Giuseppe Gioacchino Belli

luglio 15, 2020


Giuseppe Gioachino Belli compose ben 2279 sonetti in romanesco in un periodo di soli sedici anni, dal 1824 al 1840. L’autore non era un uomo del popolo, seppur di umili origini: è un intellettuale, ha una cultura che spazia dalla letteratura alla scienza, dalla politica alla sociologia. Un’infanzia difficile, dovuta alla prematura morte dei genitori, lo costrinse ad abbandonare gli studi e a cercare continuamente lavori che gli permettessero di vivere. L’agio arrivò solo con il matrimonio, che gli garantì un comodo alloggio a palazzo Poli (Fontana di Trevi) e la possibilità di viaggiare. Durante il soggiorno a Milano conobbe l’opera dialettale di Carlo Porta che gli ispirò lo stile dei sonetti, la sua opera più mastodontica e la più voluminosa raccolta di versi dell’Ottocento. Sono versi irriverenti, feroci, volgari, come irriverente, feroce e volgare può essere la “plebe” di Roma. Nascono con l’intenzione di creare un documento di studio, quasi un resoconto scientifico da lasciare ai posteri che catturasse l’essenza della lingua del popolo capitolino. Lui stesso scrive che la sua opera è un “monumento di quello che oggi è la plebe di Roma”. 


Monumento che cattura sia il linguaggio sia le usanze, le opinioni e tratti del carattere locale: “Il popolo è questo e questo io ricopio”, diceva il Belli, ed è esattamente questa l’eccezionalità della sua opera, una sorta di “registrazione audio” ottenuta con la perfetta trascrizione del modo in cui le parole erano pronunciate. È per questo motivo che i sonetti belliniani sono di difficile lettura, a differenza degli scritti di altri autori della sua epoca come il Caterbi e il Rondanini. Belli ricercava la perfetta combinazione di lettere e accenti per ricreare fedelmente il suono “così come esce dalla bocca del romano”. Ecco che parole come “dicembre” diventano descemmre, “sole” si trasforma in zole e frasi come “fra quindici giorni” sono trascritte stupendamente in ffra cquinisci ggiorni. I sonetti sono la trovata ideale per dare spazio alla creatività, anche sperimentale, del Belli. Li declamava lui stesso, ascoltato nei salotti da personalità del calibro di Gogol e Verdi. Dobbiamo a Belli (e non solo a Sordi) una delle battute più citate dai romani:

C’era una vorta un re cche ddar palazzo
Mannò ffora a li popoli st’editto:
“Io so io, e vvoi nun zete un cazzo,
sori vassalli bbugiaroni, e zzitto.
Io fo ddritto lo storto e storto er ddritto:
pozzo vénneve a ttutti a un tant’er mazzo.
Io, si vve fo impiccà nun ve strapazzo,
ché la vita e la robba io ve l’affitto.
Chi abbita a sto monno senza er titolo
o dde Papa, o dde Re, o dd’Imperatore,
quello nun pò avé mmai vosce in capitolo!”
co st’editto annò er Boja per ccuriero,
interroganno tutti in zur tenore;
e arisposero tutti: “E’ vvero, è vvero!

Può sorprendere ma il poeta non parlava il romanesco, ne era profondamente affascinato e grande conoscitore, eppure nelle conversazioni preferiva l’italiano in cui si esprimeva perfettamente, ricercando anzi il purismo. Belli scrisse i sonetti a mano, con fine ed elegante calligrafia, cosa che ha permesso la perfetta trascrizione di come lui interpretava le parole che sentiva. Oggi una statua di marmo ritrae il poeta in posa elegante, appoggiato sull'inseparabile bastone e con il cilindro in testa, guarda in basso, alla mandria di ragazzi che nelle sere d’estate si radunano ai suoi piedi per bere e chiacchierare. Quando la guardo mi viene sempre da sorridere; se quella nobile statua potesse parlare, penso, chissà come metterebbe subito in riga tutti con i suoi versi: i ragazzi, i passanti, gli automobilisti, i vigili all'angolo…. Sul suo bastone c’è una curiosa storia. Inizialmente tra le mani della statua era stato posto un vero bastone. Nonostante tale oggetto fosse di nessun valore, il bastone fu rubato, probabilmente da un cacciatore di souvenir. Il bastone fu prontamente sostituito, ma nuovamente e più volte fu rubato. Alla fine, saggiamente, si decise così di sostituire il vero bastone con uno fisso, di ferro. E per evitare che anche questo potesse essere rubato, lo si fissò con cemento. Un ultimo accorgimento fu messo in opera a questo punto: per simulare in tutto e per tutto il primo bastone ligneo, il bastone fu dipinto di nero, color ebano. 



Ed a proposito del poeta e di furti, ne approfittiamo per raccontare un’altra storia. Si racconta che il Belli possedeva, e ci teneva molto in quanto si trattava di un ricordo, una tabacchiera d'argento. Tale oggetto era tanto bello da fare invidia a quanti annusatori di tabacco avevano occasione di vederla. Forse fu l’invida, o forse fu solo un caso, ma un giorno il Belli perse la tabacchiera. Appena il poeta si accorse della mancanza, corse subito a far denuncia alla polizia pontificia affinché venissero fatte delle ricerche per recuperare il suo prezioso oggetto. Il poliziotto a questo punto gli diede un nominativo ed un indirizzo di un caffè e gli suggerì di rivolgersi ad una persona che si trovava lì. Quando il Belli, ignaro di tutto e pesando di incontrare la persona che aveva trovato l’oggetto perduto, incontrò la persona che gli era stata indicata, disse subito di essere disponibile ad offrire una ricompensa per il ritrovamento della tabacchiera. L’uomo però gli rispose di non poterlo accontentare, in quanto il furto della tabacchiera non era stato compiuto dai suoi compagni. Gli disse inoltre che probabilmente era opera di una squadra romagnola che lavorava per conto proprio, e pertanto doveva rivolgersi a loro. Solo allora il Belli si rese conto che la polizia pontificia, per fargli recuperare la tabacchiera, l'aveva mandato a conferire col capo dei ladri! Il monumento si trova all'inizio di Viale Trastevere, in un’area segnata da radicali cambiamenti urbanistici proprio negli anni seguenti la morte dell’autore.

I vicoli che un tempo tessevano fitte maglie nella trama di Trastevere, sono scomparsi per fare spazio a viale Trastevere, un’arteria aperta nel 1886, con il nome pomposo di Viale del Re, che oggi segna il netto spartiacque tra due anime del medesimo rione. In qualche modo, le trasformazioni urbanistiche riflettono lo smembramento delle tradizioni di quel popolo che il Belli immortalò e che oggi prosegue sempre più diluito nella modernità. Prima di morire, il 21 dicembre 1863, incarica l'amico monsignor Tizzani di distruggere tutta la sua opera, temendo che questa potesse nuocere alla carriera del figlio, impiegato nell'amministrazione pontificia. Fortunatamente, l'amico si guardò bene dall'eseguire la volontà del poeta, salvaguardando un inestimabile patrimonio di versi e anzi consegnando il corpus delle opere belliane, quasi integralmente, al figlio di lui. Il suo corpo riposa nel Cimitero Monumentale del Verano. 



(Claudio Colajacomo - I love Roma)
(Willy Pocino - Le curiosità di Roma)
(Flavia Calisti - La storia di Roma in 100 luoghi memorabili)
(biografieonline.it)



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