La casa delle vestali

novembre 04, 2020


Il fuoco che le vestali dovevano tenere costantemente acceso non era, come si sa, quello della passione, bensì quello della dea che garantiva l’immortalità di Roma, Vesta, che pretendeva da loro l’assoluta – e casta – devozione per trenta anni. Si diventava vestali da bambine, fra i sei e i dieci anni, e si terminava il servizio verso la quarantina: a quel punto si era libere. E tale era il loro prestigio che talvolta, vecchissime per quei tempi, si sposavano. Il loro compito era quello di custodire il sacro fuoco della dea senza lasciarlo mai spegnere e, soprattutto, custodire sé come incarnazione vivente di Veste che a sua volta garantiva l’immortalità di Roma. La loro casa era situata nel cuore del Foro Romano. Nell’atrio della Casa c’era un sacro albero di loto, detto Lotus capillaris perché vi si appendevano le chiome delle novizie, recise dal pontefice. 


Era una casa inaccessibile agli estranei e controllata da mille occhi, anche solo per la sua posizione, perché la castità delle vestali era affare di stato e bastava poco per essere accusate di avere infranto il voto: una battaglia persa dell’esercito, una sciagura che si abbatteva sulla città e subito si saltava alla conclusione che qualcuna delle sacerdotesse doveva avere infranto il voto di castità, una colpa ancora più grave di avere lasciato spegnere il fuoco sacro. Per chi cedeva alle lusinghe di Eros – vero o presunto che fosse il cedimento, o persino in caso di stupro – il castigo era una terribile morte. Per sfuggirlo non rimaneva che invocare la dea e dimostrare la propria innocenza sottoponendosi a prove bislacche come Tuccia, cantata da Petrarca, che ne fa un simbolo di pudicizia: “Fra l’altre la vestal vergine pia, che baldanzosamente corse al Tibro e, per purgarsi d’ogni fama ria, portò del fiume al tempio acqua col cribro”. Vale a dire che Tuccia portò l’acqua dal Tevere al tempio della dea in un setaccio. Senza perderne una goccia, s’intende.


Claudia Quinta scelse un’altra via: disincagliando una nave con l’effige della dea Cibele. Lo raccontava Ovidio: “la terra era secca da tempo la calura, aveva bruciato l’erba: resiste la nave incagliata nell’alveo fangoso. […] Claudia Quinta era di stirpe discesa dall’antico Clauso, e il suo aspetto non era da meno per nobiltà, casta, invero, ma non creduta tale: l’aveva danneggiata un’iniqua diceria, ed era calunniosamente accusata di libertinaggio. Le nocque l’eleganza e l’uscire con la chioma variamente acconciata, e l’avere la lingua pronta con i rigidi vegliardi. Consapevole della propria innocenza rise delle menzogne della fama, ma noi siamo gente incline a credere il male. Come ella avanzò dallo stuolo delle caste matrone e con la mano attinse la pura acqua del fiume […] e inginocchiata fissa lo sguardo nell’immagine della dea e con la chioma sciolta dice queste parole: […] “Si nega ch’io sia casta. Se tu mi condanni, dirò che l’ho meritato e pagherò con la morte la colpa, per tuo giudizio divino; se invece sono immune da colpa, dà con un tuo gesto prova della mia purezza, e casta segui le mie caste mani”. Disse, e trasse la gomena con esigo sforzo; […] la dea si muove, segue la guida e col seguirla la elogia: un clamore, segno di letizia, si leva fino alle stelle.” Per chi non riusciva a provare la propria innocenza, la sorta era segnata: poiché erano talmente sacre, a nessuno era permesso ucciderle e i nostri antenati escogitarono un crudele espediente. Il giorno della condanna venivano preparate per il loro funerale, con tutti i riti del caso e legate ad una lettiga per l’ultima cerimonia della loro vita. Dalla casa delle vestali nel Foro Romano partiva il corteo funebre, attraversava il quartiere popolare della Suburra, (oggi è il rione Monti) e continuava lungo l’odierna via XX Settembre, che allora si chiamava via Alta Semita. La processione terminava nei pressi della porta Collina, oggi scomparsa, ma che al tempo si trovava pressappoco dove oggi sorge il ministero delle Finanze. Qui si estendeva il cosiddetto “Campo scellerato”. Ad aspettarle, il sepolcro preparato per l’occasione e contenente del cibo, latte e una piccola lampada per illuminare le tenebre che avrebbero avvolto le poverette una volta sigillata la tomba per sempre. E addio vestale. 


Anche la memoria veniva cancellata. Nei circa dieci secoli che durò la storia di Roma, i casi di condanna furono da dieci a venti: in questo numero vanno inclusi anche i casi in cui l’accusa fu rivolta a delle innocenti. Agli amanti delle vestali fedifraghe era invece riservata la morte per flagellazione: il sangue di lui poteva essere versato, e anche pubblicamente, mentre nessuno poteva versare quello di lei, dea incarnata… se il fuoco sacro si era spento allora era la frusta a fare giustizia della sacerdotessa distratta…


(Marita Bartolazzi - Le strade del mistero e dei delitti di Roma)

(Claudio Colajacomo - Roma perduta e dimenticata)

(Mario Spagnol - Guida ai misteri e segreti di Roma)

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