11° ITINERARIO - RIONE VII REGOLA ( PRIMA PARTE)

gennaio 03, 2022

Totale percorso Km. 2,05 questa la mappa


Il nome del rione deriva dalla “storpiatura” del termine “renula”, cioè la sabbia che restava nelle strade, quando le acque del Tevere, dopo le inondazioni, si ritiravano. Anche il nome della via principale che lo attraversa, via Arenula, ha la stessa origine. Una parte di esso comprende l’antico ghetto ebraico e da qui inizio il mio itinerario, precisamente dalla Piazza delle Cinque Scole.
Recentemente restaurata con la totale sostituzione dei sampietrini, è, secondo me, una delle più affascinanti di questa parte della città. Ora poi che anche la fontana è stata “liberata” dall'invasione di macchine e motorini, ha acquistato tutto un altro aspetto. Il nome della piazza si riferisce ad un edificio nel quale erano istituite cinque diverse congregazioni, corrispondenti a diverse correnti dell’ebraismo. Questo espediente fu adottato per aggirare al divieto che impediva agli ebrei del Ghetto di edificare più di una sinagoga. Le cinque “scholae” erano la Siciliana, la Catalana, la Castigliana, la Scola Nuova e la Scola del Tempio. La fontana al centro della piazza fu invece fatta edificare da papa Gregorio XIII, nel 1591, su disegno di Giacomo della Porta, per beneficiare anche gli ebrei con l’acqua e con un elemento di abbellimento nel Ghetto.
In origine, però, la fontana non si trovava nella collocazione attuale, ma spostata di qualche metro, precisamente in via del Portico di Ottavia, (di fronte alla famosa pasticceria "Boccione")  dove a ricordo dell'antica posizione è stato riprodotto il disegno della sua pianta a terra.
Accanto ad essa era posizionato un palo, dove venivano giudicati gli ebrei che commettevano reato e dove i lori beni venivano messi all'asta. Il nome della fontana però, conosciuta come “fontana del pianto”, non è dovuto alla tristezza che tali situazioni suscitavano, ma alla vicinanza della Chiesa S. Maria del Pianto. In questo caso, il nome deriva da un’immagine della Madonna, ritenuta miracolosa, perché sembra aver pianto quando un uomo venne accoltellato davanti ad essa o, secondo altre versioni, per il dispiacere della mancata conversione degli ebrei al cristianesimo! In realtà la vicenda alla quale si riferisce, riguarda due giovani che, nel gennaio del 1546, sotto Paolo III, stanno litigando nei pressi del vicino Arco de Cenci e dalle parole passano alle armi. Uno dei giovani atterra l’altro il quale, vistosi perduto, scongiura l’amico di risparmiarlo, in nome della Vergine Maria, raffigurata in un affresco sotto l'arco. L’amico, a tale invocazione, getta il pugnale a terra e aiuta il rivale ad alzarsi, ricevendo in cambio una coltellata: “et in premio d’avergli donata la vita, empiamente l’uccise”.  “A sì inumano spettacolo, la Santa immagine scaturì per gli occhi abbondantissime lacrime. A sì esecranda tragedia, trovandosi spettatore, un sacerdote spagnolo raccolse le pietose lacrime, che per il muro scorrevano in un fazzoletto”.
L’affresco venne quindi staccato dal muro e portato nella chiesa preesistente di San Salvatore in Cacaberis, dal nome dei caccabari, cioè calderari, che qui svolgevano la loro attività. Si costituì, nello stesso anno, la confraternita di Santa Maria del Pianto, che ebbe in cura la chiesa di S. Salvatore. Nel 1608 fu necessario ampliare la vecchia chiesa, costruendo la nuova, che venne dedicata a S. Maria del Pianto. È una chiesa che si nota poco, (visto che è priva della facciata), se non fosse per la sua caratteristica cupola che si presenta, all'esterno, completamente inglobata in un tiburio ottagonale, coperto di tegole, su cui si trovano quattro finestre rettangolari ed un orologio circolare.
L’interno è a croce greca, di solenni proporzioni. All'inizio della navata si trova lo stendardo che raffigura il "Miracolo dell’immagine piangente della Madonna" e la "Vergine in gloria", opera di Lazzaro Baldi, autore anche della "Madonna e Santi" nella crociera di destra. Sull'altare maggiore è conservato il venerato affresco della Madonna del Pianto. Dalla parte opposta troviamo il palazzo Cenci-Bolognetti, che fa parte delle varie proprietà che aveva la famiglia Cenci in questa zona.
Adiacente al palazzo si inerpica, infatti, via Monte de Cenci, una piccola altura formata sulle rovine di una parte del “Circo Flaminio”, dove si trova l’ingresso principale della residenza dei Cenci, anche se la parte più caratteristica è considerata la posteriore, quella che affaccia su Piazza Cenci, perché, secondo la tradizione, era lì che abitava Beatrice. La sua triste storia sconvolse Roma alla fine del Cinquecento. Figlia di Francesco Cenci, ultimo esponente di una nobile e influente casata, uomo arrogante, brutale e perverso, arrivò ad organizzare l’omicidio del padre, per sfuggire alle sue continue violenze, probabilmente anche di carattere sessuale. 
Il delitto fu compiuto materialmente dai due domestici Olimpio Calvetti e Marzio da Fioran, con la complicità della matrigna Lucrezia e dei fratelli Giacomo e Bernardo. Fu goffamente mascherato da incidente, ma venne presto scoperto. Gli esecutori e i mandati furono arrestati e condannati alla tortura e alla morte. L’esecuzione avvenne l’11 settembre 1599, di fronte a Castel Sant'Angelo, con enorme partecipazione di popolo, contrario a una sentenza capitale ingiusta e impietosa. Maggiori dettagli di tutta la storia nel mio post “Beatrice Cenci” nella sezione S.P.Q.R. di questo blog. 
Da Piazza Cenci arrivo in via Arenula, l’arteria principale del rione, l’attraverso e vado verso piazza Benedetto Cairoli, piccola piazzetta formata principalmente da giardinetti, 
Domina la piazza la Chiesa di San Carlo ai Catinari, appartenente però al Rione S. Eustachio. Mentre affaccia sui giardini il bellissimo palazzo Santacroce, costruito a più riprese dal 1598 al 1668. Il progetto fu di Carlo Maderno, su incarico di Onorio Santacroce e vi lavorò fino al 1602. Venne, però, interrotto per la condanna a morte del nobile, accusato di aver istigato il fratello Paolo a uccidere la loro madre, per motivi di interesse. La costruzione riprese nel 1630, ad opera di Francesco Peparelli che vi lavorò fino al 1640, per conto di Valerio Santacroce.
Sarà poi il cardinale Marcello ad incaricare Giovanni Antonio de Rossi, fra il 1659 e il 1668, di eseguire ulteriori lavori, fra i quali la facciata su via dei Catinari, che venne unita, tramite un arco, a palazzi preesistenti sull'altro lato della strada, da utilizzare come alloggi per la servitù. Bellissima la fontana situata nel cortile: la mitologica Venere che esce da una conchiglia sorretta da delfini e da putti, inserita in una nicchia racchiusa in un’alta edicola ad arco sostenuto da pilastri con telamoni e sopra lo stemma cardinalizio dei Santacroce.
Percorro via degli Specchi, dal nome della famiglia proprietaria del palazzo al civico 17 e dalla quale nacque il famoso Alessandro, autore del progetto della scalinata di Trinità dei Monti, che venne poi ripreso da Francesco De Sanctis, di palazzo del Gallo di Roccagiovine e delle scuderie del Quirinale. Arrivo in piazza del Monte di Pietà, dal nome del palazzo che la domina. Il Monte dei Pegni fu un’istituzione fondata nel 1527, per contrastare l’usura. Il palazzo, costruito nel 1588 dal Mascherino per il cardinale Prospero Santacroce, consisteva nella sola parte centrale. Passò successivamente ai Petrignani di Amelia, per essere infine venduto, nel 1603, al Monte di Pietà. Iniziò allora l’ampliamento ad opera di Carlo Maderno, con l’aiuto del Borromini. Fu prolungata l’ala destra della facciata, fino alla via dell’Arco del Monte. Sulla facciata è situata una bellissima edicola, disegnata dal Maderno, che riproduce Gesù nel sepolcro, fra gli stemmi di Paolo III Farnese e Clemente VIII Aldobrandini: uno, fondatore del Monte, l’altro acquirente del palazzo, come sede del Monte. Al di sotto dell’edicola una targa recita: “Il sommo pontefice Clemente VIII, affinché la ristrettezza dei locali non impedisse l’espansione dell’attività in via di incremento, trasferì il Monte di Pietà, istituito a favore dei poveri, dalla sede acquistata dal pontefice Sisto V (quella in via dei Coronari) in questa più ampia e dotò di maggiori benefici, nell'anno della cristiana salvezza 1604, tredicesimo del suo pontificato, sotto il protettorato del cardinale Pietro Aldobrandini”.
All'interno fu eretta una cappella, inizialmente commissionata a Francesco Peparelli nel 1639, a cui subentrò successivamente Giovanni Antonio De Rossi, e conclusa nel 1730 da Carlo Francesco Bizzaccheri. Entrando si resta senza parole! Bassorilievi e statue in marmo bianco di Carrara risaltano fra i marmi rossi e verdi di Sicilia e gialli dell’Asia Minore. La cupola è interamente ricoperta di stucchi dorati che, illuminati dalla luce artificiale delle lampade e da quella che entra dalle finestre, producono un bagliore sfolgorante.
Nei medaglioni realizzati da Michele Maglia, Lorenzo Ottoni e Simone Giorgini, sono raffigurate scene relative alla nascita del Monte di Pietà. Sulla volta, prima di entrare nella cappella vera e propria, un meraviglioso rilievo del Padre Eterno, circondato da angeli di Michele Maglia; sulla parete in fondo sopra l’altare, una pala in marmo di Domenico Guidi, rappresenta la scena della Pietà, in cui la Vergine cinge tra le sue braccia le spoglie del Figlio con drammatica espressione. Altre meravigliose statue, di impronta molto berniniana, sono ai lati dell’altare e rappresentano le virtù: la Fede, la Speranza e la Carità, a cui si aggiunge l’Elemosina, per evidenziare il carattere assistenziale dato dalla Confraternita ai bisognosi.
Esco dalla Cappella e mi soffermo per una foto alla bella fontana addossata alla parete, anch'essa del Maderno e al curioso orologio, che non segna mai l’ora esatta. Una leggenda narra che l'orologiaio, lamentando il fatto di non essere stato pagato, o almeno non quanto pattuito, manomise i complicati congegni facendo in modo che non potesse essere mai ripristinata l’ora esatta.
Fece anche incidere sull'orologio questi versi: “per non esser state a nostre patte, Orologio del Monte sempre matte”. La scritta fu cancellata dalle Autorità, ma l’orologio non segna comunque mai l’ora esatta.
Mi dirigo verso il lato destro del palazzo e prendo via dell’Arco di Monte, così chiamata dall'Arco che unisce il Monte dei Pegni al Palazzo Barberini ai Giubbonari, acquistato nel 1759 per farne la Depositeria Generale della Camera Apostolica e Banco dei Depositi. Era così chiamato per distinguerlo da quello che poi costruiranno in via delle Quattro Fontane, ma era detto anche “Casa Grande”. Fu iniziato nel 1591 e rimase proprietà dei Barberini fino al 1734 quando fu venduto ai Carmelitani Scalzi. Passò poi, come detto sopra, al Monte di Pietà al quale fu collegato con l’arco. Nel 1870 divenne proprietà del Comune di Roma, che vi istituì una scuola elementare, nella parte che affaccia su via dei Giubbonari e un istituto di scuola secondaria in via Arco di Monte. Arrivo direttamente in piazza della SS. Trinità dei Pellegrini, dove, oltre un orribile parcheggio al centro della piazza, c’è la grande chiesa che le dà il nome. 
Fu un regalo che papa Paolo IV fece alla arciconfraternita dei Pellegrini e Convalescenti fondata nel 1548 da San Filippo Neri, il “Pippo Buono” tanto caro ai romani. In origine era dedicata a S. Benedetto de Arenula, di cui si hanno notizie fin dal XI secolo. Quando venne affidata all'arciconfraternita cambiò il nome in SS. Trinità dei Pellegrini e venne ricavato, riducendo le dimensioni della chiesa, anche un complesso dove poter ospitare i pellegrini che affluivano a Roma durante gli anni giubilari e aiutare coloro che si ammalavano. Fu ricostruita nel 1603/1614 su disegno di Giovanni Paolo Maggi, mentre la facciata realizzata nel 1723 è di Francesco de Sanctis, l’architetto che insieme ad Alessandro Specchi, ha realizzato la scalinata di Trinità dei Monti. Le quattro statue nelle nicchie sono degli Evangelisti.
L’interno a croce latina, con navata centrale e tre cappelle per lato, ospita numerose sculture e affreschi, come quelli di Guido Reni, “Padre Eterno ed Angeli” posto nella lanterna della cupola e “La Santissima Trinità” sull'altare maggiore.
Alla Chiesa era annesso un grande ospizio, costruito nel 1625 per l’assistenza ai pellegrini del Giubileo, che durante la difesa della Repubblica Romana, venne trasformato in ospedale militare, dove trovarono la morte Goffredo Mameli ed altri valorosi, come ci ricorda la targa sulla facciata dell’edificio.
A destra della chiesa percorro via dei Pettinari, una di quelle strade a metà tra il fascino e il degrado, con importanti dettagli che richiamano il periodo Quattro/Cinquecentesco, come il palazzo Salomoni Alberteschi, che riconosciamo dai due grandi portali ai civici 81 e 84, decorati con teste di leone e nodi di Salomone che affiancano la scritta D(OMUS) SALOMONIA ALBERTISCORUM.
Il nome della via è dovuto alla presenza di coloro che fabbricavano pettini, sia per capelli, (realizzati in avorio o ebano), che per pettinare, durante la lavorazione, i lini e le sete, (realizzati in legno). Arrivo fino all'angolo con via delle Zoccolette e svolto nella via. Subito sulla parete di destra, in alto, mi colpisce una strana edicola: in una cornice seicentesca di stucco rettangolare è racchiuso un affresco che raffigura al centro una Madonna con il bambino. Ai suoi lati due santi di cui quello a sinistra è S. Antonio Abate, mentre quello a destra, a causa del deterioramento dell’affresco, non è più riconoscibile. Sotto l’edicola una targa ci ricorda che in questo edificio fu fondato il primo nucleo di quello che poi sarebbe diventato l’attuale Ospedale Pediatrico Bambin Gesù, ad opera dei duchi Scipione e Arabella Salviati nel 1869.
Tutto l’edificio faceva parte del complesso dell’Ospizio dei Mendicanti, voluto da Sisto V e costruito da Domenico Fontana nel 1587, dove trovavano ricovero mendicanti, donne, zitelle e anziani. Nel 1715 poi, un’ala del palazzo fu destinata ad accogliere il Conservatorio delle Zoccolette, da cui deriva il nome della via. Il termine deriva da una specie di calzari, somiglianti agli zoccoli, utilizzati dalle orfanelle che qui venivano accolte per salvaguardare la loro onestà, insegnando loro un mestiere da svolgere una volta che, diventate maggiorenni, sarebbero uscite dal conservatorio.
Ma visto che in molte, poi, invece, finivano sulla strada, forse il termine “zoccola”, che in romano sta ad indicare la prostituta, potrebbe derivare proprio da qui. Da via delle Zoccolette svolto a sinistra in via del Conservatorio, toponimo sempre riferito all'Istituto suddetto e arrivo in Via di San Paolo alla Regola. Su questa via, pochi passi dopo aver svoltato a sinistra, troviamo l’insula romana di San Paolo alla Regola.
Durante dei restauri effettuati negli anni 1978-82, dal Comune di Roma, nel cinquecentesco palazzo Specchi, vennero alla luce delle strutture, perfettamente conservate, relative a edifici di epoca romana e medievale. Facevano parte, probabilmente, degli Horrea Vespasiani, una serie di magazzini che, al tempo dell’imperatore Domiziano, erano strettamente connessi con le attività portuali e commerciali che si svolgevano sul Tevere. Si sviluppano per ben quattro piani di altezza, due al di sotto dell’attuale livello stradale. Il livello più basso è situato ad otto metri di profondità e presenta due ambienti affiancati uguali, perfettamente conservati, in opera laterizia e con volte a botte. Successivamente, in età severiana, questi ambienti vennero radicalmente ristrutturati, con la costruzione di nuovi magazzini, ma anche di abitazioni o uffici, organizzati intorno a piccole corti che, in alcuni casi, raggiunsero fino ai quattro piani di altezza. Nel XII secolo, sulle strutture romane, fu costruita una casa-torre, che è ancora visibile dietro Palazzo Specchi. Torniamo leggermente indietro sulla via e arriviamo in piazza di San Paolo alla Regola, dove affaccia la chiesa omonima. Secondo la tradizione, la chiesa sorge sul luogo della casa dove San Paolo abitò nel periodo in cui si trovava a Roma.
Fu ricostruito nel 1687 dall'architetto Giovanni Battista Bergonzoni e completata nel 1728 con la facciata di Giuseppe Sardi e Giacomo Cioli che, con il suo movimento concavo-convesso, richiama molto il borrominiano oratorio dei Filippini. L’interno è a croce greca e conserva, trasformata in cappella, quella che fu la stanza del Santo.
 Nel fondo si trova una grande abside affrescata con "Storie della Vita di San Paolo" di Luigi Garzi. 
All'uscita della chiesa, andiamo a destra proseguendo su via di San Paolo alla Regola e arriviamo in via di Santa Maria in Monticelli, toponimo, anche in questo caso, derivante dall'omonima chiesa che vi prospetta.
Così denominata perché costruita su ruderi dell’antico Tempio di Nettuno. Non si sa bene l’anno della sua fondazione. Si conosce la data del suo primo restauro, o ricostruzione, sotto Pasquale II (1099-1118) durante il quale fu edificato il meraviglioso campanile romanico che, sicuramente più alto in origine, fu poi abbassato probabilmente per motivi di stabilità.
A pianta quadrata, quattro piani, presenta al primo e secondo piano bifore a pilastro, al terzo piano trifore a pilastro e al quarto sempre trifore ma a colonnette. È l’unico elemento che rimane dell’antica chiesa, ricostruita ancora nel 1716 da Clemente XI ad opera di Matteo Sassi, e di nuovo nel 1860 sotto Pio IX da Francesco Azzurri. L’interno è a croce latina con tre navate divise da pilastri che inglobano le antiche colonne di marmo.
Ogni lato ha tre cappelle dove, nella seconda a destra, si conserva la “Flagellazione di Cristo” attribuita ad Antonio Carracci, mentre nella seconda a sinistra un Crocefisso ligneo del Trecento attribuito a Pietro Cavallini. L’altare maggiore è ricco di marmi pregiati, nell'abside si conserva ancora un frammento di un mosaico del XII secolo con il volto del Redentore. La facciata settecentesca è di Matteo Sassi. All'uscita dalla chiesa ci ritroviamo praticamente di nuovo su via Arenula e termina questa prima parte del nostro itinerario. 








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