La pornocrazia romana 4^ ed ultima parte

marzo 12, 2020

Matrimonio di Marozia e Ugo di Provenza a Castel Sant'Angelo

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Fiera, ambiziosa e spregiudicata, Marozia non era il tipo da aspettare che il destino facesse il suo corso: preferiva creare le circostanze per fare in modo che il destino si piegasse alla sua ferrea volontà e alla sua incontenibile smania di potere. Neanche il tempo di seppellire Guido, che già aveva scritto una lettera al cognato, fratello del suo “povero” marito, per chiederlo in marito. Non pensate a una mossa avventata, dettata dalla necessità di maritarsi al più presto: Ugo di Provenza era nientemeno che il re d’Italia. Marozia era stata abituata fin da piccola a dare del tu a papi, principi e re e sembra che nessun uomo fosse mai riuscito a resistere al suo fascino, un pericoloso misto di celestiale bellezza e infernale determinazione. Con un figlio papa e un marito re d’Italia avrebbe fatto bingo. Anche Ugo aveva il suo tornaconto, però. Diventare il marito di Marozia, voleva dire mettere le mani su Roma senza avere il papa come nemico, un’opportunità unica, un vero colpo di fortuna. Tanto più che tutti sapevano che il giovane pontefice non emetteva un fiato senza l’autorizzazione della madre. Ma c’era un problema: per le regole della Chiesa il matrimonio non si sarebbe potuto celebrare in quanto Marozia era la cognata di Ugo e il diritto canonico considerava la parentela, anche se non di sangue, come incesto. L’affare, però, era così conveniente per tutti che Ugo non ci pensò due volte a giurare il falso dichiarando di essere il figlio illegittimo di suo padre. Meglio essere considerato bastardo piuttosto che lasciarsi sfuggire Marozia, ovvero Roma. Questo tanto per capire il potere assoluto che la donna era riuscita a concentrare nelle proprie mani. Con il matrimonio la già senatrice, patrizia e “papessa”, sarebbe diventata anche regina d’Italia. Le nozze furono celebrate nel 931 a Castel sant’Angelo e a unire gli sposi in matrimonio, il papa in persona nonché figlio della sposa: insomma, fu una cerimonia in famiglia. E proprio dalla famiglia arrivarono i guai. A guastare la festa, in senso stretto e in senso lato, ci pensò Alberico, secondogenito di Marozia, figlio omonimo del marito numero uno, il duca di Spoleto. 
Alberico II
Al contrario del fratellastro papa, Alberico aveva un carattere deciso, era indomito, ribelle e assetato di potere proprio come la madre. Secondo quanto riportato dalle cronache pettegole, durante il banchetto si verificò un banale incidente dalle conseguenze disastrose: Alberico rovesciò una brocca di vino sull’abito del re, il quale reagì dandogli uno schiaffo. Non è chiaro se il ragazzo lo fece di proposito o fu un incidente, né se Ugo, che aveva alzato un po’ troppo il gomito, lo avesse provocato con un comportamento arrogante, fatto sta che nella sala piombò il silenzio. Alberico, offeso e risentito, lasciò il banchetto mentre Ugo riprese a festeggiare come se niente fosse. Avrebbe fatto meglio a preoccuparsi e non sottovalutare il giovane, ricordandosi di chi era figlio. Liutprando racconta che il ragazzo sobillò i romani cercando di risvegliarne l’indignazione, addossando la colpa di tutte le disgrazie della città alla madre Marozia e alla sua riprovevole condotta morale: “La dignità di Roma è ridotta a così grande stoltezza, da obbedire anche agli ordini delle meretrici. Che cosa v’è di più turpe o più vergognoso del fatto che la città di Roma vada alla malora per l’incesto di una donna, e che gli schiavi di un tempo dei romani, cioè i borgognoni, comandino i romani?”. Il discorso ottenne l’effetto sperato e, alla guida del popolo di Roma, il giovane Alberico preso d’assalto Castel Sant’Angelo, costringendo Ugo e la corte a fuggire. La sua vendetta colpì anche il fratellastro Giovanni: lo rinchiuse in Laterano ordinandogli di fare solo il papa senza impicciarsi d’altro, come se il giovane pontefice avesse mai avuto voce in capitolo. Infatti, accettò le imposizioni senza fiatare, come sempre. Alla madre, invece, riservò una punizione che sa di contrappasso dantesco. Marozia, la pornocrate che per vent’anni aveva soggiogato Roma con il suo fascino e la sua ambizione, la “prostituta” che si era fatta padrona assoluta della città, la donna di malaffare che aveva comandato a bacchetta papi, principi e re, finì come una suora di clausura, relegata in convento dal suo stesso figlio, lontana dalla ribalta, dalle luci, dal potere. Lontano da quel mondo di uomini che per anni e sua madre Teodora avevano dominato con uno sguardo. 

(Giulia Fiore Coltellacci - Storia pettegola di Roma)

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