Scipione Borghese e la sua Galleria

marzo 09, 2020

Nel 1621 moriva Paolo V, anch'egli proveniente da una facoltosa famiglia toscana, i Borghese e anch'egli amante dell’arte e soprattutto del lusso. Come Leone X e tanti prima e dopo di lui, sfruttò la propria posizione per fare ciò che voleva, perché certi vizi, che a questo punto potremmo tranquillamente definire abitudini, non cambiano mai. Come sentenziò Pasquino: “dopo i Carafa, i Medici e i Farnese, or si deve arricchir casa Borghese”. Paolo V si impegnò con zelo per non smentire Pasquino e assecondando lo smodato desiderio di far emergere la propria famiglia, si dedicò innanzi tutto al nepotismo più sfrenato. Ad appena dieci giorni dall'elezione, nel 1605 nominò cardinale il giovanissimo nipote Scipione Caffarelli, facendogli adottare il nome dei Borghese. 
Anche gli altri nipoti furono sistemati a dovere con incarichi prestigiosi e conseguenti entrate economiche, in modo da rendere la famiglia una delle più potenti di Roma, al vertice dell’establishment capitolino. Per farlo bisognava sbaragliare la concorrenza, accumulare denaro e sfoggiare la propria ricchezza per dimostrare il prestigio raggiunto. Scipione era l’uomo giusto per centrare l’obiettivo e, secondo l’opinione dello storico von Pastor, era “fatto apposta per il ruolo” di cardinal nipote. Paolo V fece in modo di accumulare nelle mani di Scipione una quantità esorbitante di incarichi ben remunerati nell'amministrazione pontificia, ci si sommavano benefici e rendite varie. Tanto per farvi un’idea dello strapotere del cardinale, nel corso del pontificato dello zio fu nominato arciprete del Laterano, prefetto della Segnatura, bibliotecario apostolico, camerlengo, gran penitenziere, prefetto dei Brevi apostolici, legato di Avignone, coordinatore di diversi ordini religiosi fra cui domenicani e camaldolesi, protettore dei Principati cattolici della Germania e delle Fiandre, arcivescovo di Bologna e, infine, pure arciprete di San Pietro. Sappiamo che nel 1609 le sue entrate annuali ammontavano a 90.000 scudi e appena tre anni dopo erano salite alla bellezza di 150.000, senza contare che dal 1608 i Borghese ricevevano un trattamento fiscale privilegiato, esentati dal pagamento di tasse e balzelli su tutte le proprietà a Roma e fuori, proprietà che avevano ottenuto anche grazie a una disinvolta attività di acquisizioni immobiliari. Oltre a numerose ville, palazzi e immobili a Roma – tra cui palazzo Borghese e la splendida villa fuori porta, Villa Borghese – Scipione possedeva più di ottanta casali nella campagna romana. 
La rapida e rapace scalata sociale della famiglia non fu esente da commenti negativi riguardanti soprattutto i notevoli benefici elargiti dal papa al cardinal nipote, al quale tutti facevano i conti in tasca, ma questo non fermò né Paolo né Scipione, determinati a perseguire il proprio disegno: diventare i padroni di Roma, conquistando, con il denaro, prestigio e potere, a danno delle altre famiglie nobili che, ormai, in confronto ai Borghese, non erano più da considerarsi ricche, ma solo benestanti. Se per raccogliere denaro Leone X si era dato al traffico delle indulgenze, Scipione si dedicò al traffico delle opere d’arte, scegliendo d’investire le ingenti ricchezze della famiglia (accumulate oltre che con i numerosi incarichi e relativi benefit, anche con ricche prebende) per mettere in piedi una collezione da fare invidia a un re. “Da lungo tempo Roma non aveva visto un mecenate di così fine intelligenza e di tanta liberalità”, sostiene il von Pastor, il quale ci tiene a precisare che il magnifico tenore di vita del cardinal nepote era più simile a quello di un grande del mondo, che di un principe ecclesiastico e che “i banchetti che dava agli invitati e ai cardinali erano straordinariamente sontuosi. Queste feste, che talora avevano luogo anche nella splendida villa del cardinale, fuori Porta Pinciana, formavano il tema dei discorsi dei cittadini”. Sembra che Scipione fosse generoso con i poveri e che proprio grazie al suo mecenatismo avesse guadagnato molte simpatie, atteggiamenti forse calcolati per far digerire la spropositata ricchezza sfoggiata senza vergogna, come parte di una precisa strategia politica, oltre che di una gaudente filosofia di vita. Con la sua condotta disinibita e sfrontata e il lussuoso e lussurioso tenore di vita, Scipione fornì ai romani parecchi argomenti di conversazione. Per mettere insieme la sua formidabile collezione, si dimostrò un rapace cacciatore di opere d’arte, un collezionista compulsivo che sfruttò la propria posizione per compiere veri e propri abusi di potere in nome dell’arte. Appena diventato cardinale iniziò a darsi da fare per raccogliere le opere dei grandi pittori del Cinquecento, come dei contemporanei più quotati, senza dimenticare preziosi capolavori dell’arte classica. Il suo tesoro più caro sembra fosse la statua dell’Ermafrodito dormiente, rinvenuta nel 1609 durante gli scavi per la realizzazione della chiesa di Santa Maria della Vittoria e subito inserita nella collezione.
Chiese al giovane Bernini, già suo pupillo, di trasformare l’appoggio marmoreo della statua in un materasso in modo che la figura ci si adagiasse languidamente e poi fece realizzare un armadio in legno per mostrare agli amici più intimi il suo grande amore in una stanza a lui dedicata. La statua finì poi nella collezione di Camillo Borghese, marito di Paolina Bonaparte e in seguito fu acquisita da Napoleone. Oggi si trova al Louvre, mentre la scultura esposta alla Galleria Borghese nella sala dell’Ermafrodito è un esemplare simile del II secolo, restaurato alla fine del Settecento a imitazione dell’originale. L’Ermafrodito dormiente riassume le due maggiori debolezze del cardinale: l’arte e l’omosessualità. Oltre che essere un fine intenditore e un mecenate dotato di un fiuto infallibile nello scoprire nuovi talenti – Caravaggio e Bernini sono gli esempi più eclatanti – Scipione era anche un uomo privo di scrupoli, disposto a tutto per ottenere ciò che voleva. E se voleva un’opera d’arte, state pur sicuri che riusciva ad averla con tutti i mezzi, leciti e soprattutto illeciti. Sono passate alla storia le sue “appropriazioni indebite”, come quando approfittò del processo contro il Cavalier d’Arpino e il conseguente sequestro dei bene dell’artista – ordinato, guarda un po’, dal fiscale del papa – per arricchire la propria collezione con circa cento quadri, sculture e disegni di grande valore, fra cui anche il Bacchino malato e il Giovane con la canestra di frutta di Caravaggio, ancora oggi alla Galleria Borghese. 
Scipione aveva intuito il valore di Caravaggio e sono molti i quadri dell’artista finiti per vie dirette o traverse nella sua preziosa raccolta. Secondo Bellori, biografo del Merisi, l’unica opera realizzata dal pittore espressamente per il cardinale, prima della sua partenza da Roma, fu il San Girolamo scrivente, mentre Scipione aveva messo le mani sulla Madonna dei Palafrenieri, non appena era stata rifiutata dalla Reverenda Fabbrica di San Pietro. che l’aveva commissionata. Il cardinale seguì le turbolente vicissitudini di Caravaggio fino alla morte dell’artista, sempre con lo scopo di appropriarsi delle sue tele, ovviamente. 
Sembra anzi che il pittore avesse barattato con lui la revoca della condanna a morte in cambio di alcuni quadri. Che fosse un mercante senza scrupoli Scipione lo aveva già dimostrato nel 1608, quando dalla chiesa di San Francesco a Perugia, aveva fatto trafugare nottetempo la Deposizione di Raffaello. Alle proteste dei perugini, furenti per il furto, rispose il papa in persona sostenendo che il dipinto gli era necessario per la sua cappella privata, mentre invece andò a finire al nipote come “dono perpetuo” e “cosa privata”. In cambio Scipione mandò ai perugini due copie fatte eseguire dal Cavalier d’Arpino e dal Lanfranco.
Per ottenere La Caccia di Diana, del Domenichino, invece, fece sbattere il pittore in prigione per poi barattare il dipinto con la libertà. 
In queste operazioni criminali, il cardinale aveva un braccio destro, Stefano Pignatelli, che non era un semplice uomo di fiducia, ma un amico intimo. Molto intimo: tutti a Roma parlavano e sparlavano del loro rapporto omosessuale. Le maldicenze erano iniziate anni prima, quando Scipione e Pignatelli, figlio di un umile vasaio umbro, studiavano insieme a Perugia. Stando alle calunnie, insieme facevano molto di più che studiare, tanto che lo zio di Scipione, futuro papa, aveva fatto cacciare Pignatelli dal collegio, per mettere a tacere le malelingue. Ma i due amici continuarono a vedersi e così quando Camillo Borghese divenne papa e Scipione cardinale, anche Pignatelli riuscì a intrufolarsi e fare carriera. Rientrato nelle grazie di Paolo V e contando sull'amore del cardinale – più forte di prima stando ai meglio informati – ottenne l’incarico di cameriere segreto di Scipione. Ad alimentare le già numerose chiacchiere, circa lo scandaloso rapporto tra il cardinale e il suo amico di vecchia data, si aggiunse il sospetto di un ménage a trois, che coinvolgeva l’avvocato concistoriale Pietro Campora, segretario del cardinale. In una lettera, il cardinale Giangrazia Millini affermava addirittura che i due governassero il Borghese.
Secondo numerose indiscrezioni, però, era Stefano a esercitare un’influenza particolare su Scipione, che ne seguiva alla lettera i consigli. Tale rapporto finì per scatenare gelosie e invidie: l’entourage del porporato iniziò a lanciare contro Pignatelli calunnie velenose, dipingendolo come un uomo pieno di vizi, in modo da spingere ambasciatori e cardinali a riferire tutto al papa, perché prendesse provvedimenti. Paolo V lo fece quindi allontanare, ma Scipione reagì malissimo: schiacciato dal mal d’amore, si ammalò così gravemente da non dare segni di miglioramento. Solo quando il suo amico si precipitò a Roma per curarlo, finalmente guarì. Il papa comprese allora che nulla poteva contro quella relazione e risolse la cosa trasformando Pignatelli in “uno di loro”, ovvero gli fece indossare l’abito sacerdotale. Da quel momento l’amico divenne il braccio di Scipione e lo affiancò nei suoi traffici d’arte, dimostrandosi un mercante particolarmente dotato a trattare con destrezza anche gli affari più delicati. In men che non si dica fece carriera, accumulando cariche e benefici. Proprio la nomina a cardinale, nel 1621, scatenò commenti feroci sulla liaison dangereuse. Per fornirvi tutti i dettagli, sappiate che nel frattempo Pietro Campora si era ritirato nel suo arcivescovado di Cremona, lasciando campo libero al Pignatelli. Una pasquinata inferocita, accusò esplicitamente il cardinale Borghese di aver conferito la nomina cardinalizia al suo amico, proprio in virtù della loro relazione omosessuale. D’altra parte, sosteneva Pasquino, in Spagna e in Francia ognuno eleggeva cardinali i propri uomini, quindi non c’era niente di strano se la “mentula” – e lo dice in latino per essere meno volgare – del cardinale Borghese aveva scelto il “suo uomo”. Paradossalmente, Scipione usò proprio l’accusa di omosessualità per proteggersi da altri scandali che avrebbero rischiato di rovinargli maggiormente la reputazione, come il biasimo per le ingenti ricchezze e i tesori artistici accumulati in modo più o meno illecito. E così continuò a fare ciò che voleva, con la botte piena (di soldi e opere d’arte) e la moglie (Pignatelli) ubriaca d’amore, e forse anche di convenienza. Partito come uomo di basso lignaggio – questo il giudizio dei contemporanei – divenuto cardinale e potente, Stefano Pignatelli fu sepolto con tutti gli onori a Santa Maria sopra Minerva. L’amore può tutto. Quello di un potente cardinal nepote del papa nella Roma dell’epoca, poi, apriva qualunque porta e chissà se anche quella del Paradiso. Ma questo, forse, è un commento maligno degno di Pasquino.



(Giulia Fiore Coltellacci - Storia pettegola di Roma)




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