L'Ara Pacis

aprile 20, 2020


Dopo Caio Giulio Cesare, ecco arrivare Caio Giulio Cesare Ottaviano e un’altra guerra. Il nemico questa volta è Marco Antonio e con lui c’è quella che la stampa romana chiama “la puttana d’Egitto”. Lo scontro si chiude ad Azio: fine dei nemici, fine della Repubblica, anche se nessuno sembrò accorgersene. Per capire come sia stato possibile, basta guardare alla biografia di questo sconosciuto giovinetto malaticcio, che era stato capace di mettere nel sacco Cicerone e di servirsi delle capacità sue e altrui per prendere e consolidare il potere. Con la guerra affidata al valoroso Agrippa e la stampa in mano al sapiente Mecenate, Ottaviano creò un impero e divenne l’Augusto, il consacrato.


Il secolo in cui visse divenne il Saeculum Augustum, il secolo della pace e della ritrovata abbondanza, la realizzazione di antiche profezie e di secolari attese. Simbolo per eccellenza di questa perfetta commistione di propaganda e comune sentire è l’Ara Pacis. Contrariamente a quanto molti pensano, non fu opera di Augusto, ma fu un omaggio che a lui volle fare il senato, per sciogliere un voto fatto per la sua incolumità. È lo stesso imperatore a raccontarcelo nel suo testamento, laddove ricorda che, al suo ritorno a Roma, dopo le vittoriose campagne in Gallia e Spagna, sotto il consolato di Tiberio Nerone (il suo futuro successore) e Publio Quintilio Varo, ovvero nel 13 a.C., il senato decretò che si dovesse consacrare, nel Campo Marzio, un’ara alla Pax Augustea e che presso di essa i magistrati, i sacerdoti e le vestali celebrassero annualmente un sacrificio. In realtà i senatori avrebbero voluto innalzare l’ara direttamente nella Curia, offrendo all'imperatore anche tutta una serie di altri onori, ma Augusto li rifiutò, accettando solo l’erezione dell’altare nella pianura in cui si svolgevano le esercitazioni dell’esercito e dei giovani romani, nei pressi del suo mausoleo.


Decise anche di rientrare in città di notte, evitando così le invadenti attenzioni di Balbo, che in quei giorni stava inaugurando il suo piccolo, ma sfarzoso, teatro. Il giorno dopo il suo ritorno in città, Augusto depose l’alloro delle sue vittorie sulle ginocchia di Giove Capitolino e offrì a tutti l’uso gratuito delle terme e dei barbieri. Poco dopo fu lui a dedicare un altro teatro, quello che doveva celebrare la memoria del suo amato nipote Marcello.


Mentre il senato si occupava della realizzazione dell’Ara – la cui ispirazione era però perfettamente rispondente alle “linee guida” del programma propagandistico, messo in campo in tutti gli ambiti artistici, da Mecenate e dal suo circolo – l’imperatore promosse l’edificazione dell’Horologiumcui l’obelisco situato ora in Piazza di Montecitorio, fungeva da gnomone.


L’Ara fu dedicata il 30 gennaio del 9 a.C., il giorno del compleanno dell’Augusta Livia. La struttura, che ancora oggi si può ammirare, ravvivata, grazie alle nuove tecnologie, dei suoi colori originali, è racchiusa da un recinto di marmo che riproduce, come si può vedere nella sua parte interna, le palizzate lignee che erano un tempo innalzate intorno agli altari, ornate di ghirlande di fiori e bucrani.


L’esterno è invece diviso in due fasce distinte, con una decorazione figurata nel registro superiore e girali d’acanto tra i quali si muovono ranocchie, serpenti, lucertole e in cui si nascondono nidi d’uccello, in quello inferiore.


Quattro pannelli figurati sono ubicati ai lati delle due porte che si aprono sui lati corti (e che, come mostrano le monete che celebrano il monumento, erano chiuse da imponenti porte a due battenti) e due a fregio continuo con la rappresentazione di un’unica processione (che si immagina come guardata dai due lati di una stessa strada) si snodano sui lati lunghi. Sul lato principale troviamo dunque sulla sinistra un pannello che raffigura il Lupercale (scena di cui si conservano in realtà pochissimi frammenti), con la lupa accucciata sotto il Fico Ruminale, i gemelli, il loro papà “genetico” e quello adottivo e sulla destra Enea che sacrifica ai Penati la povera scrofa, con Ascanio-Iulo e due camilli (chierichetti) presso un altare.


Sul lato opposto ecco la dea Roma seduta su un cumulo di armi nemiche a destra dell’ingresso (il rilievo è assai mutilo, ma molte riproduzioni ci permettono di dedurne l’iconografia) e, sul lato sinistro, la dea Tellus/Pax/Italia/Venus raffigurata seduta con in grembo due paffuti bimbetti, in quello che è un tema assai riprodotto all'epoca e che al di là delle possibili molteplici identificazioni, incarna, in realtà, quel senso di pienezza e abbondanza che ben rappresenta lo spirito del secolo, il secolo della pace ristabilita terra marique da Augusto.


Sui lati lunghi ecco, invece, una sorta di albero genealogico-dinastico della famiglia imperiale. Il corteo non è la riproduzione di un evento reale, come testimonia il fatto che Augusto vi è raffigurato come pontefice massimo, carico che assunse nel 12 a.C., e che al suo fianco c’è Agrippa, che il quell'anno morì, quindi non può trattarsi della processione per il ritorno dell’imperatore del 13 a.C., né quella per la dedicatio dell’Ara nel 9 a.C.


Sul lato sud troviamo i littori, un camillo e il lictor proximus (facile da riconoscere perché è l’unico che da protocollo cammina senza dare le spalle ad Augusto), poi l’imperatore col capo velato, i tre flaminius lictor. Seguono i familiari dell’imperatore: il genero Agrippa (con il capo coperto), il nipotino Gaio Cesare, la figlia Giulia maggiore o Livia, sua moglie, e Tiberio, Antonia Minore, che tiene per mano il piccolo Germanico, seguito dal papà Druso Maggiore, poi Antonia Maggiore e i figli Gneo Domizio Enobarbo (padre di Nerone) e Domizia con suo marito Lucio Domizio Enobarbo, per finire vi è un personaggio che fa cenno di stare in silenzio a bambini di incerta identificazione.


Sul lato settentrionale (in cui la maggior parte delle teste sono frutto di un restauro cinquecentesco) ecco, invece, gli auguri, i quindecemviri sacris faciundis, i septemviri epulones e i rispettivi camilli. A seguire di nuovo i membri della casa imperiale con Lucio Cesare e sua madre Giulia Maggiore, un bambino, Claudia Marcella Maggiore, Iullo Antonio e la piccola Giulia Minore, Claudia Marcella Minore con il figlio e il marito Sesto Appuleio, il console del 14 d.C. L’ara vera e propria si trova all'interno. Essa posa su un podio formato da tre gradini da cui si stacca una rampa di cinque scalini che conducono alla mensa, decorata con scene di sacrificio. Sul pavimento marmoreo che divide l’altare dal recinto esterno restano i fori di scolo che ci ricordano che la struttura si trovava esposta alle intemperie.


Essendo inoltre posta a ridosso del Tevere, - non dove la vediamo collocata oggi, ma dove si erge il palazzo Almagà (già Peretti Fiano) in piazza di San Lorenzo in Lucina – era inoltre soggetta alle continue inondazioni, che periodicamente affliggevano le parti più basse della città, le quali portarono a un costante accumulo di detriti e a un continuo innalzamento di quota. Fu così che l’Ara venne letteralmente risucchiata dal circostante Campo Marzio, fino alla prima metà del Cinquecento, quando iniziarono a circolare incisioni che ne mostravano i dettagli e si iniziò a far commercio dei frammenti, che in quegli anni iniziavano ad essere ritrovati, senza però essere identificati. Seguirono altri trecento anni di silenzio, finché, durante lavori di consolidamento del palazzo di via in Lucina, si rinvennero nuovi avanzi. Fu Friedrich von Duhn a dare una corretta attribuzione a tali resti agli inizi del secolo successivo e fu il proprietario del palazzo, che in uno slancio di generosità, pagò le spese per il recupero, facendo dono del prezioso monumento allo Stato. Date le difficili condizioni dello scavo non fu però possibile dissotterrare l’intera struttura. Solo nel 1937, in occasione del pubblicizzatissimo Bimillenario della nascita di Augusto, si decise di riprendere i lavori di recupero. Poiché non era possibile conservarne l’originale collocazione, si provvide allora a ricostituire la struttura lì dove oggi si trova per farne l’attrazione della chiusura del Bimillenario, il 23 settembre 1938. La teca che la custodiva doveva essere provvisoria, una "provvisorietà" italiana ovviamente, durata fino alla realizzazione della teca di Mejer nel 2006. Le infinite polemiche seguite alla scelta del luogo e all'estetica della teca qui interessano poco, certo che la vicinanza con il mausoleo resta suggestiva ed evocativa, tanto più che uno dei temi cardine dell’Ara Pacis è proprio il problema, drammaticamente sentito da Augusto, della successione. Molti dei personaggi eternati nel marmo riposavano un tempo proprio lì, nella tomba dinastica dei Giulii.


L’Ara Pacis resta una maestosa sintesi di pietra del secolo di Augusto: con il richiamo ai miti della fondazione, alla discendenza da Iulo, al ruolo che l’imperatore fece proprio di novello Romolo, con Roma che sedeva trionfante su un mondo piegato e pacificato e faceva sbocciare ovunque nuova vita, nuova ricchezza, quella di un’età dell’oro che si schiudeva al mondo. Per tutto il resto della sua vita Augusto fu impegnato a far crescere questo mito di felicità e pienezza di cui, dopo anni di guerre civili, i Romani avevano tanto bisogno da finire per crederci entusiasticamente.



(Flavia Calisti – La storia di Roma in 100 luoghi memorabili)


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