato di Gregorio XIII. Ma quando divenne papa proprio lo zio del morto assassinato, Sisto V, i due, per sicurezza, fuggirono a Padova. Poco dopo morì anche Paolo Giordano, per un’infezione ad una vecchia ferita, ma il cognato Ludovico Orsini, convinto che fosse la bella Vittoria la responsabile della morte, mandò dei sicari ad assassinarla. Stendhal racconta questa storia nelle sue “Cronache Italiane”. Dopo il Seicento la proprietà fu venduta ad Orazio Ricci, questo spiega la presenza dei due ricci sulle bugne del portale.
Un’altra curiosità che riguarda Via dei Leutari (quando era ancora vicolo), fu il ritrovamento a metà del Cinquecento della colossale statua di Pompeo. Essa rinvenne sotto le fondamenta di due edifici e i relativi proprietari se ne contendevano il possesso. Si giunse alla decisione di dividere la statua, testa ad uno e corpo all'altro.  Fu il cardinale Capodiferro ad impedire lo scempio, avvisando papa Giulio III, il quale acquistò la statua e la regalò proprio al Cardinale, che la sistemò nel suo palazzo, che in seguito divenne Palazzo Spada, dove, ancora oggi, possiamo ammirarla. A questo punto, il nostro itinerario prosegue per il solo gusto di continuare a passeggiare per una zona tanto caratteristica di Roma. Volendo potremmo svoltare a destra e dopo pochi passi essere di nuovo a Piazza Navona, nostro punto di partenza. Ma io, che adoro passeggiare e curiosare fra i vicoli, volto a sinistra e percorro ancora un breve tratto di Via del Governo Vecchio; svolto poi a destra, in via del Teatro Pace e, poco dopo, imbocco il Vicolo de Cupis, arrivando in via Santa Maria dell’Anima. Sempre lentamente e con un occhio ai particolari, arrivo in piazza di Pasquino, di fronte alla statua forse più famosa di Roma! 
Si tratta di Pasquino, un gruppo statuario ellenistico, che venne ritrovato nel 1500, durante i lavori di sistemazione della pavimentazione stradale davanti a Palazzo Orsini (quello che oggi è Palazzo Braschi). Non si sa con sicurezza chi rappresenti: forse Menelao che sorregge il corpo di Patroclo morente, ma qualcuno suppone Aiace o Ercole. Il cardinale Carafa, che aveva acquistato la proprietà ed era colui che aveva commissionato i lavori, fece sistemare la statua all'angolo del suo palazzo. Anche sull'origine del nome ci sono opinioni discordanti: per alcuni è riferito ad un maestro di una scuola che sorgeva nelle vicinanze, per via della somiglianza alla statua; per altri era un oste, per altri un barbiere e ancora un ciabattino, che ovviamente si chiamavano Pasquino. Il popolo, attraverso versi satirici affissi al suo collo, iniziò a manifestare così il proprio malcontento, soprattutto nei confronti del pontefice o dei personaggi più noti dell’epoca. La cosa destava molto fastidio e furono diversi i papi che tentarono di distruggerla, da Adriano VI a Sisto V e Clemente VIII. Le frasi, scritte in rima, erano dette “pasquinate” e le pene, per i colpevoli che venivano colti in procinto di lasciare la loro “protesta”, erano severissime, fino alla pena capitale. Presto si unirono a Pasquino altre “statue parlanti”: Marforio (al Campidoglio), Madama Lucrezia (in p.zza San Marco accanto alla Basilica) l’Abate Luigi (in Piazza Vidoni) il Facchino (in Via Lata) e il Babuino (nell’omonima via).  Percorrendo via di Pasquino torniamo a Piazza Navona, dove finisce questa prima parte dell’itinerario nel Rione Parione.

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