La fontana delle Api si trova all'inizio
di via Veneto, all'angolo tra la strada e piazza Barberini. È un rifacimento
dell’originale fatto da Bernini e la sua storia è piuttosto curiosa. La realizzazione
della fontana, come si è detto, fu affidata nel Seicento a Bernini. Si trattava
dell’abbeveratoio per i cavalli, una vasca bassa che veniva sempre costruita in
prossimità delle fontane monumentali, la sua collocazione originaria era, infatti, sull'angolo di palazzo Soderini, tra piazza Barberini e via Sistina, vicino alla Fontana del
Tritone. Bernini progettò l’abbeveratoio con grande stile:
era formato da due valve di conchiglia ornate da tre api (le api sono il simbolo
della famiglia Barberini), da cui veniva fatta uscire l’acqua. La valva inferiore,
bassa a livello della strada, conteneva l’acqua, mentre quella aperta, in
verticale, avevo inciso la scritta in onore del pontefice Urbano VIII. Proprio questa
scritta fu causa di interminabili critiche, maldicenze e pasquinate. Era il
ventunesimo anno di pontificato, ma dato che mancavano appena due mesi al compiersi
del ventiduesimo, Bernini pensò di fare un gesto gradito al papa mettendo sulla
scritta, come data, l’anno XXII del suo papato. Le critiche a questa scelta
arrivarono puntuali. Ci si mise di mezzo anche la scaramanzia che rendeva
inappropriato nominare quel ventiduesimo anno non ancora compiuto. Il fatto
assunse tale importanza, che il cardinale Barberini mandò, nottetempo, uno
scalpellino a modificare la scritta XXII in XXI. A quel punto però si
scatenarono altre critiche: rimettendo la data del ventunesimo anno sembrava
che si volesse augurare al papa di non arrivare al quel famoso ventiduesimo! …ed
effettivamente fu proprio così. Perché Urbano VIII morì otto giorni prima del
compimento del famoso ventiduesimo anno di pontificato!
La minestra di paste e patate è un un classico della cucina romana le cui origini provengono dalla tradizione popolare. Piatto povero, ma ricco di gusto, sostanzioso e profumato. Tipico delle popolazioni rurali, nella tradizione romanesca viene arricchito aggiungendo il guanciale al soffritto.
E' quello che ci vuole per scaldarsi nelle fredde sere d'inverno.
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Ingredienti
250 gr. Cannolicchi
400 gr. Patate viterbesi
100 gr. Guanciale
Carota
Sedano
Cipolla
Prezzemolo
Salvia
Pomodori freschi (o passata)
Pecorino romano grattugiato
Sale
Pepe
Tritate il guanciale insieme a tutti gli odori e soffriggetelo
in un tegame capiente. Aggiungete le patate tagliate a cubetti, pomodoro, sale
e pepe. Allungate con acqua calda (o brodo vegetale) fino a coprire
abbondantemente. Fate cuocere una ventina di minuti (aggiungendo acqua calda se
serve). Cuocete a parte i cannolicchi in acqua salata, scolateli al dente e
metteteli nel tegame con le patate. (io li ho cotti direttamente nel tegame e prima di aggiungerli ho schiacciato con una forchetta un po' le patate, perché a noi piace più "cremosa" che liquida).
Fate insaporire ancora qualche minuto e servite con un filo d’olio a crudo e tanto pecorino grattugiato.
(La Romanesca: cucina popolare e tradizione romana)
Fate insaporire ancora qualche minuto e servite con un filo d’olio a crudo e tanto pecorino grattugiato.
(La Romanesca: cucina popolare e tradizione romana)
C’è un luogo suggestivo e unico
all’Eur che nonostante tutto è ancora poco conosciuto a causa, forse, della sua
particolare posizione lontano dai tradizionali itinerari turistici. È il Museo
Nazionale dell’Alto Medioevo, istituito nel 1967 nel Palazzo delle Scienze e
interamente dedicato al periodo dei cosiddetti “secoli bui”. Che poi, col buio,
qui si ha davvero poco a che fare, vista la ricchezza e preziosità dei numerosi
reperti esposti.
Tra tutti risplende, nel vero senso della parola, l’Opus
Sectile di Porta Marina, l’opulenta decorazione a intarsi di marmi colorati
(opus sectile appunto) che ornava la sala di rappresentanza di una domus
monumentale fuori Porta Marina ad Ostia. In pochi sanno che si tratta
dell’esempio più completo al mondo, quasi totalmente recuperato durante gli
scavi degli anni Sessanta. C’è poi da dire che il suo allestimento nel Museo è
assolutamente spettacolare: la grande sala, infatti, è stata interamente
ricostruita e suscita nel visitatore una rara emozione estetica. L’impressione
è quella di ritrovarsi in una lussuosa abitazione della Roma del IV secolo e il
bello, si fa per dire, è che i proprietari della ricca dimora non riuscirono
mai a vedere questa meraviglia: l’edificio, infatti, crollò in fase di
costruzione. Le pareti dell’aula si ripiegarono su sé stesse in un giorno
imprecisato tra il 394 e il 400 circa e, da allora, tutto quello che vi era al
suo interno rimase sepolto per secoli, non vi furono saccheggi né vi si costruì
nulla sopra.
Durante le delicate operazioni di scavo, non si rinvennero ossa,
segno che al momento del cedimento o era notte o gli operai fecero in tempo ad
uscire, lasciando però a terra i materiali da cantiere fra cui le formelle del
pavimento già predisposte ma non ancora messe in opera. Si è potuti giungere
alla scenografica ricostruzione, grazie allo studio accurato dei blocchi murari
crollati che in molti casi conservavano ancora attaccati ampi tratti del
sontuoso rivestimento. Questi servirono da base per ricomporre il disegno delle
parti perdute, una specie di “cartone” su cui collocare le infinite lastrine
colorate ritrovate dagli archeologi. Da questo puzzle prodigioso sono, quindi,
venuti fuori 190 pannelli intarsiati che si estendono per 146 metri quadrati
tra pareti e pavimento. Vi sono riprodotte specchiature geometriche con motivi
a stelle, ottagoni e cerchi combinati con grande eleganza; fregi floreali e
gruppi di animali in lotta: leoni sulla parete destra e tigri sulla sinistra.
Oltre alla complessità dell’ornato, quello che colpisce è anche la preziosità e
varietà dei marmi impiegati, giallo antico, serpentino, porfido rosso e
pavonazzetto. E come per la maggior parte dei tesori, anche per l’opus sectile
di Porta Marina vi è un lato misterioso. Durante l’incredibile lavoro di
assemblaggio, infatti, sono emersi con sorpresa due enigmatici busti virili: un
giovane aristocratico con la tunica bordata di porpora e un adulto dallo
sguardo penetrante, barba, capelli lunghi e nimbo (disco luminoso) intorno al
capo: Cristo, un filosofo accompagnato dal suo allievo o due personaggi
autorevoli della cultura antica? ad altri l’ardua sentenza.
(I tesori nascosti di Roma – Gabriella
Serio)
Un posto d’onore, tra i personaggi
tipici della vecchia Roma, spetta certamente al cantastorie Pietro Capanna,
conosciuto da tutti come Er Sor Capanna: uomo paffuto con grandi occhiali,
spessi come fondi di bottiglia. Nasce tra il popolo più verace e i vicoli polverosi
di Trastevere. Il padre era un “pastarellaro” di via del Moro e la mamma
lavorava presso la manifattura dei tabacchi di piazza Mastai. Pietro faceva il
macellaio, ma a causa di una grave congiuntivite perse quasi del tutto la vista
e dovette smettere di lavorare al mercato. Non si perse d’animo e in poco tempo
diede sfogo all'arte di arrangiarsi, inventando dal nulla quello che diventerà
uno dei personaggi più noti di Roma: il cantastorie Sor Capanna. Girava le
strade della città cantando e improvvisando brevi strofe e stornelli, con una
sagacia e un sarcasmo formidabili. Spargeva allegria tra i vicoli, sempre con la
battuta e la risata pronta, anche quando la vita gli remava contro. Il giorno
che morì la figlia più piccola, Lucietta, dovette continuare a lavorare per
racimolare qualche soldo per il funerale. Si racconta che prese la chitarra e
prima di iniziare, con un allegro stornello, disse: “Cor core che me piagne,
me tocca a fa’ ride la ggente, pe’ faje lo straporto”. Ebbe il suo momento
di gloria quando Ettore Petrolini lo presentò sul palco della Sala Umberto, dichiarando apertamente la stima che nutriva nei suoi confronti. In questo modo
guadagnò tantissima notorietà e anche qualche soldo, ma continuò ad essere cantastorie
da strada. Mori giovane, a cinquantasei anni, ma lasciò una forte impronta,
capace di influenzare molti artisti, poeti e cantanti che seguirono il suo
esempio fino ad oggi.
(Claudio Colaiacomo - I love Roma)
“Ner modo de pensà c’è un gran divario:
mi padre è democratico cristiano, e, siccome è impiegato
ar Vaticano,
tutte le sere recita er rosario;
de tre fratelli, Giggi ch’er più anziano,
è socialista rivoluzzionario;
io invece so’ monarchico, ar contrario
de Ludovico ch’è repubbricano.
Prima de cena liticamo spesso
Pe via de sti principi benedetti:
chi vò qua, chi vò là…
pare un congresso!
Famo l’ira de Dio! Ma appena mamma
ce dice che so’ cotti li spaghetti
semo tutti d’accordo ner programma”
(La Politica – Trilussa)
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Sotto lo Stato Pontificio era obbligatorio rispettare ogni
vigilia e ogni venerdì mangiando “di magro”. Il piatto tipico popolare era
costituito dagli spaghetti con
il tonno, che veniva comprato “a peso” dai grossi barattoli del “pizzicarolo”. Tradizione che ancora continua in molte case romane.
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Ingredienti
400 gr spaghetti
2 spicchi d’aglio
3 acciughe diliscate e dissalate
400 gr pomodori pelati
200 gr tonno in scatola
Olio extravergine
Sale
Peperoncino
prezzemolo
Sbucciate l’aglio e mettetelo in una padella con olio e
peperoncino.
Appena rosolato toglietelo e aggiungete le alici,
schiacciandole con un cucchiaio di legno per farle sciogliere.
Aggiungete i pomodori pelati, o la passata, salate (poco,
considerando che già le alici sono saporite) e continuate la cottura per 10/15
minuti.
Aggiungete il tonno sbriciolato e lasciate insaporire per altri
5 minuti.
Scolate gli spaghetti molto al dente, versateli nella
padella con il sugo, mantecate bene e serviteli con abbondante spolverata di
prezzemolo tritato.
(La Romanesca:cucina popolare e tradizione romana)
(La Romanesca:cucina popolare e tradizione romana)
La cucina romana tradizionale ha
una lunga storia e si fonda su ingredienti di origine rurale e contadina,
conservando sapori del passato in ricette spesso tramandate di generazione in
generazione in ambito familiare. Uno dei piatti tipici della tradizione romanesca
è il carciofo alla romana. Questo ortaggio, conosciuto fin dall'antichità, ha
importantissime proprietà benefiche e medicinali. Il suo uso è attestato fin dagli
antichi Egizi, ma lo consumavano molto anche Etruschi, Greci e Romani.
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Ingredienti:
Carciofi
olio evo
sale e pepe
prezzemolo
mentuccia
aglio
vino bianco
limoni
Togliete le foglie dure esterne
del carciofo fino a che non si raggiungono quelle morbide. Tagliate le punte
delle foglie restanti e pulite il gambo lasciandone 5 cm. Man mano che pulite i
carciofi immergeteli in acqua acidulata con il limone, affinché non diventino
scuri. Quando avrete pulito tutti i carciofi, scolateli e asciugateli; aiutandovi
con un cucchiaino allargate delicatamente le foglie e riempiteli con un miscuglio
formato da un trito di aglio, prezzemolo, mentuccia, olio, sale e pepe. Inserite
i carciofi capovolti (gambo rivolto verso l’alto) in un tegame alto, non troppo
largo: devono rimanere stretti e bene attaccati l’uno all'altro e dovranno essere
coperti di liquido quasi fino al gambo (la giusta proporzione è una parte di
olio, una parte di acqua e una parte di vino bianco). Mettete per primo l’olio
a scaldare, posizionare i carciofi, aggiustare di sale e pepe, e fate rosolare
per qualche minuto, aggiungete acqua e vino, coprite e fate cuocere a fuoco
moderato, fin quando, inserendo i rebbi di una forchetta, il carciofo non
risulti morbido. Se risulta troppo liquido, scoprite e fate asciugare a fuoco
vivace ancora per qualche minuto.
In via di Monserrato, al civico
145, sul palazzo che fa angolo con via dei Cartari, cerchiamo con lo sguardo,
fra le foglie di una rigogliosa bouganville, che copre il muro, una targa. Recita
così:
"(T)I(BERIUS) CLAUDIUS (D) RUSI F(ILIUS) CAISAR (A)UG(USTUS)
GERMANICUS P(ON)T(IFEX) MAX(IMUS) TRIB(UNICIA) POT(ESTATE)
(V) IIII IMP(ERATOR) XVI CO(N)S(UL) IIII (C)ENSOR P(ATER) P(ATRIAE)
(AU)CTIS POPULI ROMANI (FI)NIBUS POMERIUM (A)MPLIAVIT
TERMINAVITQ(UE) XXXV"
"TIBERIO CLAUDIO CESARE AUGUSTO GERMANICO, FIGLIO DI DRUSO,
PONTEFICE MAXIMO, INSIGNITO DELLA NONA POTESTA' TRIBUNICIA,
IMPERATORE PER LA SEDICESIMA VOLTA, CONSOLE PER LA QUARTA,
CENSORE, PADRE DELLA PATRIA, AVENDO ACCRESCIUTO IL TERRITORIO
DEL POPOLO ROMANO, AMPLIO' IL POMERIO E LO DEFINI'
MEDIANTE 35 CIPPI"
Si tratta della targa che
attestava il confine di Roma ai tempi dell’imperatore Claudio. Indica cioè uno
dei punti su cui passava il “pomerium”, quella striscia di terra che costituiva
un confine sacro, oltre la cinta delle mura. Ai tempi di Claudio, questo
tracciato non coincideva con lo spazio dove poi sarebbero state edificate le
mura, ma stabiliva una separazione “magica” tra la città e l’esterno. L’usanza
di tracciare il “pomerium” seguiva le indicazioni date dai sacerdoti, che facevano
così in modo da tenere lontani dalla città gli spiriti della guerra, i demoni
delle malattie e tutto ciò che poteva essere dannoso per la città e i cittadini.
(Guida alle curiosità - Lungo la via Giulia)
“La testa è delicata e bella, lo sguardo
dolcissimo e gli occhi molto grandi: hanno l’aria stupita di una persona che è
stata colta di sorpresa proprio nell'attimo in cui piangeva calde lacrime”. (Stendhal)
Quando anni fa andai alla
Galleria di Arte Antica, in palazzo Barberini, rimasi molto colpita da questo
quadro: Beatrice Cenci attribuito a Guido Reni (ma molto più probabilmente,
invece, secondo recenti teorie e studi, della pittrice bolognese Ginevra
Cantofoli). Lo ammetto, all'epoca non sapevo chi fosse, ma quello sguardo,
innocente e supplichevole, mi rimase dentro e feci subito una ricerca in
Internet per saperne di più. La sua è una storia che sconvolse tutta Roma alla
fine del Cinquecento. Beatrice era nata il 6 febbraio 1577, da Francesco Cenci e
dalla nobildonna Ersilia Santacroce, ai tempi del pontificato di papa Gregorio
XIII. Proprietari di rigogliose tenute agricole, i Cenci possiedono un intero
quartierino, chiamato appunto Monte dei Cenci, di fronte all'Isola Tiberina, in
cui Beatrice ha trascorso l’infanzia.
Una serie di edifici costruiti uno sull'altro, congiunti da un labirinto di scale, ballatoi e scantinati, che includono, allora come oggi, una piazzetta e la chiesa gentilizia di famiglia, San Tommaso.
Il padre di Beatrice, Francesco, è il figlio di un monsignore, Cristoforo, che lo ha avuto da una relazione adulterina con una donna di origini catalane, Beatrice Arias. In teoria Francesco sarebbe un figlio illegittimo, ma il padre non ha difficoltà a farne il suo erede. D'altronde, in quei tempi, anche i papi procreavano con belle nobildonne per assicurarsi una discendenza diretta. Alleggerendo a man bassa i forzieri degli istituti religiosi di cui era tesoriere, il nonno di Beatrice era diventato molto ricco. Francesco ne aveva ereditato la grande ricchezza, che comprendeva un paio di palazzotti a Roma, estese tenute agricole, tra le migliori del Lazio e il titolo, comprato ma non meno rispettabile, di feudatario del regno di Napoli. Un patrimonio stimabile in 400.000 scudi, con una rendita annuale di 20.000. Francesco ha un’indole violenta: quando era studente universitario a Bologna, andava con gli amici in cerca di lavandaie graziose da violentare e a diciotto anni aveva ammazzato a legnate un suo vassallo ribellatosi a un ennesimo sopruso. Era finito in prigione per due mesi e aveva dovuto pagare una multa di 5000 scudi. Quando Beatrice ha sette anni, muore la madre, fra l’altro in circostanze misteriose, e la bambina viene mandata nel monastero di Santa Croce a Montecitorio, una scuola privata economica, al di sotto di quello che i suoi avrebbero potuto permettersi. Viene cresciuta dalle monache e torna a casa soltanto all'età di quindici anni, per scoprire che la sua famiglia stava lentamente degenerando. Il padre, che nel frattempo si era risposato con una vedova agiata, Lucrezia Petroni, è violento, arrogante e prepotente, in rotta di collisione con il resto del mondo. Nella Roma del Cinquecento la violenza era dilagante, al punto che barbieri e chirurghi denunciavano al tribunale del governatore fino a quattro casi al giorno di lesioni corporali che erano stati chiamati a curare. Nobili e popolani erano abituati a risolvere le controversie personali ricorrendo allo scontro fisico. Cenci però pensa che esercitare la violenza sia un suo diritto e che lo Stato non debba interferire nelle sue faccende private. Vittima di un mal riposto orgoglio di classe, dell’arroganza del potente, che crede che tutto gli sia concesso, gli sfugge che il tempo dei feudatari medioevali è tramontato definitivamente. Nel clima rigido della Controriforma, papa Clemente VIII trovava sempre meno accettabili questi comportamenti.
Francesco è perennemente in lite con i congiunti, con i servi e con i vassalli e, invecchiando, quando è ormai padre di molti figli, non diventa un uomo migliore. Anzi, il suo interesse sessuale si allarga anche ai giovani maschi, tra cui il figlio della seconda moglie, la quale, per proteggerlo, deve allontanarlo da casa. Angherie e soprusi continuano indisturbati tra le mura domestiche e fuori fino a quando un servo, che ha sodomizzato e accusato di furto, per difendersi lo denuncia. Messo di nuovo sotto inchiesta, Francesco nega di abusare dei servi maschi, anche se ammette rapporti con le serve, ma “al modo ordinario, naturalmente, come fanno gli huomini dabbene, dalla parte dinnanzi”. È una menzogna, e lo sa bene, suo malgrado, una delle sue serve, Maria la Spoletina, la sua preferita. Lei preferirebbe tacere per paura, ma per costringerla a parlare i giudici la denudano sadicamente e la sottopongono alla tortura della corda e finalmente lei parla: “Voglio domandare misericordia, essendo stata io serva sua, che mi bisognò fare quello che voleva esso signor Francesco. Et però nel tempo in cui io lo servivo in casa, lui usò con me contro natura da sei o sette volte: et perché io da principio non volendo io compiacerlo in questo, lui mi diedde delle botte con un bastone e mi ruppe la testa et altre bastonate per le spalle e molti pugni”. Il reato di sodomia comportava la pena di morte. Francesco la scampa pagando una multa stratosferica di 100.000 scudi. Il papa, infatti, preferisce incamerare gli averi dei baroni ribelli alla sua autorità, piuttosto che punirli in altro modo, perché il regno è sempre prossimo al default. Per saldare il debito Francesco deve vendere uno dei suoi feudi migliori, quello di Nemi. Altri 50.000 scudi deve versarli affinché non gli venga pignorata l’eredità paterna, costruita sulle ruberie. Sono esborsi che lo rendono sempre più avaro e che lo spingono a negare il dovuto ai figli. Solo ricorrendo al papa, i figli maschi riescono a farsi riconoscere un vitalizio, mentre la figlia maggiore Antonina ottiene la dote di 20.000 scudi e il permesso di sposarsi grazie alle pressioni dello sposo, della potente famiglia Savelli, che tra le altre cose ha in appalto proprio le carceri di Roma. Ma se con Antonina ha dovuto arrendersi, nel caso di Beatrice non si piegherà. La figlia e la moglie mandano altri disperati appelli alle autorità, denunciando le sue angherie e chiedendo aiuto, ma rimangono inascoltate. Compito di una figlia e di una moglie è riverire il padre e marito, non di metterne in discussione l’autorità. Francesco decide comunque di farle rinchiudere nella rocca di Petrella Salto.
Una serie di edifici costruiti uno sull'altro, congiunti da un labirinto di scale, ballatoi e scantinati, che includono, allora come oggi, una piazzetta e la chiesa gentilizia di famiglia, San Tommaso.
Il padre di Beatrice, Francesco, è il figlio di un monsignore, Cristoforo, che lo ha avuto da una relazione adulterina con una donna di origini catalane, Beatrice Arias. In teoria Francesco sarebbe un figlio illegittimo, ma il padre non ha difficoltà a farne il suo erede. D'altronde, in quei tempi, anche i papi procreavano con belle nobildonne per assicurarsi una discendenza diretta. Alleggerendo a man bassa i forzieri degli istituti religiosi di cui era tesoriere, il nonno di Beatrice era diventato molto ricco. Francesco ne aveva ereditato la grande ricchezza, che comprendeva un paio di palazzotti a Roma, estese tenute agricole, tra le migliori del Lazio e il titolo, comprato ma non meno rispettabile, di feudatario del regno di Napoli. Un patrimonio stimabile in 400.000 scudi, con una rendita annuale di 20.000. Francesco ha un’indole violenta: quando era studente universitario a Bologna, andava con gli amici in cerca di lavandaie graziose da violentare e a diciotto anni aveva ammazzato a legnate un suo vassallo ribellatosi a un ennesimo sopruso. Era finito in prigione per due mesi e aveva dovuto pagare una multa di 5000 scudi. Quando Beatrice ha sette anni, muore la madre, fra l’altro in circostanze misteriose, e la bambina viene mandata nel monastero di Santa Croce a Montecitorio, una scuola privata economica, al di sotto di quello che i suoi avrebbero potuto permettersi. Viene cresciuta dalle monache e torna a casa soltanto all'età di quindici anni, per scoprire che la sua famiglia stava lentamente degenerando. Il padre, che nel frattempo si era risposato con una vedova agiata, Lucrezia Petroni, è violento, arrogante e prepotente, in rotta di collisione con il resto del mondo. Nella Roma del Cinquecento la violenza era dilagante, al punto che barbieri e chirurghi denunciavano al tribunale del governatore fino a quattro casi al giorno di lesioni corporali che erano stati chiamati a curare. Nobili e popolani erano abituati a risolvere le controversie personali ricorrendo allo scontro fisico. Cenci però pensa che esercitare la violenza sia un suo diritto e che lo Stato non debba interferire nelle sue faccende private. Vittima di un mal riposto orgoglio di classe, dell’arroganza del potente, che crede che tutto gli sia concesso, gli sfugge che il tempo dei feudatari medioevali è tramontato definitivamente. Nel clima rigido della Controriforma, papa Clemente VIII trovava sempre meno accettabili questi comportamenti.
Francesco è perennemente in lite con i congiunti, con i servi e con i vassalli e, invecchiando, quando è ormai padre di molti figli, non diventa un uomo migliore. Anzi, il suo interesse sessuale si allarga anche ai giovani maschi, tra cui il figlio della seconda moglie, la quale, per proteggerlo, deve allontanarlo da casa. Angherie e soprusi continuano indisturbati tra le mura domestiche e fuori fino a quando un servo, che ha sodomizzato e accusato di furto, per difendersi lo denuncia. Messo di nuovo sotto inchiesta, Francesco nega di abusare dei servi maschi, anche se ammette rapporti con le serve, ma “al modo ordinario, naturalmente, come fanno gli huomini dabbene, dalla parte dinnanzi”. È una menzogna, e lo sa bene, suo malgrado, una delle sue serve, Maria la Spoletina, la sua preferita. Lei preferirebbe tacere per paura, ma per costringerla a parlare i giudici la denudano sadicamente e la sottopongono alla tortura della corda e finalmente lei parla: “Voglio domandare misericordia, essendo stata io serva sua, che mi bisognò fare quello che voleva esso signor Francesco. Et però nel tempo in cui io lo servivo in casa, lui usò con me contro natura da sei o sette volte: et perché io da principio non volendo io compiacerlo in questo, lui mi diedde delle botte con un bastone e mi ruppe la testa et altre bastonate per le spalle e molti pugni”. Il reato di sodomia comportava la pena di morte. Francesco la scampa pagando una multa stratosferica di 100.000 scudi. Il papa, infatti, preferisce incamerare gli averi dei baroni ribelli alla sua autorità, piuttosto che punirli in altro modo, perché il regno è sempre prossimo al default. Per saldare il debito Francesco deve vendere uno dei suoi feudi migliori, quello di Nemi. Altri 50.000 scudi deve versarli affinché non gli venga pignorata l’eredità paterna, costruita sulle ruberie. Sono esborsi che lo rendono sempre più avaro e che lo spingono a negare il dovuto ai figli. Solo ricorrendo al papa, i figli maschi riescono a farsi riconoscere un vitalizio, mentre la figlia maggiore Antonina ottiene la dote di 20.000 scudi e il permesso di sposarsi grazie alle pressioni dello sposo, della potente famiglia Savelli, che tra le altre cose ha in appalto proprio le carceri di Roma. Ma se con Antonina ha dovuto arrendersi, nel caso di Beatrice non si piegherà. La figlia e la moglie mandano altri disperati appelli alle autorità, denunciando le sue angherie e chiedendo aiuto, ma rimangono inascoltate. Compito di una figlia e di una moglie è riverire il padre e marito, non di metterne in discussione l’autorità. Francesco decide comunque di farle rinchiudere nella rocca di Petrella Salto.
La rocca, che ha preso in affitto dai Colonna insieme al castellano e al personale di servizio, sorge oltre i confini dello Stato Pontificio, quindi, entro certi limiti, fuori dalla giurisdizione del papa. Come si può vedere ancora oggi da quello che ne resta, è un cupo castello del Duecento, con due torrioni uniti da un muro basso e massiccio, a cui si accedeva attraverso un pesante portale. Per quasi tre anni Beatrice e la matrigna vivono sotto stretta sorveglianza in un’ala della rocca, praticamente senza contatti con l’esterno, a tre giorni di cavallo da Roma. Francesco, ormai affetto da un’avarizia patologica, indossa sempre lo stesso mantello divorato dalle tarme. Non abita più nei sontuosi palazzi o negli appartamenti di Monte Cenci. Afflitto dalla rogna, dalla gotta e probabilmente da qualche malattia venerea, ha eletto a dimora un paio di stanzette all'interno dell’Ospedale San Giacomo degli Incurabili a Roma, che lo ospita perché ha ricevuto da lui dalle donazioni.
Per arredo ha un vecchio tappeto sotto cui tiene nascosti cartocci colmi di monete d’oro, scartoffie piene di conti e numeri, anelli pesanti di chiavi dei suoi tanti possessi e un archibugio sempre a portata di mano. Terrorizzato dalla paura di essere assassinato dai suoi figli maschi, Francesco appena può si rifugia alla rocca, dalle sue donne. Quando è con loro, cerca ogni pretesto per umiliarle. Nelle cupe serate davanti al camino pretende che Beatrice curi i sintomi della rogna, passandogli su tutto il corpo delle pezze unte d’olio. Oppure si fa portare dai servi una seggetta, una specie di water portatile, e pretende che la figlia gli pulisca il sedere. E se Beatrice si rifiuta, la copre di insulti: “Che slandra! Non mi rompere il capo con cotale ciance, sennò arai anco da leccarmi il culo”. Quando poi si congiunge con la moglie, pretende che Beatrice rimanga nella stessa stanza e assista. La mattina del 9 settembre 1598 Francesco Cenci viene trovato morto ai piedi della rocca. Pare che di notte, probabilmente ubriaco come al solito, sia andato a liberarsi in una balconata esterna, la ringhiera si sia rotta e lui sia caduto nel vuoto. Così almeno si dice. La sua morte non dispiace a nessuno, tanto meno a Beatrice e alla matrigna, che fanno seppellire subito il corpo nella chiesetta della rocca e partono per Roma, finalmente libere. Se non che, alla versione dell’incidente non crede nessuno. A una serva viene chiesto di lavare un lenzuolo zuppo di sangue e lei si accorge che non è sangue mestruale, come Beatrice le ha detto. Un’altra, che ha lavato e ricomposto il corpo di Francesco, infilando un dito in uno squarcio che ha nella testa, ha pensato subito agli effetti di una pesante arma da taglio. La ringhiera poi effettivamente è rotta, ma non abbastanza perché ci passi un corpo. A Petrella tutti sono convinti che Francesco sia stato ammazzato e questo basta perché venga immediatamente aperta un’inchiesta. Grazie alla cattura del bandito Marzio Catalani, il magistrato Ulisse Moscati non ha difficoltà a ricostruire quello che è successo. Sotto tortura Catalani ammette di aver ucciso Cenci, insieme all’ex castellano della rocca, Olimpio Calvetti. Ma ad assoldarli è stata Beatrice, con l’appoggio del fratello Giacomo. Olimpio era un ex staffiere quarantenne, che Francesco aveva fatto licenziare, avendo intuito che c’era qualcosa fra lui e la figlia. In effetti Olimpio era diventato clandestinamente l’amante di Beatrice. Conoscendo gli accessi segreti alla rocca, entrava a trovare la ragazza quando voleva. Per accrescere l’odio del castellano nei confronti del padre, Beatrice gli aveva detto che in un’occasione il padre l’aveva stuprata. La vera ricostruzione dei fatti, quindi, era questa: la sera dell’8 settembre Beatrice aveva sciolto dell’oppio nel vino del padre, che si era messo a letto intontito. A quel punto Lucrezia aveva aperto la porta della camera matrimoniale a Olimpio e Marzio. Quest’ultimo con un mattarello fracassa le gambe del Cenci, mentre Olimpio lo colpisce più volte con un maleppeggio, una mazzetta da muratore. Solo che, a causa della tensione, Olimpio aveva brandito il colpo non con l’estremità a martello, ma con quella a scalpello, aprendo proprio quella ferita nella testa di Cenci, in cui la serva avrebbe infilato il dito. Poi avevano rotto la ringhiera per buttarlo di sotto, ma siccome non passava, l’avevano fatto precipitare dal buco del pavimento in cui si gettava la spazzatura.
Un delitto tutt'altro che perfetto. Beatrice Cenci però negava qualsiasi coinvolgimento. Il 6 febbraio 1599 Beatrice e Lucrezia erano state condotte a Castel Sant'Angelo per essere interrogate. I primi tempi della prigionia di Beatrice dovevano essere stati meno duri. Il vice castellano aveva un debole per lei, tanto che le era stato accordato il permesso di tenere con sé delle serve e di poter comunicare con l’esterno. La difesa di Beatrice, affidata al celeberrimo penalista Prospero Farinacci, non aveva però molte carte da giocare. Per paura di fornire lei stessa un movente al giudice, la ragazza non aveva fatto parola della segregazione nella rocca di Petrella e dei tanti soprusi e delle violenze a opera del padre. Anche se erano fatti noti a tutti, l’accusatore non intendeva avvalersene per dare alla ragazza e ai suoi famigliari una qualche attenuante. Olimpio nel frattempo era stato assassinato, molto probabilmente per ordine di Giacomo. Con la sua morte, il più importante accusatore di Beatrice era sparito, e il processo rischiava di arenarsi. Però Clemente VIII non aveva nessuna intenzione di cedere. Il 5 agosto, con un motu proprio, ordinò di sottoporre Beatrice e i suoi famigliari, che sapeva colpevoli, alla tortura. Il 10 agosto tocca a Beatrice, che continua ostinatamente a negare, anche quando Moscati fa portare Giacomo, Bernardo e Lucrezia e li fa torturare sotto i suoi occhi. Infine è lei a essere sottoposta alla tortura. Solo ripetuti tratti di corda riescono a piegarla. Alla fine, Beatrice rende confessione. Ma non piena. Ammette solo di avere acconsentito al progetto di Olimpio di eliminare il padre per poter così fuggire dalla rocca. Per gli inquirenti questo è sufficiente. Viene rinchiusa nel carcere di Corte Savella insieme con la matrigna Lucrezia. Ora non le resta che giocare la carta della clemenza, invocando la grazia del papa. In quel periodo però c’erano stati altri terribili delitti famigliari, che avevano coinvolto membri della nobiltà e il papa decise di essere implacabile. Nessuna pietà quindi per Beatrice e i suoi famigliari, anche perché, nonostante Beatrice avesse fatto testamento in favore dei suoi amici francescani, titolari del convento del Gianicolo, i beni di famiglia furono puntualmente confiscati e spartiti, tra la Tesoreria Apostolica e un nipote del papa stesso. Il mattino dell’11 settembre 1599, davanti alla lugubre fortezza di Castel Sant'Angelo, tutto è pronto per l’esecuzione della ventiduenne Beatrice Cenci. Nella piazza si è radunata tutta la città, tanto che alla fine della giornata si contano sette morti per asfissia. In genere il popolo apprezzava con gusto sadico il supplizio dei condannati, incitando il boia a calare la mannaia. Questa volta però è diverso: “Tutta Roma era mossa a compassione della giovane, bella più che mediocremente di graziose maniere, et ricca di più di quarantamila scudi di dote, la quale ha mostrato così gran core in questi suoi travagli, ch’ha fatto stupire ognuno”, come riferisce un agente del duca di Modena, presente in piazza. Dalla lugubre prigione Savelli dove sono rimaste in attesa dell’esecuzione, Beatrice e la sua matrigna Lucrezia vengono condotte fino alla piazza, accompagnate dal misericordioso salmodiare della Confraternita di San Giovanni Decollato.
Dietro di loro,
scortati dai “birri”, a bordo di due carretti, ci sono Giacomo e Bernardo, i fratelli
di Beatrice, bersaglio degli insulti e degli sputi degli spettatori. I carretti
non sono una comodità. Servono a trasportare anche un braciere, in modo che il
boia, di tanto in tanto, possa arroventare un paio di tenaglie e straziare il
torso nudo dei condannati. Le tenaglie sono risparmiate all'adolescente Bernardo,
ma non a Giacomo, il maggiore. La prima a salire sul patibolo è la cinquantenne
Lucrezia, con una certa difficoltà, perché è sovrappeso. Caduta la sua testa,
viene il turno di Beatrice. Quel giorno, diversamente dal solito, indossa abiti
dismessi. Lascia le pianelle alla base del palco, e sale la scaletta scalza,
fino a raggiungere il boia. “Pose il collo sotto la mannaia, aggiustandosi
da sé per fuggire che il ministro di giustizia non havesse il commodo di
vederle il petto nudo, né di toccarle le carni” racconta una cronaca
romanzata scritta molto tempo dopo i fatti, con un certo gusto per il dettaglio
morboso. “Aspettando il colpo, che stette assai a giungere […] sempre ad
alta voce invocò il santissimo nome di Gesù e di Maria, finché la testa si separò
dal busto […] nello spiccare della testa alzò con tale furia una gamba che
quasi si rovesciò gli panni in spalla.” Gli assistenti del boia calano
quindi il corpo dal palco legato con una corda, che però non è stata assicurata
bene. Il corpo cadde a terra “et, uscitegli le zinne dal seno per la caduta
et impiastratesi di sangue e polvere, bisognò perdervi alquanto di tempo in
lavarle e accomodarle.” A quel punto era toccato a Giacomo, il fratello
maggiore. Il boia l’aveva stordito con un colpo di mazza alla testa e poi l’aveva
smembrato con un coltellaccio, tutto sotto gli occhi del fratello più piccolo,
Bernardo, che attendeva il suo momento. Il papa lo aveva graziato, ma aveva
ordinato che assistesse al supplizio dei famigliari senza saperlo, come nelle finte
fucilazioni della Gestapo. Una terribile crudeltà, se si considera che la sua estraneità
al delitto era comprovata. Presenti tra la folla anche Caravaggio, che si
ispirò alla vicenda per ritrarre il quadro di Giuditta e Oloferne, e Orazio
Gentileschi con la figlioletta Artemisia; anche lei, poi diventata una grande
pittrice, diede la sua personale interpretazione dell’uccisione del generale
Oloferne da parte di Giuditta.
Al termine dello spettacolo, i cadaveri furono lasciati bene in vista fino alla sera: i resti di Giacomo appesi su una rastrelliera, quelli di Lucrezia e Beatrice su un cataletto. Non c’è da stupirsi che una storia così cruda e drammatica abbia riscosso e continui a riscuotere tanto successo. Anche perché può essere interpretata a secondo delle epoche e dei gusti. Per gli anticlericali, Beatrice è una vittima del papa. Per i cattolici integralisti dell’Ottocento, una perversa vampira: “Che non avesse ancora trovato marito a quell'età” annota uno di loro “e nonostante i 20.000 scudi di dote, potrebbe già indurci a credere che non fosse poi tanto bella”. Per i romantici, è semplicemente una triste e bella eroina.
(Michela Ponzani - Massimiliano Griner: Le donne di Roma)
“La generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione. Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata”
(Johann Joachim Winckelmann, Pensieri sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura in Il bello dell’arte, Einaudi, 1948).
Nella bellissima cornice di Palazzo Braschi è in corso in questi giorni e fino alla prossima primavera (09/10/2019 - 15/03/2020) una mostra-evento incentrata sul legame tra Antonio Canova e la città di Roma, dove l'artista si trasferì nel 1779. Sono oltre 170 opere di Canova e di artisti suoi contemporanei, in un allestimento molto suggestivo, un gioco di luci e ombre che rievocano la calda atmosfera a lume di torcia con cui l'artista mostrava le proprie opere agli ospiti, nel suo atelier di via delle Colonnette. Alcune delle opere sono posizionate su piedistalli che girano lentamente in modo da poterle ammirare in ogni loro dettaglio.
Un contorno salutare, saporito e ottimo per accompagnare un buon piatto di carne sono gli spinaci alla romana! Ricetta semplice e allo stesso tempo gustosa, questi spinaci prevedono pochi ingredienti e una preparazione talmente facile che anche il più negato ai fornelli potrà preparare.
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Ingredienti:
600 gr. Spinaci
Sale
Olio evo
Una cipolla rossa piccolo
Uva sultanina (prima ammorbidita in acqua)
Pinoli
Sbollentate appena gli spinaci in pochissima acqua (lasciateli
al dente) e scolateli. In un tegame fate appassire, con poca acqua, la cipolla
tritata finemente.
Quando si è ammorbidita, aggiungete un cucchiaio di olio,
spinaci, uva sultanina e pinoli fatti tostare leggermente in padella. Cuocete a
fuoco lento senza coperchio. Il piatto sarà pronto quando la verdura avrà perso
tutto il liquido.
Inventati nel Cinquecento per
agevolare il passo delle carrozze, pavimentano le strade cittadine. Si tratta
di cubetti di basalto tagliati a forma di piramide tronca. I più grandi
misurano 12x12x18. Detti anche “serci” sono un simbolo di Roma, anche se nemici
di tacchi, di ammortizzatori, di colonne vertebrali e di disabili come il
grande regista Bernardo Bertolucci che, costretto sulla sedia a rotelle, e
residente storico di Trastevere, ha dedicato persino un minuscolo film alla
loro esistenza. La telecamera mostra l’impossibile viaggio di un disabile fra i
sampietrini. Il video dura un minuto e mezzo ed è stato presentato al Festival
di Venezia: “Red Shoes” è il titolo. Nei giorni della rivolta giovanile del
1977 era l’arma impropria preferita dai giovani ribelli. Talvolta c’è modo di
imbattersi in un sampietrino d’ottone, si tratta, in questo caso, delle
cosiddette “pietre d’inciampo”, Stolpersteine: un’iniziativa dell’artista
tedesco Gunter Demnig, nata per indicare le case dove vivevano coloro che furono
deportati e avviati nei campi di sterminio nazisti, sia ebrei sia oppositori
politici.
(Roma vista controvento - Fulvio Abbate)
La pasta e ceci ha origini
antichissime ed ha sempre rappresentato una valida alternativa alla carne e al
pesce, soprattutto per le classi meno abbienti, che non si potevano permettere
tali cibi costosi.
Il poeta latino Orazio così
scrive nelle sue “Satire”:
“…Inde domum me
ad porris et ciceri refero
laganique catinu.”
(“…quindi me ne torno a casa,
al mio piatto di porri, di
ceci e di lagane).
Originari dell’Oriente, si
diffusero prima in Egitto, poi nel bacino del Mediterraneo. Sembra che per i
Romani una preparazione molto apprezzata fosse quella dei ceci fritti nell'olio
di oliva. Il termine “cicer” era anche un soprannome (“cognomen”) dato a chi
aveva sul volto un’escrescenza a forma di cece (probabilmente una verruca) e
anche il celebre oratore Marco Tullio Cicerone era per questo così chiamato. Era
in realtà il soprannome di un suo antenato e quando Marco Tullio presentò la
sua candidatura, per la prima volta, ad un ufficio pubblico, gli sconsigliarono
di utilizzare quel “cognomen”, ma lui rispose che “avrebbe fatto sì che
diventasse più famoso di quello degli Scauri e dei Catuli”.
Per quanto riguarda la pasta e
ceci alla romana, la differenza, rispetto alle altre versioni, sta nell'aggiunta
di alici nel soffritto.
(Taccuini grastosofici. It – Wikipedia)
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Ingredienti:
400 gr ceci cotti (secchi 250 g) (i ceci secchi vanno lasciati
almeno 12 ore in ammollo)
Rosmarino, salvia, spicchio aglio, peperoncino
Olio evo
Un paio di cucchiai di passata di pomodoro
4 Acciughe dissalate e diliscate
Sale e pepe
Cannolicchi
In un tegame capiente preparate un soffritto con olio evo,
aglio, salvia, rosmarino e un po’ di peperoncino, il tutto tritato finemente (tranne l'aglio, che io tolgo dopo aver insaporito l'olio). Dopo due minuti, unire le
alici e fatele disfare, poi aggiungete la conserva di pomodoro. Fate insaporire
per 10 minuti, versate nel tegame i ceci con la loro acqua di cottura. Appena riprende
l’ebollizione, prima di calare la pasta, passate al passaverdure una parte dei
ceci, per avere una minestra più densa. Versate, infine, i cannolicchi e
terminate la cottura (se necessario aggiungete altra acqua calda prima di
calare la pasta). Servite con un filo di olio evo e abbondante pepe macinato
fresco.
(La Romanesca: cucina popolare e tradizionale romana)
"se insisti e resisti, raggiungi e conquisti"
(Trilussa)
Carlo Alberto Salustri nasce a
Roma il 26 ottobre 1871, da un cameriere di Albano Laziale, Vincenzo e una
sarta di Bologna, Carlotta Poldi. La famiglia, di modestissime condizioni
economiche, prende casa in via del Babuino. Ma, nel giro di pochissimi anni, muore
la sorellina, di soli tre anni, per difterite (nel 1872), e il papà (nel 1874).
La famiglia viene aiutata dal Marchese Ermenegildo
De’ Cinque Quintili, presso il quale aveva lavorato Vincenzo, nonché padrino di
battesimo di Carlo Alberto. Mamma e figliolo si trasferiscono, dunque, nel
palazzo del nobile romano, in piazza di Pietra. Carlo Alberto non è uno
studente esemplare e a 15 anni abbandona gli studi, continuando a studiare da
autodidatta. Amante della poesia, soprattutto
quella popolare, ha un incredibile talento nell'improvvisazione di versi in
rima e nella loro declamazione. Nel 1887 la redazione de “il Rugantino”,
diretto da Luigi (Gigi) Zanazzo, pubblica il suo primo sonetto in dialetto
romanesco “L’invenzione della stampa” che firma con lo pseudonimo Trilussa,
ricavato dall'anagramma del suo cognome. Inizia la sua collaborazione al “Rugantino”
come giornalista, ed è proprio osservare la quotidianità che lo porta a
scoprire un particolare talento nella narrazione in versi. Con arguzia scettica
e disincantata, Trilussa ha commentato circa cinquant'anni di cronaca romana e
italiana, dall'età giolittiana agli anni del fascismo e a quelli del dopoguerra.
Scrive su testate importanti quali il “Don Chisciotte” e “il Messaggero”. La sua
prima raccolta è “Stelle di Roma” di carattere piuttosto folcloristico; seguono
poi “Quaranta sonetti”, “Favole romanesche”, “Caffè concerto”, “Er serrajo”, “Ommini e bestie”, “Le storie”, “Lupi
e agnelli”, “Le cose”, “La gente”. Venti giorni prima della morte,
fu nominato dal presidente Einaudi senatore a vita per alti meriti in campo
letterario e artistico. Nella sua casa-studio di via Maria Adelaide, 17,
assistito dalla fedele governante Rosa, Carlo Alberto Salustri - in arte
Trilussa - si spegne il 21 dicembre 1950, all'età di 79 anni. Dopo la morte, Mondadori riunisce
in unico volume le sue opere che pubblica col titolo "Tutte le
poesie", nel 1951.
(Biografieonline.it)
"O te magni sta minestra
o te butti dalla finestra"
Elemento
importante della cucina romanesca è la minestra, piatto che per secoli è stato
per le classi povere o poco abbienti (contadini, artigiani, piccola borghesia)
il principale nutrimento di intere generazioni. Il termine minestra deriva dal verbo “minestrare” (amministrare). La persona
più importante della famiglia aveva, infatti, il compito di fare le porzioni,
mettendo la pietanza con il mestolo nei piatti di tutti gli altri. Le prime minestre
furono le “pultes” dei Romani, polente di farro, fave, orzo. Nel Medioevo
comparvero le “zuppe”, chiamate così perché su fette di pane “zuppo” di sughi o
condimenti (faceva le veci del piatto) erano appoggiati gli altri alimenti del
pranzo (formaggio, pezzi di carne, pesce). La cucina romanesca è ricca di minestre. In questo periodo nell'orto nostrano abbonda un ortaggio che non ha certo bisogno di presentazioni: il Broccolo Romanesco. Piccolo capolavoro di forma e sostanza, il re della campagna romana, ha catturato l'attenzione degli scienziati per via delle leggi matematiche che sottostanno alla sua struttura. Si tratta infatti di uno dei migliori esempi in natura di "frattale", termine con cui ci si riferisce a una struttura geometrica capace di ripetersi uguale a se stessa su scale diverse. Inoltre, studi approfonditi hanno dimostrato che il numero di "rosette" presenti su ogni pianta rientra nella celebre serie di Fibonacci, sequenza di numeri interi naturali in cui ciascun numero è la somma dei due precedenti.
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La versione originale di questa minestra trova come ingrediente l'arzilla, ma molto usate erano anche le acciughe ed è questa la versione che vi propongo.
Ingredienti:
Ingredienti:
Un broccolo romanesco grande
200 gr Cannolicchi
Brodo vegetale
Passata di pomodoro un bicchiere
Carota
Sedano
Cipolla
3/4 acciughe diliscate e dissalate
Olio extravergine
Sale
Pepe
Pecorino romano
In un tegame capiente far
soffriggere l’olio con la cipolla, il sedano e la carota tritati finemente,
insieme alle acciughe fino a farle
sciogliere. Unire il broccolo lavato e tagliato a pezzi, fare insaporire e
aggiungere la passata di pomodoro. Coprire il tutto a filo con il brodo vegetale,
regolare di sale e pepe e cuocere per almeno 40 minuti a fuoco moderato con il
coperchio. Alzare il bollore, calate la pasta, fate cuocere il tempo necessario,
quindi servite con un filo d’olio e una spolverata abbondante di pecorino
romano.
Al civico 24 di via dei Banchi
Vecchi, troviamo palazzo Crivelli, una costruzione chiamata da sempre dai romani
“palazzo dei pupazzi” per le decorazioni a stucco che la caratterizzano. Era la
residenza di un ricco orefice milanese, Gian Pietro Crivelli, che la fece
costruire a metà del Cinquecento da un architetto di cui non conosciamo il
nome. L’orafo fece scolpire sulla facciata una scritta che lo indicava come il
proprietario dell’edificio:
IO, PETRUS CRIBELLUS MEDIOLANEN(SIS)
SIBI AC SUIS A FUNDAMENTIS EREXIT
(GIAN PIETRO CRIVELLI MILANESE
ERESSE DALLE FONDAMENTA PER SE’ E PER I SUOI FAMILIARI)
Il palazzo si fa notare per la
sovrabbondanza degli stucchi che lo decorano, tutti fatti per celebrare il
committente. Frutta, aquile, leoni, scudi, corazze, grotteschi mascheroni,
teste leonine. In origine, sulla facciata si potevano vedere anche gli stemmi
dei pontefici di cui ora rimangono solo le diciture (Giulio II, Paolo III e
Urbano III antenato del proprietario). Al secondo piano gli stucchi raffigurano
candelieri retti da puttini e coppie di satiri che sorreggono festoni vegetali.
Infine, all’ultimo piano, due bassorilievi riportano due episodi accaduti sotto
Paolo III: Carlo V che bacia il piede al papa e Paolo III che riconcilia Carlo
V e Francesco I a Nizza. Insomma, un trionfo di figure, un po’ di tutti i tipi.
Palazzo dei Pupazzi è, insieme a Palazzo Spada, l’unico esempio a Roma di
palazzo con facciata decorata da stucchi.
(Guida alle curiosità - lungo la via Giulia)