Beatrice Cenci

novembre 11, 2019


“La testa è delicata e bella, lo sguardo dolcissimo e gli occhi molto grandi: hanno l’aria stupita di una persona che è stata colta di sorpresa proprio nell'attimo in cui piangeva calde lacrime”. (Stendhal)

Quando anni fa andai alla Galleria di Arte Antica, in palazzo Barberini, rimasi molto colpita da questo quadro: Beatrice Cenci attribuito a Guido Reni (ma molto più probabilmente, invece, secondo recenti teorie e studi, della pittrice bolognese Ginevra Cantofoli). Lo ammetto, all'epoca non sapevo chi fosse, ma quello sguardo, innocente e supplichevole, mi rimase dentro e feci subito una ricerca in Internet per saperne di più. La sua è una storia che sconvolse tutta Roma alla fine del Cinquecento. Beatrice era nata il 6 febbraio 1577, da Francesco Cenci e dalla nobildonna Ersilia Santacroce, ai tempi del pontificato di papa Gregorio XIII. Proprietari di rigogliose tenute agricole, i Cenci possiedono un intero quartierino, chiamato appunto Monte dei Cenci, di fronte all'Isola Tiberina, in cui Beatrice ha trascorso l’infanzia.


Una serie di edifici costruiti uno sull'altro, congiunti da un labirinto di scale, ballatoi e scantinati, che includono, allora come oggi, una piazzetta e la chiesa gentilizia di famiglia, San Tommaso.


Il padre di Beatrice, Francesco, è il figlio di un monsignore, Cristoforo, che lo ha avuto da una relazione adulterina con una donna di origini catalane, Beatrice Arias. In teoria Francesco sarebbe un figlio illegittimo, ma il padre non ha difficoltà a farne il suo erede. D'altronde, in quei tempi, anche i papi procreavano con belle nobildonne per assicurarsi una discendenza diretta. Alleggerendo a man bassa i forzieri degli istituti religiosi di cui era tesoriere, il nonno di Beatrice era diventato molto ricco. Francesco ne aveva ereditato la grande ricchezza, che comprendeva un paio di palazzotti a Roma, estese tenute agricole, tra le migliori del Lazio e il titolo, comprato ma non meno rispettabile, di feudatario del regno di Napoli. Un patrimonio stimabile in 400.000 scudi, con una rendita annuale di 20.000. Francesco ha un’indole violenta: quando era studente universitario a Bologna, andava con gli amici in cerca di lavandaie graziose da violentare e a diciotto anni aveva ammazzato a legnate un suo vassallo ribellatosi a un ennesimo sopruso. Era finito in prigione per due mesi e aveva dovuto pagare una multa di 5000 scudi. Quando Beatrice ha sette anni, muore la madre, fra l’altro in circostanze misteriose, e la bambina viene mandata nel monastero di Santa Croce a Montecitorio, una scuola privata economica, al di sotto di quello che i suoi avrebbero potuto permettersi. Viene cresciuta dalle monache e torna a casa soltanto all'età di quindici anni, per scoprire che la sua famiglia stava lentamente degenerando. Il padre, che nel frattempo si era risposato con una vedova agiata, Lucrezia Petroni, è violento, arrogante e prepotente, in rotta di collisione con il resto del mondo. Nella Roma del Cinquecento la violenza era dilagante, al punto che barbieri e chirurghi denunciavano al tribunale del governatore fino a quattro casi al giorno di lesioni corporali che erano stati chiamati a curare. Nobili e popolani erano abituati a risolvere le controversie personali ricorrendo allo scontro fisico. Cenci però pensa che esercitare la violenza sia un suo diritto e che lo Stato non debba interferire nelle sue faccende private. Vittima di un mal riposto orgoglio di classe, dell’arroganza del potente, che crede che tutto gli sia concesso, gli sfugge che il tempo dei feudatari medioevali è tramontato definitivamente. Nel clima rigido della Controriforma, papa Clemente VIII trovava sempre meno accettabili questi comportamenti.


Francesco è perennemente in lite con i congiunti, con i servi e con i vassalli e, invecchiando, quando è ormai padre di molti figli, non diventa un uomo migliore. Anzi, il suo interesse sessuale si allarga anche ai giovani maschi, tra cui il figlio della seconda moglie, la quale, per proteggerlo, deve allontanarlo da casa. Angherie e soprusi continuano indisturbati tra le mura domestiche e fuori fino a quando un servo, che ha sodomizzato e accusato di furto, per difendersi lo denuncia. Messo di nuovo sotto inchiesta, Francesco nega di abusare dei servi maschi, anche se ammette rapporti con le serve, ma “al modo ordinario, naturalmente, come fanno gli huomini dabbene, dalla parte dinnanzi”. È una menzogna, e lo sa bene, suo malgrado, una delle sue serve, Maria la Spoletina, la sua preferita. Lei preferirebbe tacere per paura, ma per costringerla a parlare i giudici la denudano sadicamente e la sottopongono alla tortura della corda e finalmente lei parla: “Voglio domandare misericordia, essendo stata io serva sua, che mi bisognò fare quello che voleva esso signor Francesco. Et però nel tempo in cui io lo servivo in casa, lui usò con me contro natura da sei o sette volte: et perché io da principio non volendo io compiacerlo in questo, lui mi diedde delle botte con un bastone e mi ruppe la testa et altre bastonate per le spalle e molti pugni”. Il reato di sodomia comportava la pena di morte. Francesco la scampa pagando una multa stratosferica di 100.000 scudi. Il papa, infatti, preferisce incamerare gli averi dei baroni ribelli alla sua autorità, piuttosto che punirli in altro modo, perché il regno è sempre prossimo al default. Per saldare il debito Francesco deve vendere uno dei suoi feudi migliori, quello di Nemi. Altri 50.000 scudi deve versarli affinché non gli venga pignorata l’eredità paterna, costruita sulle ruberie. Sono esborsi che lo rendono sempre più avaro e che lo spingono a negare il dovuto ai figli. Solo ricorrendo al papa, i figli maschi riescono a farsi riconoscere un vitalizio, mentre la figlia maggiore Antonina ottiene la dote di 20.000 scudi e il permesso di sposarsi grazie alle pressioni dello sposo, della potente famiglia Savelli, che tra le altre cose ha in appalto proprio le carceri di Roma. Ma se con Antonina ha dovuto arrendersi, nel caso di Beatrice non si piegherà. La figlia e la moglie mandano altri disperati appelli alle autorità, denunciando le sue angherie e chiedendo aiuto, ma rimangono inascoltate. Compito di una figlia e di una moglie è riverire il padre e marito, non di metterne in discussione l’autorità. Francesco decide comunque di farle rinchiudere nella rocca di Petrella Salto.


La rocca, che ha preso in affitto dai Colonna insieme al castellano e al personale di servizio, sorge oltre i confini dello Stato Pontificio, quindi, entro certi limiti, fuori dalla giurisdizione del papa. Come si può vedere ancora oggi da quello che ne resta, è un cupo castello del Duecento, con due torrioni uniti da un muro basso e massiccio, a cui si accedeva attraverso un pesante portale. Per quasi tre anni Beatrice e la matrigna vivono sotto stretta sorveglianza in un’ala della rocca, praticamente senza contatti con l’esterno, a tre giorni di cavallo da Roma. Francesco, ormai affetto da un’avarizia patologica, indossa sempre lo stesso mantello divorato dalle tarme. Non abita più nei sontuosi palazzi o negli appartamenti di Monte Cenci. Afflitto dalla rogna, dalla gotta e probabilmente da qualche malattia venerea, ha eletto a dimora un paio di stanzette all'interno dell’Ospedale San Giacomo degli Incurabili a Roma, che lo ospita perché ha ricevuto da lui dalle donazioni.
 

Per arredo ha un vecchio tappeto sotto cui tiene nascosti cartocci colmi di monete d’oro, scartoffie piene di conti e numeri, anelli pesanti di chiavi dei suoi tanti possessi e un archibugio sempre a portata di mano. Terrorizzato dalla paura di essere assassinato dai suoi figli maschi, Francesco appena può si rifugia alla rocca, dalle sue donne. Quando è con loro, cerca ogni pretesto per umiliarle. Nelle cupe serate davanti al camino pretende che Beatrice curi i sintomi della rogna, passandogli su tutto il corpo delle pezze unte d’olio. Oppure si fa portare dai servi una seggetta, una specie di water portatile, e pretende che la figlia gli pulisca il sedere. E se Beatrice si rifiuta, la copre di insulti: “Che slandra! Non mi rompere il capo con cotale ciance, sennò arai anco da leccarmi il culo”. Quando poi si congiunge con la moglie, pretende che Beatrice rimanga nella stessa stanza e assista. La mattina del 9 settembre 1598 Francesco Cenci viene trovato morto ai piedi della rocca. Pare che di notte, probabilmente ubriaco come al solito, sia andato a liberarsi in una balconata esterna, la ringhiera si sia rotta e lui sia caduto nel vuoto. Così almeno si dice. La sua morte non dispiace a nessuno, tanto meno a Beatrice e alla matrigna, che fanno seppellire subito il corpo nella chiesetta della rocca e partono per Roma, finalmente libere. Se non che, alla versione dell’incidente non crede nessuno. A una serva viene chiesto di lavare un lenzuolo zuppo di sangue e lei si accorge che non è sangue mestruale, come Beatrice le ha detto. Un’altra, che ha lavato e ricomposto il corpo di Francesco, infilando un dito in uno squarcio che ha nella testa, ha pensato subito agli effetti di una pesante arma da taglio. La ringhiera poi effettivamente è rotta, ma non abbastanza perché ci passi un corpo. A Petrella tutti sono convinti che Francesco sia stato ammazzato e questo basta perché venga immediatamente aperta un’inchiesta. Grazie alla cattura del bandito Marzio Catalani, il magistrato Ulisse Moscati non ha difficoltà a ricostruire quello che è successo. Sotto tortura Catalani ammette di aver ucciso Cenci, insieme all’ex castellano della rocca, Olimpio Calvetti. Ma ad assoldarli è stata Beatrice, con l’appoggio del fratello Giacomo. Olimpio era un ex staffiere quarantenne, che Francesco aveva fatto licenziare, avendo intuito che c’era qualcosa fra lui e la figlia. In effetti Olimpio era diventato clandestinamente l’amante di Beatrice. Conoscendo gli accessi segreti alla rocca, entrava a trovare la ragazza quando voleva. Per accrescere l’odio del castellano nei confronti del padre, Beatrice gli aveva detto che in un’occasione il padre l’aveva stuprata. La vera ricostruzione dei fatti, quindi, era questa: la sera dell’8 settembre Beatrice aveva sciolto dell’oppio nel vino del padre, che si era messo a letto intontito. A quel punto Lucrezia aveva aperto la porta della camera matrimoniale a Olimpio e Marzio. Quest’ultimo con un mattarello fracassa le gambe del Cenci, mentre Olimpio lo colpisce più volte con un maleppeggio, una mazzetta da muratore. Solo che, a causa della tensione, Olimpio aveva brandito il colpo non con l’estremità a martello, ma con quella a scalpello, aprendo proprio quella ferita nella testa di Cenci, in cui la serva avrebbe infilato il dito. Poi avevano rotto la ringhiera per buttarlo di sotto, ma siccome non passava, l’avevano fatto precipitare dal buco del pavimento in cui si gettava la spazzatura.


Un delitto tutt'altro che perfetto. Beatrice Cenci però negava qualsiasi coinvolgimento. Il 6 febbraio 1599 Beatrice e Lucrezia erano state condotte a Castel Sant'Angelo per essere interrogate. I primi tempi della prigionia di Beatrice dovevano essere stati meno duri. Il vice castellano aveva un debole per lei, tanto che le era stato accordato il permesso di tenere con sé delle serve e di poter comunicare con l’esterno. La difesa di Beatrice, affidata al celeberrimo penalista Prospero Farinacci, non aveva però molte carte da giocare. Per paura di fornire lei stessa un movente al giudice, la ragazza non aveva fatto parola della segregazione nella rocca di Petrella e dei tanti soprusi e delle violenze a opera del padre. Anche se erano fatti noti a tutti, l’accusatore non intendeva avvalersene per dare alla ragazza e ai suoi famigliari una qualche attenuante. Olimpio nel frattempo era stato assassinato, molto probabilmente per ordine di Giacomo. Con la sua morte, il più importante accusatore di Beatrice era sparito, e il processo rischiava di arenarsi. Però Clemente VIII non aveva nessuna intenzione di cedere. Il 5 agosto, con un motu proprio, ordinò di sottoporre Beatrice e i suoi famigliari, che sapeva colpevoli, alla tortura. Il 10 agosto tocca a Beatrice, che continua ostinatamente a negare, anche quando Moscati fa portare Giacomo, Bernardo e Lucrezia e li fa torturare sotto i suoi occhi. Infine è lei a essere sottoposta alla tortura. Solo ripetuti tratti di corda riescono a piegarla. Alla fine, Beatrice rende confessione. Ma non piena. Ammette solo di avere acconsentito al progetto di Olimpio di eliminare il padre per poter così fuggire dalla rocca. Per gli inquirenti questo è sufficiente. Viene rinchiusa nel carcere di Corte Savella insieme con la matrigna Lucrezia. Ora non le resta che giocare la carta della clemenza, invocando la grazia del papa. In quel periodo però c’erano stati altri terribili delitti famigliari, che avevano coinvolto membri della nobiltà e il papa decise di essere implacabile. Nessuna pietà quindi per Beatrice e i suoi famigliari, anche perché, nonostante Beatrice avesse fatto testamento in favore dei suoi amici francescani, titolari del convento del Gianicolo, i beni di famiglia furono puntualmente confiscati e spartiti, tra la Tesoreria Apostolica e un nipote del papa stesso.  Il mattino dell’11 settembre 1599, davanti alla lugubre fortezza di Castel Sant'Angelo, tutto è pronto per l’esecuzione della ventiduenne Beatrice Cenci. Nella piazza si è radunata tutta la città, tanto che alla fine della giornata si contano sette morti per asfissia. In genere il popolo apprezzava con gusto sadico il supplizio dei condannati, incitando il boia a calare la mannaia. Questa volta però è diverso: “Tutta Roma era mossa a compassione della giovane, bella più che mediocremente di graziose maniere, et ricca di più di quarantamila scudi di dote, la quale ha mostrato così gran core in questi suoi travagli, ch’ha fatto stupire ognuno”, come riferisce un agente del duca di Modena, presente in piazza. Dalla lugubre prigione Savelli dove sono rimaste in attesa dell’esecuzione, Beatrice e la sua matrigna Lucrezia vengono condotte fino alla piazza, accompagnate dal misericordioso salmodiare della Confraternita di San Giovanni Decollato.


Dietro di loro, scortati dai “birri”, a bordo di due carretti, ci sono Giacomo e Bernardo, i fratelli di Beatrice, bersaglio degli insulti e degli sputi degli spettatori. I carretti non sono una comodità. Servono a trasportare anche un braciere, in modo che il boia, di tanto in tanto, possa arroventare un paio di tenaglie e straziare il torso nudo dei condannati. Le tenaglie sono risparmiate all'adolescente Bernardo, ma non a Giacomo, il maggiore. La prima a salire sul patibolo è la cinquantenne Lucrezia, con una certa difficoltà, perché è sovrappeso. Caduta la sua testa, viene il turno di Beatrice. Quel giorno, diversamente dal solito, indossa abiti dismessi. Lascia le pianelle alla base del palco, e sale la scaletta scalza, fino a raggiungere il boia. “Pose il collo sotto la mannaia, aggiustandosi da sé per fuggire che il ministro di giustizia non havesse il commodo di vederle il petto nudo, né di toccarle le carni” racconta una cronaca romanzata scritta molto tempo dopo i fatti, con un certo gusto per il dettaglio morboso. “Aspettando il colpo, che stette assai a giungere […] sempre ad alta voce invocò il santissimo nome di Gesù e di Maria, finché la testa si separò dal busto […] nello spiccare della testa alzò con tale furia una gamba che quasi si rovesciò gli panni in spalla.” Gli assistenti del boia calano quindi il corpo dal palco legato con una corda, che però non è stata assicurata bene. Il corpo cadde a terra “et, uscitegli le zinne dal seno per la caduta et impiastratesi di sangue e polvere, bisognò perdervi alquanto di tempo in lavarle e accomodarle.” A quel punto era toccato a Giacomo, il fratello maggiore. Il boia l’aveva stordito con un colpo di mazza alla testa e poi l’aveva smembrato con un coltellaccio, tutto sotto gli occhi del fratello più piccolo, Bernardo, che attendeva il suo momento. Il papa lo aveva graziato, ma aveva ordinato che assistesse al supplizio dei famigliari senza saperlo, come nelle finte fucilazioni della Gestapo. Una terribile crudeltà, se si considera che la sua estraneità al delitto era comprovata. Presenti tra la folla anche Caravaggio, che si ispirò alla vicenda per ritrarre il quadro di Giuditta e Oloferne, e Orazio Gentileschi con la figlioletta Artemisia; anche lei, poi diventata una grande pittrice, diede la sua personale interpretazione dell’uccisione del generale Oloferne da parte di Giuditta.
 

Al termine dello spettacolo, i cadaveri furono lasciati bene in vista fino alla sera: i resti di Giacomo appesi su una rastrelliera, quelli di Lucrezia e Beatrice su un cataletto. Non c’è da stupirsi che una storia così cruda e drammatica abbia riscosso e continui a riscuotere tanto successo. Anche perché può essere interpretata a secondo delle epoche e dei gusti. Per gli anticlericali, Beatrice è una vittima del papa. Per i cattolici integralisti dell’Ottocento, una perversa vampira: “Che non avesse ancora trovato marito a quell'età” annota uno di loro “e nonostante i 20.000 scudi di dote, potrebbe già indurci a credere che non fosse poi tanto bella”. Per i romantici, è semplicemente una triste e bella eroina. 

(Michela Ponzani - Massimiliano Griner: Le donne di Roma)



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