Le statue parlanti di Roma

maggio 15, 2020


A partire dal Cinquecento fino al 1870 (e in minima parte ancora ai nostri giorni) a Roma esistevano sei “Statue parlanti”: Pasquino, Marforio, il facchino, Madama Lucrezia, il babuino e l’abate Luigi, che parlavano a nome del popolo, ospitando sul loro piedistallo gli sfoghi di critica al potere e denuncia delle ingiustizie, che chiunque poteva lasciare anonimamente. Antiche divinità, eroi epici, orribili satiri o semplici facchini, per quattro secoli costituirono “il congresso degli Arguti”, ovvero il più grande partito di opposizione della Roma papalina. Poco conto chi, nell'ombra della notte, vi affiggesse sopra i libelli in latino e in volgare, o in versi poetici anche di raffinata fattura. La statua di turno non faceva altro che riportare gli umori, i pettegolezzi, le frasi taglienti, le proteste, le battute fulminanti che venivano dalla gente di strada, dai vicoli, dalle botteghe o anche da personaggi vicini alle alte sfere papali. L’anonimato, del resto, era indispensabile, per non incorrere nelle ire della giustizia, assai poco tenera con i “calunniatori” del potere. A volerle cercare oggi nessuna manca all'appello. Sonnecchiano, tra uno sbadiglio e l’altro, agli angoli delle strade, spesso soffocate dal traffico del centro e dalle automobili in sosta. Il primo a cominciare questo curioso dialogo in città fu Pasquino, poi, quando il popolo sentì il bisogno di un interlocutore alle affermazioni della statua, cominciarono ad apparire bigliettini anche sotto la gigantesca statua di Marforio, e via via anche sotto agli altri. Eterno brontolone, sempre rapido a imprecare contro tutti, con battute sagaci e pungenti, sincero fino alla spietatezza nel mettere in piazza vizi e abusi dei potenti, Pasquino interpreta il gusto della satira, dello sberleffo irriverente, della costante presa in giro tipicamente romana.


Leader indiscusso delle statue parlanti, voce del popolo e del dissenso (anche più colto) e maestro della comunicazione, Pasquino è ancor più geniale in quanto, essendo una statua, sarebbe privo di parola. Eppure, nei secoli ha parlato e ne ha cantate a tutti: nobili, potenti, cardinali e, soprattutto, papi. In un’epoca in cui i mezzi di comunicazione di massa ancora non esistevano, lui ha parlato per tutti i romani, interpretandone pensieri, malumori e risentimenti. Più immediato ed efficace di Twitter. Chi vive a Roma certamente sa, o almeno dovrebbe sapere, dov'è Pasquino. La collocazione della statua spiega anche qualcosa della sua storia. Fu ritrovata nel Cinquecento, durante gli scavi delle fondamenta di quello che oggi è palazzo Braschi, dove all'epoca si era stabilito il cardinale Oliviero Carafa, grande mecenate e cultore delle arti.


Entusiasta del ritrovamento di questo frammento di un gruppo scultoreo, decise di sistemarlo addossato ad un angolo del suo palazzo di piazza Navona, ignaro di averlo messo su un palcoscenico. La statua proviene probabilmente dalla facciata dello stadio di Domiziano, che un tempo qui sorgeva e che, come il Colosseo, aveva le arcate decorate di statue, come si può ben vedere da un dettagliatissimo aureo coniato al tempo di Settimio Severo. Ancora oggi si trova nella piazza cui dà il nome, all'angolo di palazzo Braschi e, sebbene meno prolissa di un tempo, talora continua a lanciare alcune delle sue celebri pasquinate. Anche se ora è molto rovinata, all'epoca fu oggetto d’ammirazione da parte di grandi artisti, tra cui Michelangelo e Bernini, e fu identificata come Menelao che trascina il corpo di Patroclo morente. Il frammento era un tronco informe primo di braccia e gambe, senza naso, né mento, eppure rivelò presto di possedere una lingua più affilata della spada di Achille. Sull'origine del nome, mille illazioni e nessuna certezza: chi dice che fosse quello di un barbiere, chi di un sarto, chi di un maestro, tutti orbitanti intorno al luogo del ritrovamento. Chiunque fosse, è entrato nella storia. Dal 1501 Pasquino ha cominciato a dire la sua, sparando battute pungenti a raffica in un’epoca in cui era impossibile esprimere liberamente le proprie idee, figuriamoci il dissenso. Le “pasquinate” affisse sulla statua sono proseguite, commentando i momenti salienti della storia di Roma, fino alla fine dell’Ottocento. Poi solo qualche sporadica lamentela e niente di più. Tante le “pasquinate” degni di memoria, che davano voce al dissenso del popolo vessato dai soprusi di nobili e prelati. Il primo bersaglio fu l’uomo potente dell’Urbe: il papa, nella fattispecie Alessandro VI Borgia, che si beccò questo estremo saluto: “Qui giace Alessandro VI. È sepolto con lui quanto venerò: il lusso, la discordia, l’inganno, la violenza, il delitto”. Famosa la lapidaria sentenza emessa nei confronti della famiglia di papa Urbano VIII, i Barberini, quando colpevoli di aver utilizzato, nel 1633, le rimanenti parti bronzee del Pantheon per realizzare il baldacchino di San Pietro, così vennero sistemati: “Quello che non fecero i barbari, lo hanno fatto i Barberini”, geniale sintesi dell’atteggiamento da padroni delle famiglie nobili romane. I papi erano il bersaglio principale di Pasquino e qualcuno pensò anche di metterlo a tacere gettandolo nel Tevere, salvo poi ripensarci per evitare la rivolta. Tra questi, anche il rigido e rigorosissimo Adriano VI. Dato che si può far tacere una persona, ma non la voce del popolo, la statua si vendicò alla morte del pontefice, tumulato per altro a Santa Maria dell’Anima, a poca distanza da Pasquino: “Papa Adriano è chiuso qui. Fu un tristo: con tutti ebbe a che far, fuorchè con Cristo”.


Non che a Sisto V andò meglio. Reo di tassare il popolo per rifare il look alla città, ecco una delle pungenti battute a lui rivolte: “Fu Neron crudel, maligno e tristo, ma molto più di lui fu papa Sisto”. E pensate che il carattere guerriero di Giulio II sia passato inosservato? “Sbagliò destino, Giulio, a darti le chiavi. Avrebbe fatto meglio a darti le clave”. Neanche le donne furono escluse, soprattutto Donna Olimpia Pamphilj. Vera burattinaia che reggeva i fili di Innocenzo X, ecco come la sistemò: “Chi dice donna dice danno, chi dice femmina dice malanno, chi dice Olimpia Maldachina, dice donna, danno e rovina”. Ovviamente neanche Innocenzo fu risparmiato, ed ecco il suo epitaffio: “Ad Innocenzo decimo, ottimo patrono del fisco e dell’annona massima mercante, che annientò il nepotismo per istituire il cognatismo”. Neppure di fronte a Napoleone la statua si intimorì. E alla morte dell’imperatore, lungi dalla pietà manzoniana, ecco i versi che gli dedicò: “Fu genio onnipotente, fece tremare il mondo, ora è sparito in fondo all’abisso del niente. Ed è morto di male, è morto tale e quale come more un ciociaro, un papa e un pifferaro”. Da un imperatore a un dittatore, una delle ultime, sagaci, pungenti invettive Pasquino l’ha riservata ad Hitler, quando in occasione della sua visita a Roma così espresse, ancora una volta, un pensiero comune: “Povera Roma mia de travertino! T’hanno vestita tutta de cartone, pe’ fatte rimirà da n’imbianchino”.
Quando poi Pasquino si stufava di parlare da solo, cercò una degna spalla e la trovò in Marforio, ovviamente statua come lui. Mollemente disteso su un fianco, perfettamente a suo agio come la Paolina Borghese del Canova, la grande e seriosa statua si trova in una posizione di tutto rispetto, nientemeno che al Campidoglio, nel cortile del palazzo Nuovo ai Musei Capitolini.


Rinvenuta vicino all’arco di Settimio Severo, è probabilmente la rappresentazione della divinità fluviale Oceano. L’origine del nome è incerta, forse si riferisce alla vicinanza con il Mars Fori, il Foro di Marte. Il ruolo di Marforio era quello di spalla, era lui a lanciare la battuta d’avvio, stuzzicando la chiacchierata. Tra gli scambi più divertenti, quelli su Napoleone e i francesi:
Marforio: “E’ vero che i francesi sono tutti ladri?”
Pasquino: “Tutti no, ma Bona Parte!”
Pasquino: “E’ rincarato l’olio, lo sai Marforio?”
Marforio: “No, perché?”
Pasquino: “Non se trova più. Napoleone l’ha consumato tutto per ungere re e friggere repubbliche”.
Tra le statue parlanti di Roma c’è anche una signora: Madama Lucrezia. Per incontrarla, basta congedarsi da Marforio, scendere dal Campidoglio e puntare dritto verso la chiesa di San Marco nell'omonima piazzetta. Incastrato in un angolo tra palazzetto Venezia e la basilica, troneggia un colossale busto di epoca romana, piuttosto danneggiato, probabilmente di una grande statua della dea Iside.


È lo scialle della statua il dettaglio che ha permesso agli studiosi di attribuire questa identità: esso è, infatti, chiuso da un nodo particolare, detto “isiaco”, che riconduce al culto della dea. È l’unica donna della Congrega degli Arguti, a dire il vero la meno loquace. Prima aveva un vicolo tutto suo, sacrificato per far posto a Vittorio Emanuele e all'enorme monumento a lui dedicato. Il nome della Madama non tragga in inganno. Non si riferisce a Lucrezia Borgia, ma a Lucrezia d'Alagno, figlia del castellano di Torre del Greco, favorita del re di Napoli, Alfonso d’Aragona. Alla morte del re, osteggiata dal suo successore Fernando, nel 1457 Lucrezia venne a Roma, accompagnata da un corteo sfarzosissimo. Fu ospite del cardinale Pietro Barbo, futuro Paolo II, a palazzetto Venezia e probabilmente fu proprio il papa a farle dono del busto come omaggio alle sue grazie. La donna era famosa per la sua bellezza e fu per questo che il popolo ribattezzò con il suo nome il busto di marmo che si trovava nei pressi della sua dimora. Come abbiamo detto, furono pochi gli interventi di Madama Lucrezia, come “statua parlante”, ma uno è piuttosto curioso. Durante un tumulto popolare fu fatta cadere a faccia a terra e le fu scritto sulla schiena: “Non ne posso vedere di più!” a commentare questa sua posizione. Nell'Ottocento davanti al busto di Madama Lucrezia si svolgeva, durante il Primo Maggio, una festa molto amata dai romani: il “ballo dei guitti”. Si presentavano davanti al busto di Madama Lucrezia varie coppie formate da un uomo e una donna. La statua veniva addobbata con cipolle, agli, carote e nastri di tutti i colori e la coppia fingeva di sposarsi davanti al busto, come se fosse stata davanti al sindaco o al prete. A matrimonio finito si dava inizio al ballo con cui si scatenava il divertimento della festa, che consisteva più che altro nell'assortimento delle coppie: personaggi cicciottelli o vecchierelli, un po’ gobbi e zoppini, comunque sgangherati, i cosiddetti guitti, che si divertivano a far ridere gli altri ballando sfrenatamente. Poco distante, in un angolo di piazza Vidoni, accanto alla chiesa di Sant'Andrea della Valle, incontriamo un’altra statua parlante, che a volte dialogava proprio con Madama Lucrezia. Si tratta dell’austero Abate Luigi: con la toga a pieghe, una pergamena stretta nel pugno e l’aria severa, raffigurava probabilmente un console romano, anche perché dell’abate non ha davvero l’aspetto.


Non a caso, forse, il campo d’azione delle invettive del console-abate erano proprio la politica e i suoi rivolgimenti. Rinvenuto durante gli scavi delle fondamenta di palazzo Vidoni, fu così chiamato per una sua somiglianza con il sagrestano di una vicina chiesa, un uomo deforme, ma dalla lingua scioltissima. L’abate Luigi fu il più sfortunato tra i sei perché fu sempre preso di mira dalla sassaiola dei monelli e dal furto della sua testa, che sul suo busto cambiò molte volte. Ogni volta sostituita con una diversa scelta tra quelle dei magazzini comunali. Attualmente ne è di nuovo privo. Sul suo piedistallo è presente un’iscrizione che recita: “Fui dell’antica Roma un cittadino, ora Abate Luigi ognun mi chiama, conquistai con Marforio e con Pasquino, nelle satire urbane, eterna fama, ebbi offese, disgrazie e sepoltura, ma qui vita novella e alfin sicura”.
Da un serioso abate-console romano, scendiamo di rango, ma non di ruolo, per incrociare in via Lata, una traversa di via del Corso, una simpatica fontanella addossata al muro di palazzo De Carolis. Si tratta del Facchino, un buffo personaggio che indossa il berretto e il camice dei facchini e dalla cui botticella zampilla acqua.


In passato era collocata nella vicina via del Corso, ma fu spostata qui per salvarla dalle sassate dei monelli e dagli urti delle carrozze. Pare che questa immagine raffiguri un acquaiolo o più probabilmente, un portatore di vino. Alcuni attribuiscono alla figura il nome di Abbondio Rizio, un facchino forte e dedito al bere. In passato la fontana era anche completata da una scritta, oggi sparita, che diceva: “Ad Abbondio Rizio, coronato sul pubblico marciapiede, espertissimo nel legale e soprallegare fardelli, il quale portò quanti pesi volle, visse quanto potè, ma un giorno, mentre portava un barile di vino in spalla e uno in corpo, morì senza volerlo”. La scritta, oltre alla storia di Abbondio, testimonia anche un’antica usanza dei facchini, una specie di rito con cui il nuovo arrivato prendeva possesso del posto di lavoro a lui riservato: gli anziani mettevano sulla testa del nuovo venuto una corona fatta con vegetali (coronato) e gli facevano ripetutamente battere il fondo schiena sul punto del marciapiede che sarebbe diventato quello di sua competenza. Dal Facchino arriviamo al Babuino, ultima delle statue parlanti di Roma, collocata nell'omonima via addossata alla chiesa di Sant'Attanasio dei Greci.


Ironia della sorte, questa statua, che si è fatta beffe di chiunque con le sue “babuinate”, deve il suo nome proprio a una presa in giro nei suoi confronti. In realtà rappresenta un Sileno ghignante, con una zampogna in mano, sdraiato su un fianco al bordo di una fontanella. Solo che è talmente bruttarello da sembrare una scimmia e così è stato ribattezzato “babuino”. Fu reso celebre dalla miopia del cardinale Dazza che, scambiandolo per san Girolamo, non dimenticava mai di ossequiarlo, togliendosi il cappello. Rivale e invidioso di Pasquino, ha parlato fino a poco tempo fa, quando cartelli e foglietti scritti a mano sono stati rimossi perché considerati poco consoni al decoro urbano. Su cosa sia da considerare consono per il decoro urbano, ci vorrebbe una sagace battuta di uno dei membri della Congrega degli Arguti.

(M. Silvia Di Battista - Roma curiosa volume secondo)
(M. Silvia Di Battista - Guida alle curiosità - per le vie del centro)
(M. Silvia Di Battista - Guida alle curiosità - Piazza Navona e dintorni)
(Flavia Calisti - La storia di Roma in 100 luoghi memorabili)
(Giulia Fiore Coltellacci - 365 giornate indimenticabili da vivere a Roma)

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