Il ratto delle Sabine

aprile 22, 2020

Pietro da Cortona - Il ratto delle Sabine (sala Pietro da Cortona ai Musei Capitolini)
Tracciati i confini, appariva come primaria l’esigenza di popolare la città, affinché questa cominciasse realmente ad essere considerata tale. Romolo chiamò a sé ogni ribaldo della zona, offrendogli rifugio e protezione. Erano tutti giovani predoni, ladri di polli e di pecore, ma era anche gente che aveva compiuto ben più pesanti nefandezze. E fra tanta marmaglia non c’erano soltanto latini. Roma stentava, però, a superare le dimensioni di un insieme di piccoli villaggi con casupole dai tetti di paglia abitate da soli uomini. Affannosamente quegli uomini cercavano di attrarre a sé le donne dei luoghi vicini, ma nessuna intendeva unirsi a individui brutali e violenti. In quelle condizioni Roma non sarebbe sopravvissuta a sé stessa oltre la generazione che l’aveva fondata, se un giorno Romolo non avesse escogitato uno “straordinario” rimedio per porre fine con la forza alla mancanza di ragazze.


Ideò un espediente brigantesco: rapire in massa le donne della Sabina. In un giorno di agosto – erano trascorsi quattro anni dalla sua ascesa al trono della città – si svolgevano le feste Consualie dedicate al dio Conso, protettore dei raccolti, fra giochi, danze, suoni di zampogne e lamenti di flauti, roghi sacri, corse di cavalli con la fulva criniera ornata di fiori. Ognuno dei giovani festanti era azzimato con pelli di pecora o di montone. Romolo aveva solennemente invitato, fra gli altri, il vicino popolo dei sabini, stanziato a levante di Roma e che sentiva affine al proprio per costumi, carattere e consuetudini. In particolare, ai sabini aveva suggerito di portarvi il maggior numero possibile di ragazze, figlie e sorelle, per rendere più lieta la giornata. Accorsero, incuriositi, in molti, uomini e donne, per dare uno sguardo alla nuova città. Nel pieno della baldoria vociante, mentre i cavalli, in una vasta arena, si sbizzarrivano nella corsa e il vino fumante riscaldava i cuori, scattò il piano che il re aveva concordato con i suoi consiglieri e che prevedeva il ratto delle più giovani fanciulle, soprattutto sabine, avendole in simpatia più di altre. L’intenzione non era di stuprarle, ma di farne le spose di giovanotti romani, che si erano intristiti in una lunga solitudine e che più non speravano di avere una discendenza. La situazione trascese, divenne violenta e manesca. Furono rapite seicentottantatré ragazze. Al segnale che Romolo diede avvolgendosi nel mantello purpureo, le agguantarono, le presero in braccio – era la prima volta che le donne venivano sollevate così da terra in previsione d’un imminente amplesso – e le portarono trionfalmente nelle loro case.


Le fanciulle sequestrate erano tutte vergini, a esclusione di una, Ersilia, la quale, catturata per errore, divenne sposa di Romolo. I sabini, popolo austero, reagirono prendendo le armi contro i rapitori cui dovevano far ingoiare l’insulto. Assalirono Roma con tanta gagliardia che Romolo fu costretto a rinforzarne le mura, approfondire i fossati, elevare nuove palizzate intorno al Palatino, al Campidoglio, all’Aventino per renderli più sicuri. Ma egualmente il Campidoglio cadde nelle mani del re sabino Tito Tazio e delle sue milizie, a causa di una fanciulla di nome Tarpea, una virago che Romolo aveva posto a guardia del colle e che aveva imprevedibilmente aperto le porte al nemico. Perché lo aveva fatto? Perché era stata corrotta con l’oro degli anelli e dei bracciali di cui i soldati sabini facevano grande sfoggio o perché si era invaghita di Tito Tazio? O c’era un’altra nobile ragione? Quella di disarmare il nemico, privandolo astutamente degli scudi? Difatti Tarpea, una volta che i sabini furono penetrati nella rocca, chiese non soltanto la consegna degli ornamenti, ma anche degli scudi. I sabini, subodorando il tranello, diedero le armi alla ragazza, ma lo fecero in maniera da schiacciarla e ucciderla sotto il peso di tutto quel ferro. Romolo prese per buona la ragione eroica, e fece seppellire il cadavere dell’eroina nel luogo del sacrificio cui diede il nome di rupe Tarpea.


Da quella rupe, nella parte meridionale del colle, cominciò crudelmente a gettare nel vuoto chiunque si macchiasse di delitti. I sabini impiegarono negli scontri venticiquemila fanti e mille cavalieri, mentre Romolo non disponeva che di ventimila fanti e ottocento cavalieri. Alterne erano le sorti della guerra, senza vinti, né vincitori, sicché il conflitto si sarebbe prolungato all'infinito se alla sposa di Romolo, sabina essa stessa, non fosse venuta in mente un’idea straordinaria, quella di far apparire sul campo di battaglia vestite a lutto le donne rapite, con in braccio i figli che, volenti o dolenti, avevano avuto dai baldi rapitori. Mostrandoli alla loro antica gente, quelle donne, sciolti i capelli e con le vesti lacere, imploravano in lacrime che i piccoli innocenti non fossero privati dei padri, da una parte e dei nonni, degli zii dall'altra, che sarebbero certamente caduti in combattimento se la guerra fosse continuata. I sabini si arresero e i due popoli rivali non soltanto passarono dalla guerra alla riconciliazione e alla pace, ma decisero persino di formare un’unica nazione. Il suggerimento era di Romolo il quale, avendo visto che il risultato dello scontro era stato incerto, aveva proposto l’unione. Alla città fu confermato il nome di Roma e i suoi abitanti furono naturalmente chiamati romani, ma anche quiriti, poiché Tito Tazio aveva portato sul colle del Quirinale il suo popolo originario di Curi. In seguito a questa unificazione, sancita solennemente sulla via Sacra, Roma ebbe contemporaneamente due re con eguali poteri, Romolo e il sabino Tito Tazio, in una sorta di monarchia collegiale.

(Antonio Spinosa – La grande storia di Roma)

You Might Also Like

0 commenti

POST POPOLARI

ARCHIVIO