Il Parco degli Acquedotti

maggio 25, 2020


Gli acquedotti sono uno degli elementi che maggiormente mi affascina del mondo romano. Oggi per colpa dei rubinetti non ne apprezziamo l’enorme ruolo avuto nel processo di romanizzazione. I popoli antichi erano schiavi dell’acqua, potevano vivere e costruire le loro città solo in prossimità di fiumi o sorgenti. I Romani, invece, furono capaci di rendere schiava l’acqua, di dominarla, con una tecnologia che, per l’epoca, fu dirompente. Costruire un acquedotto era una esibizione di forza, un messaggio del tipo: “se posso fare questo, posso fare tutto!”.


Con una portata di tredici metri cubi d’acqua al secondo, la Roma imperiale godeva di un consumo idrico da grande metropoli, una diffusione capillare e uno sfoggio di abbeveratoi, mostre, arcate e condutture modernissimi. Mai come davanti ai resti di un acquedotto si comprende l’origine della perizia costruttiva dei romani. Quegli archi non assomigliano anche ai ponti e alle mille finestre del Tabularium o del Colosseo?


E quei muri di laterizi (un tempo rivestiti di marmo) non hanno forse la stessa maestà di ciò che è sopravvissuto ai secoli sul Palatino? Non c’è a Roma luogo migliore per porgersi queste domande del Parco degli Acquedotti, dove gli spettri di ben sette, degli undici acquedotti che rifornivano la città imperiale, pascolano pigramente nel verde della campagna romana, fra l’Appia Nuova e la Tuscolana.


La corsa, decine e decine di chilometri, li portava lungo la traiettoria, fra Capannelle e Porta Maggiore e poi li tuffava nella pancia della città, facendone esplodere la potenza compressa in enormi fontane, le cosiddette “mostre”, la più famosa delle quali è senz'altro quella dell'Acqua Vergine: la Fontana di Trevi.


L’acqua zampillava, i romani andavano alle terme contenti e si viveva in talmente tanta abbondanza d’acqua, che addirittura i vespasiani pubblici avevano a disposizione un sistema idrico, per sciacquarli dopo l’uso. L’acqua non è soltanto vita, è progresso e salute. Per l’acqua, fin dal terzo secolo prima della nascita di Cristo, si erano preoccupati ingegneri, architetti, politici e cittadini. E a essa avevano dedicato ogni priorità, dando vita a opere dalla tecnologia avanzatissima per l’epoca, in grado di sostenere la richiesta continua d’acqua, che la civilizzazione sempre crescente imponeva.

  
Gli acquedotti attingevano dal fiume Aniene, poi si lanciavano al galoppo verso la città, dove oltrepassavano strade e quartieri, riempendo cisterne e depositi. Oggi che li vedi dismessi hanno sempre le forme scattanti e longilinee dei cavalli di razza, ma sembrano più che altro una mandria a riposo, mentre tranquillamente si godono il sole nel verde dell’erba.


Questo è lo spettacolo che si presenta agli occhi dei visitatori del parco. Manca qualche mucca dalle corna lunghe, qualche pecora e il quadro ottocentesco sarebbe perfetto. Il fascino, animali oppure no, comunque è lo stesso. L’Anio Novus, l’Anio Vetus (in gran parte sotterraneo), l’acquedotto Claudio, l’Aqua Tepula, la Iulia, l’acquedotto Marcio (che poi si chiamò Felice, da papa Sisto V, Felice Peretti) da cui partiva quello Antoniniano per andare ad alimentare le Terme di Caracalla: ecco l’appello dei protagonisti della passeggiata.


Distinguerli l’uno dall'altro, a mano a mano che si incontrano o che si scorgono in lontananza è operazione per nulla semplice, che richiederebbe alcune competenze nel riconoscere i periodi, semplicemente osservando le opere murarie.


Le arcate corrono parallele, in alcuni tratti si sovrappongono o si sdoppiano. È il caos che, con il passare dei secoli, si è impresso su queste opere ingegneristiche di prima grandezza cui è stata riservata un’esistenza movimentata, fatta di mille interventi di restauro, mille spoliazioni (spesso i pezzi di uno servivano a costruirne altri), attacchi e successive fortificazioni, cambiamenti radicali in porte, archi trionfali.


Nel parco si entra da viale Appio Claudio, da circonvallazione Tuscolana e da via Lemonia. Come succede anche alla Caffarella, a Villa Pamphilj, a Villa Borghese o in altri parchi cittadini particolarmente grandi, la scelta dell’ingresso definisce tutta la qualità estetica della passeggiata. Ma non importa da quale parte si scelga d’entrare: ogni volta incontrare i primi ruderi, vederli nel loro “habitat” naturale è una sorpresa immensa, anzi un incontro.


La successione di archi sempre uguali è fatta per farsi ammirare, per poter fantasticare. Come se avessero srotolato il Colosseo su un prato verde.

La presenza di queste maestose rovine aiuta a capire tanto della città monumentale che fu giustamente definita eterna. Ne sono il suo più indispensabile accessorio. L’opera che l’ha resa splendida.






(Ilaria Beltramme - 101 cose da fare a Roma almeno una volta nella vita)
(Flavia Calisti - Alla scoperta dei segreti perduti di Roma)

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