Lucrezia, la signora del Castello di Lunghezza

ottobre 20, 2020

I miti contengono veri e propri esempi di personaggi femminili dalle virtù integerrime, ammirati e amati dalla città di Roma come fondamenti della storia patria. La leggenda di Lucrezia, moglie del nobile Collatino, che aveva seguito Tarquinio il Suberbo, durante l’assedio dei romani alla città di Ardea, nel 509 a.C., dimostra quanto la minaccia del disonore, dunque il sospetto di adulterio, sia intollerabile per una donna romana dedita alla virtù di moglie. È Tito Livio a raccontare la storia: una notte, durante l’assedio alla città di Ardea, mentre i figli del re sono intenti a banchettare insieme a Collatino, cominciano tutti a discutere su quale delle loro consorti sia la moglie più integerrima. E fanno una scommessa: perché non partire e andare a vedere cosa fanno le mogli in assenza dei mariti, cogliendole di sorpresa? A Roma, le consorti dei principi vengono colte con i loro amanti. Tutte tranne una: Lucrezia.
Giunti a casa di Collatino, i principi vedono una donna seduta tra le schiave, intenta a filare la lana in piena notte. Collatino vince la scommessa, ma la bellezza e la castità di Lucrezia suscitano l’invidia di Sesto Tarquinio, il figlio del re, che vuole la donna a ogni costo. Impazzito dal desiderio, Sesto si reca in segreto in casa di Collatino, dove riceve tutti gli onori. Durante la notte, però, entra con la spada sguainata, nella camera da letto di Lucrezia e la sveglia.
Le dichiara il suo amore e, alla resistenza della donna, la minaccia. Se Lucrezia non si concederà a lui, verrà uccisa e, per degradare il suo onore, Sesto lascerà accanto al suo corpo quello nudo di uno schiavo, in modo che su di lei ricada per sempre l’accusa di adulterio. Di fronte all’idea della sua memoria infangata, Lucrezia cede alle voglie di Sesto. A farla crollare non è dunque il timore della morte, ma la minaccia del disonore. Rimasta sola, Lucrezia manda a chiamare il padre e il marito e dice loro di portarsi dei testimoni; si fa trovare compostamente seduta al centro della camera da letto e confessa ai parenti quanto accaduto, in preda alle lacrime. “Collatino, nel letto tuo ci sono le tracce di un altro uomo. Però solo il corpo è stato violato, l’animo è innocente e la morte lo proverà”. Il corpo di Lucrezia è stato violato sul talamo nuziale, ma l’anima chiede di essere liberata dalla vergogna.
Inutilmente il marito e il padre cercano di consolare Lucrezia e di farla desistere dal tentativo di suicidarsi, con la promessa di vendicare l’affronto. Estratto un coltello nascosto sotto la veste, la donna se lo conficca nel cuore “perché in futuro, seguendo il mio esempio, nessuna donna viva impudica”. Il corpo di Lucrezia viene portato nel Foro e non sopportando l’oltraggio subito dalla donna, simbolo di virtù, il popolo insorge e trova la forza di ribellarsi al potere dei re etruschi, segnando l’inizio della Repubblica romana. Nel tempo, il mito di Lucrezia avrebbe affascinato artisti e poeti, come dimostra l’incisione di Marcantonio Raimondi, su disegno di Raffaello, del 1511: la donna, con il volto sofferente e le vesti lacerate dalla violenza, è ritratta in piedi, accanto a una colonna di marmo, nell’atto di pugnalarsi.
Ai suoi piedi, un’incisione a caratteri greci: “E’ meglio morire che vivere disonorati”. L’episodio narrato da Livio è fondativo di un sistema di valori destinato a permanere a lungo nella cultura e nella mentalità romana, fino a raggiungere miti e figure della religione cristiana, assurti a simbolo della purezza, dell’integrità del corpo e della salvezza dell’anima.

(Michela Ponzani, Massimiliano Griner - Donne di Roma)

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