L'isola Tiberina

novembre 27, 2020


Per quanto sia insolita la presenza di un isolotto in mezzo al Tevere, non è questo che rende speciale l’Isola Tiberina. A Parigi ce ne sono addirittura due di isole nel bel mezzo della Senna: l’Ile de la cité, dove troneggia Notre Dame, e la romantica Ile Sant Louis. A rendere originale la nostra isola, è soprattutto la sua forma e l’avventurosa storia che c’è dietro.


Vista dall’alto di Ponte Garibaldi, infatti, l’Isola Tiberina, ha l’aspetto di una nave e la stranezza è che quest’isola di fatto è una nave, che da secoli solca il Tevere attraccata alla sua originaria missione e così doveva apparire anche agli antichi romani, visto che in una gigantesca nave marmorea, appunto, cercarono di trasformarla. Ma come si è formata quest’isola? La storia affonda le sue radici nella leggenda e in questo caso, anche in più di una. 


Secondo una versione, l’isola si sarebbe formata nel lontano 510 a.C. quando i Romani gettarono nel Tevere il grano dei depositi dell’odiata famiglia dei Tarquini, quella dell’ultimo re. Ricordando brevemente i fatti, al tempo di Tarquinio il Superbo, durante l’assedio di Ardea, un gruppo di giovani nobili, fra cui anche il figlio del re, Sesto Tarquinio, scommettono fra loro su quale delle loro mogli fosse la più virtuosa. Decidono quindi di andare a spiarle di nascosto e mentre tutte furono colte in flagrante adulterio, fra festini e discorsi discinti, l’unica donna, circondata solo dalle sue ancelle, intenta a tessere al telaio, fu Lucrezia, moglie di Tarquinio Collatino, cugino di Sesto. Quest’ultimo, alla vista della virtuosa donna, fu preso da un’insana bramosia e pochi giorni dopo tornò di nuovo alla casa di Collatino, sicuro che avrebbe trovato la donna da sola. Era un parente, figlio del re, venne quindi ospitato con tutti gli onori. Ma durante la notte entrò armato di spada nella camera da letto di Lucrezia, minacciandola che se non avesse ceduto alle sue voglie, l’avrebbe comunque posseduta e poi uccisa, lasciando uno schiavo nudo nel suo letto, in modo da infangare il suo nome e la sua memoria per sempre con l’accusa di adulterio.
 

La donna cedette, ma non appena Sesto andò via, mandò a chiamare padre, marito e altri testimoni, fra cui Bruto. Davanti a loro racconta l’accaduto e, estraendo un pugnale dalla sua veste, si suicidò, a dimostrazione del fatto che se anche il suo corpo era stato violato, la sua memoria doveva restare pura, come lei sempre era stata. Su quel pugnale insanguinato, Bruto e Collatino, giurarono vendetta, uccisero Sesto Tarquinio e cacciato il tiranno, diedero vita alla Repubblica Romana. 


Tutto questo coincise con il periodo della raccolta delle messi e molti possedimenti dei Tarquini in Campio Marzio preannunciavano un raccolto eccezionale. Gli esiliati ne rivendicavano i frutti, insieme alla restituzione dei loro beni. Si comprese però ben presto che si trattava di una scusa per prendere tempo e che in realtà stavano orchestrando una congiura insieme ad alcuni giovani nobili romani. Scoperti i loro piani, si giustiziarono i colpevoli e i beni del re furono lasciati al saccheggio della plebe, mentre il farro raccolto fu gettato nel fiume in segno di spregio.  La quantità del raccolto, misto a pietre usate per farlo affondare, era tale che da questo ammasso di detriti si formò il primo nucleo dell’isola. C’è poi un’altra versione secondo la quale durante un’alluvione una barca s’incagliò in mezzo al Tevere e l’accumulo progressivo di sabbia e fango avrebbe formato la striscia di terra. Tornando alla sua forma, invece, dobbiamo raccontare un’altra leggenda. 


Era il 291 a.C. quando una terribile ondata di peste si diffuse nell’Urbe decimando la popolazione. Il Senato era alla ricerca di un modo per frenare l’epidemia e interpellò i libri Sibillini che consigliarono di introdurre a Roma il culto di Esculapio, nota divinità greca della medicina. Fu mandata quindi una delegazione a consultare i sacerdoti nel santuario del dio a Epidauro, impresa che, fortunatamente, si rivelò un successo. E così l’ambasceria risalì il Tevere sulla propria trireme con un carico preziosissimo: un serpente sacro al dio. 


Bellissima la descrizione che ne dà Ovidio alla fine del XV libro delle Metamorfosi (vv. 626-744); incanta il dettaglio sottolineato dal poeta, per cui al salire del serpentello sullo scafo romano questo si abbassò per il peso del dio. Superato il tratto in corrispondenza del colle Aventino, però, l’illustre ospite cominciò a dare segni di inquietudine. Nonostante gli sforzi dei marinai per trattenere l’animale, questi con un balzo si tuffò nel fiume e, nuotando agilmente, approdò su quell’isolotto dalla forma allungata che spartiva in due il letto del Tevere. E lì si istallò, scomparendo felicemente tra i canneti e le ortiche. Nessuno, tuttavia, ebbe da ridire perché l’episodio fu interpretato come una precisa manifestazione del dio: quel luogo, e non altri, doveva essere sacro a Esculapio, lì sarebbe sorto il suo tempio. 


In ricordo della missione in Grecia, a questa striscia di terra allungata venne data la forma di una nave e i resti dell’imbarcazione usata per arrivare a Epidauro furono inglobati sotto i lastroni di travertino che ne imitavano la sagoma. Un obelisco eretto al centro dell’isola, oggi rimpiazzato dall’edicola a guglia di fronte alla chiesa di San Bartolomeo, rappresentava l’albero maestro, a poppa c’era il tempio di Esculapio, mentre la prua era decorata con un busto del dio, una testa di toro e un serpente attorcigliato a un bastone, simbolo della medicina (di cui resta ancora un tratto di travertino).
 

Nonostante la versione del serpente sia molto fantasiosa, è più credibile che per limitare la diffusione della malattia, i sacerdoti greci avessero consigliato di trovare un luogo isolato dove confinare i malati e che i Romani avessero intuito quanto l’isola fosse ideale per mettere gli appestati in quarantena limitando il contagio. Tanto più che all’epoca era raggiungibile solo con le barche perché gli antichissimi e longevi ponti, che ancora oggi la collegano alla terraferma, ponte Cestio e ponte Fabricio, sono stati costruiti solo in seguito. 


La cosa più incredibile è che questa nave si è mantenuta nei secoli fedele alla sua antica missione, rimanendo sempre sede di strutture ospedaliere, fin da quando i Romani la trasformarono in un lazzaretto e in un ricovero per gli schiavi malati abbandonati dagli sciagurati padroni e ancora oggi con il Fatebenefratelli e l’Ospedale Israelitico.


Il Fatebenefratelli, tra l’altro, è stato edificato alla fine del Cinquecento, proprio dove si trovava il tempio-lazzaretto-ospizio di Esculapio e, per inciso, fu anche il primo prototipo di “ospedale” della città. Nell’antica Roma esistevano le tabernae medicae, ambulatori con la possibilità di brevi ricoveri, ma non c’erano veri e propri ospedali, l’unica eccezione erano quelli da campo, per altro efficientissimi. E così l’Isola Tiberina, questa barca in mezzo al fiume, è stata per anni una zattera della salvezza per tanti malati. Al di là della leggenda, il valore sacro del luogo sembra fosse legato alla presenza di una sorgente dai poteri curativi e per questo l’isola era dedicata a Esculapio e alla cura dei malatiC’è chi crede che il pozzo, che ancora oggi si trova presso l’altare della chiesa di San Bartolomeo, corrisponda alla fonte utilizzata in epoca romana dai medici-sacerdoti. 


Proprio per la presenza della chiesa, l’isola Tiberina è anche chiamata di San Bartolomeo. La fondazione della basilica risale a pochi anni prima del Mille, quando Ottone III la fece edificare per custodire le spoglie del monaco e martire Adalberto, vescovo di Praga, ucciso durante la sua opera di evangelizzazione.


Per aumentare il prestigio della chiesa, però, servivano più reliquie (all’epoca erano quelle che alzavano le quotazioni di un luogo sacro) e Ottone riuscì a mettere a segno un colpaccio aggiudicandosi quelle di san Bartolomeo, nientemeno che uno dei dodici apostoli.


Ma la città di Benevento, che custodiva gelosamente il corpo del santo, non apprezzò l’iniziativa e rifilò all’imperatore una “patacca” consegnandogli il corpo di san Paolino, vescovo di Nola. Quando Ottone si accorse che invece dell’apostolo gli avevano dato un martire semisconosciuto, non prese bene il raggiro, marciò dritto verso Benevento, la espugnò, si prese il cadavere e lo sistemò nella chiesa in compagnia di Adalberto e Paolino.


La presenza nella basilica, in un’urna di porfido sotto l’altar maggiore, è pubblicizzata a grandi lettere dall’iscrizione sulla facciata, il problema è che anche Benevento rivendica il possesso delle sacre reliquie. Mistero.


 (Giulia Fiore Coltellacci - I luoghi e le storie più strane di Roma)

 (Gabriella Serio - Curiosità e segreti di Roma)

(Flavia Calisti - Alla scoperta dei segreti perduti di Roma)

 

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