Parco della Caffarella

giugno 04, 2020


La lunga quarantena subita, porta, inevitabilmente, ad un’irresistibile voglia di passeggiate all'aperto, così anche domenica, caricate in macchina le nostre biciclette, mio marito ed io, ci siamo avviati verso uno dei tanti parchi cittadini. Bisogna riconoscere che Roma ha una grande fortuna: nonostante la speculazione edilizia e la pressapochezza di molte amministrazioni, che hanno permesso ai palazzinari di farne scempio, è rimasta comunque una delle città più verdi d’Europa. Questo perché da sempre, dagli Horti romani, alle grandi ville delle famiglie di papi e cardinali, l’amore per il verde ha fatto sì che parchi e giardini fossero parte integrante dell’architettura urbana. Molti di loro sono scrigni di tesori archeologici, elementi che da preponderanti sono ora diventati ornamento, sfondi per foto e passeggiate: dal Parco degli Acquedotti, con i resti delle arcate di ben 7 acquedotti, a Villa Gordiani, sulla Prenestina, dove sono i resti di quella che, forse, un tempo era la dimora dei Gordiani, tanto per fare due esempi. Così, vista la mia passione per la storia dell’arte e l’archeologia, abbiamo puntato verso la Caffarella, parco strappato all'enorme degrado in cui versava, dalla volontà dei comitati cittadini, che presenta un panorama eterogeneo, a tratti aspro e selvatico, con collinette improvvise, ruscelletti, rovine (nobili e meno nobili) provenienti da varie epoche, che qualificano questa grande valle, come una tappa ideale, quando si è a caccia di scorci romantici della campagna romana.


Va detto, innanzitutto che, viste le dimensioni, la percezione del luogo dipenderà moltissimo da quale ingresso si sceglie per entrarvi: se dal vicolo Sant'Urbano, lungo l’Appia Pignatelli o da via Latina, oppure, ancora, da via della Caffarelletta, accesso secondario, che però introduce al parco nella sua veste più “rustica”. Noi, in bicicletta, scegliamo l’entrata di via Latina e riusciamo a percorrere tutto il parco, pur con qualche difficoltà, dovuta proprio al suo aspetto “allo stato brado”: salite improvvise, sentieri scoscesi, bivi dove difficile è la scelta tra quale percorso imboccare.


Rustica, aspra e selvaggia, la campagna romana ha qualcosa di “rovinosamente” romantico che da sempre ha incantato viaggiatori e artisti. Niente a che vedere, per esempio, con le dolci colline toscane, eppure davanti al suo fascino sono capitolati pittori, incisori, poeti e scrittori. Ogni tanto, quando ci si trova in una posizione che consente una visuale più ampia, è bello fermarsi a constatare che la città si blocca sui confini della Caffarella. Roma si affaccia su questa valle antichissima, si specchia, ma rimane sulla soglia. Non è stato per nulla facile frenare gli appetiti di quanti, subito dopo la guerra, consideravano la valle soltanto una nuova terra di conquista per costruire case che alimentassero il boom economico. Molto merito va al Comitato cittadino che, con grande partecipazione e lotta per la difesa del proprio territorio, è riuscito a bloccare l’avanzata del quartier Appio Latino verso quest’oasi, aiutato anche da amministrazioni più decise di altre (o meno colluse con gli interessi dei costruttori), inchieste giornalistiche e autorevoli prese di posizioni (ricordiamo, fra tutti, alla fine degli anni Settanta, Giulio Carlo Argan, noto storico dell’arte, sindaco di Roma e Antonio Cederna, intellettuale e fondatore di Italia Nostra) che hanno permesso di mantenere la valle così sontuosamente selvaggia, in un processo di “disantropizzazione” che ancora, però, non vede la fine.


Neanche oggi, dopo quasi tre decenni di sensibilizzazione e recupero. Polemiche si aggiungono a polemiche, alcuni fra i monumenti racchiusi nella splendida natura del parco sono ancora mestamente recintati, negati da cartelli che segnalano una proprietà privata ai limiti della colpevolezza; altre zone, invece, tristemente lasciate all'abbandono risultano, di fatto, inaccessibili.


Ma ciò che di fruibile c’è (ed è tantissimo) nei duecento ettari di estensione della Caffarella, lascia comunque senza fiato, come entrare in un sogno che non ti aspetti o in un quadro di Van Wittel. Una visita a questo bellissimo tratto di verde urbano, forse unico vero scorcio di campagna romana rimasto, è consigliata anche agli appassionati di geologia, botanica e zoologia: sono tante le specie di uccelli, di mammiferi e di insetti che si possono incontrare nel parco e anche per chi ne capisce poco, è comunque un luogo splendido per insegnare ai “figli della città”, che così poche occasioni hanno di incontrare e conoscere la natura, qualcosa su piante e animali e far vivere loro una giornata da piccoli esploratori.


Ai piedi di uno sperone roccioso, ecco poi ciò che resta della cosiddetta fonte Egeria con accanto, su una dolce collinetta, il suo bosco sacro, riprodotto da tanti artisti del Grand Tour. A ben vedere la fonte, però, non è di Egeria e così neanche il bosco sacro. Si tratta di una falsa attribuzione, forse dovuta al fatto che la fonte si ricordava ubicata a un miglio circa dalle mura della città: confondendo le Mura Serviane con le Mura Aureliane, nacque probabilmente l’errata ubicazione. La sorgente era in realtà ubicata presso la Porta Capena (di fronte alle Terme di Caracalla, per capirci), dove la ninfa era onorata insieme alle altre Camanae, divinità capaci di cantare, come l’acqua che scroscia, le sorti degli uomini. Il luogo è però troppo suggestivo per non immaginare qui le visite del buon re Numa Pompilio alla ninfa che tanto lo amava. Eh sì, perché nel tempo in cui uomini e dèi ancora vivevano insieme, avveniva spesso che ninfe e dee si innamorassero dei mortali. Del vecchio e saggio Numa si invaghì Egeria, che fu sua consigliera e amante e che lo ispirò nella redazione delle leggi della città. Una leggenda racconta che quando Numa, ormai anziano, un giorno morì, dopo quarantatré anni di regno, la sua immortale compagna iniziò a piangere, un pianto inconsolabile, straziante, copioso. Diana, mossa a compassione da quelle inestinguibili lacrime, trasformò Egeria in una fonte, che per i Romani era quella di Porta Capena, per gli Aricini quella nei pressi del nemus di Diana. Così la ninfa si sciolse letteralmente in lacrime…L’acqua del ninfeo della Caffarella, però, in realtà non gorgoglia e, come dicevo all'inizio, non ha un vero legame con l’inconsolabile Egeria.


Sarebbe, invece, una costruzione legata a una grande e sfarzosa dimora: il Pago Triopio di Erode Attico. Anche in questo caso dovremo parlare di due sposi, ma con toni del tutto diversi. Erode Attico era un personaggio eminente della Roma del II secolo d. C. Uomo di lettere e filosofo, precettore di Lucio Vero e Marco Aurelio, ricchissimo per sorte e matrimonio. Sposò Annia Regilla, discendente dalla nobilissima famiglia dei Regoli (quelli del buon Attilio Regolo che preferì morire atrocemente in una botta chiodata, pur di non venir meno alla parola data). Il matrimonio aumentò il patrimonio di Attico e proprio la moglie gli portò in dote i possedimenti sull'Appia, dove costruì la splendida villa.


Il Ninfeo di Egeria era, in realtà, una grotta artificiale, un suggestivo rimedio contro il caldo, con cui Erode aveva reso più confortevole la sua villa, per affrontare le afose estati romane. Un tempo il Ninfeo era arricchito da marmi colorati, mosaici e una ricca vegetazione e l’acqua zampillava da un sistema di tubature sotterraneo creando suggestivi giochi. Nonostante l’aspetto “delabré”, ancora oggi la grotta mantiene il suo fascino leggendario.


Fu costruito in seguito alla morte della moglie, avvenuta in circostanze misteriose, per la quale fu fortemente sospettato Erode Attico, accusato principalmente dal cognato. Venne processato e assolto, anche se si vociferava che avesse corrotto i giudici. Così, in parte per renderle omaggio e in parte per allontanare da sé i sospetti di un suo coinvolgimento, si era abbandonato a manifestazioni di inconsolabile lutto: dipinse di nero le pareti della sua casa, offrì i gioielli della moglie agli dèi, costruì in memoria della sposa l'Odeion, che ancora oggi si può vedere ai piedi dell’acropoli di Atene;


costruì un cenotafio ancora ben conservato, il cosiddetto Tempio del dio Redicolo, (non ridicolo, badate bene, ma del redire, del ritornare) e il Ninfeo. Come ulteriore atto d’amore, fece costruire, proprio sopra lo sperone di roccia che domina il Ninfeo di Egeria, un tempio e lo consacrò a Cerere e a Faustina (la moglie di Antonino Pio che l’imperatore aveva divinizzato dopo la morte) infilandoci dentro anche la sua Annia Regilla, nel tentativo di affiancarla all'imperatrice, nell'Olimpo degli dèi, nonostante la divinizzazione fosse una prerogativa esclusiva della famiglia imperiale. Nell’Alto Medioevo, il tempio venne trasformato in chiesa e consacrato al culto di Sant'Urbano, martire durante le persecuzioni avvenute proprio sotto Marco Aurelio, allievo di Erode Attico. È proprio grazie a questa “conversione” che ha parzialmente conservato la sua struttura originale e non c’è niente di più affascinante dell’abbraccio tra epoche e stili diversi, quel matrimonio artistico tra pagano e cristiano a cui Roma ci ha abituato. La chiesetta di Sant'Urbano, ammirata dal fior fiore degli umanisti, si trova in un fondo privato, da quando nel 1962 una recinzione l’ha sottratta alla vista dei romani (anche dopo l’acquisto da parte del Comune nel 2002 e la sua trasformazione in chiesa rettoria della basilica di San Sebastiano nel 2005). Al momento è visitabile solo in occasione di visite organizzate. All'interno dell’edificio, nell'unica porzione parzialmente conservata dell’originale decorazione in stucco della volta, si distinguono due nobili figure, una maschile e una femminile, molto verosimilmente Erode Attico e Annia Regilla: un ulteriore tentativo dell’uomo di glorificare la compianta consorte. La facciata ha conservato l’aspetto del tempio, costruito in elegante laterizio, con le colonne, il timpano, l’architrave e un podio preceduto da alcuni gradini, oggi interrati.


Nonostante nei secoli abbia subito numerose spoliazioni e altrettanti restauri – il più importante risale al Seicento ad opera del cardinale Francesco Barberini – l’edificio è riuscito a custodire gelosamente al suo interno, come meglio ha potuto, l’altro elemento che lo rende unico: la presenza di uno dei più rari esempi di affreschi risalenti all’XI secolo. Il ciclo è prezioso in quanto segna il momento di transizione dalla rigida e ieratica pittura bizantina a uno stile più realistico, un primo importante passo verso quella rivoluzione definitiva che sarà operata da Giotto. Originariamente tutte le pareti erano ricoperte da pitture, ma il tempo ha risparmiato solo parte degli affreschi. Un’ultima presenza importante nel parco è il fiume che l’attraversa: l'Almone.


Oggi in realtà è un fiumiciattolo, ma quando era nel pieno del suo vigore era considerato dai romani una divinità, mentre per i romani moderni è quasi del tutto sconosciuto… ma questa è un’altra storia.
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Questo invece è un simpaticissimo spezzone dell'incontro tra Numa Pompilio e la ninfa Egeria, tratto da "I sette re di Roma", lo spettacolo teatrale, del 1989, di Luigi Magni, interpretato da Gigi Proietti, con musiche di Nicola Piovani.




(Ilaria Beltramme - 101 cose da fare a Roma almeno una volta nella vita)
(Flavia Calisti - Alla scoperta dei segreti perduti di Roma)
(Giulia Fiore Coltellacci - I luoghi e le storie più strane di Roma)
(Giulia Fiore Coltellacci - 365 giornate indimenticabili da vivere a Roma)

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