Il Maritozzo di Quaresima e l'uovo di Pasqua

aprile 01, 2021


Ceneri, Quaresima, Pasqua sono ormai nella nostra società consumistica solo dei nomi da associare a date che scandiscono la nostra vita frenetica. Ma c'è stato un tempo in cui, almeno a Roma, le cose erano molto diverse. Terminato improrogabilmente il Carnevale alla mezzanotte precedente le Ceneri, iniziava la Quaresima, il periodo di digiuno stretto che imponeva il divieto assoluto, per 7 settimane, di consumare carne, latticini e uova, tanto che una canzoncina che si cantava in quel tempo diceva: “per quarantasei giornate non si mangia più frittate”. Ricordiamo, per chi non lo sapesse, che nello Stato Pontificio gli obblighi religiosi avevano anche valenza civile, e per i trasgressori erano previste severe sanzioni.


Pensate che per mangiare carne nei giorni vietati, bisognava munirsi di un certificato medico attestante il cattivo stato di salute; dopo il visto del parroco si otteneva, a pagamento, la licenza per mangiar di grasso. La creatività del popolo romano riusciva comunque a trovare anche durante questo periodo di rinunce, le occasioni di divertimento. È in conseguenza della stretta dieta che, per esempio, venne inventato il maritozzo, il panino dolce tipico di Roma. Essendo composto da farina lievitata, zucchero, olio, pinoli, uva passa, con una spolverata finale di un dolce velo bianco, il maritozzo corrispondeva alle regole ecclesiastiche anche nel peso, poiché non si potevano consumare più di 8 once (gr. 226) di cibo a pasto. Inzuppato nel latte, ma anche nel vino, sopperiva egregiamente alla colazione e alla cena.


Tra i fornai che producevano i maritozzi più buoni e scrocchiarelli, c'erano Orlandi all'Arco di S. Agostino e Giobbe al Circo Agonale, tutti sempre affollati di clienti. Se i maritozzi erano la trasgressione quotidiana c'era, fino al '700, un'occasione veramente ghiotta per spezzare il rigore del periodo precedente la Pasqua: il Giovedì di Mezzaquaresima. In questo giorno il popolo festeggiava appunto il traguardo di metà percorso, costruendo un grande fantoccio con le cibarie consentite dalla liturgia. Portato in corteo fino al Campo Vaccino, questo fantoccio veniva issato sopra una fortezza ricavata nei ruderi, e lì diventava l'oggetto di una cruenta battaglia tra un gruppo di ragazzi, che difendeva il trofeo alimentare, e un altro che tentava l'assalto. Gli assalitori per espugnare il forte usavano lunghe scale sulle quali i difensori versavano grandi secchiate d'acqua. Questa battaglia, più carnevalesca che quaresimale, fu proibita dall'autorità pontificia, ma lasciò in eredità uno scherzo, forse progenitore del nostro “Pesce d'aprile”.


Infatti, la burla consisteva nell'attaccare di soppiatto sulla schiena di qualche malcapitato di passaggio, un pezzo di carta con sopra disegnata una Scala. Il poverino a quel punto veniva deriso e inzuppato d'acqua da bande di ragazzi al grido di “Acqua, Acqua”. Con la Pasqua arrivava finalmente la fine delle restrizioni alimentari e si festeggiava con una abbondante colazione a base di uova e salame, ma anche di Brodetto, una zuppa brodosa di pane e uova, tanto antica da dare origine al detto: “E’ più vecchio del brodetto”.


L'uovo era citato nel rituale della benedizione che i parroci effettuavano nelle case dei fedeli, poiché considerato un simbolo di Resurrezione; anche nelle tombe dei martiri furono trovati resti di gusci, o riproduzioni in marmo di uova. S. Agostino ritiene l'uovo un simbolo di speranza, una cosa che è già in essere ma può ancora svilupparsi. Da tutte queste considerazioni, liturgiche e gastronomiche, è derivata l'usanza di mangiare l'uovo pasquale prima di ogni altro cibo, e in molte zone d'Italia anche quella di portare l'uovo, ora confezionato col cioccolato, alla messa pasquale per farlo benedire.


Naturalmente non bastavano uova e salame a compensare il lungo periodo di magro. La tradizione secolare racconta che a Pasqua e nei due mesi seguenti il consumo degli agnelli fosse superiore del 70% a quello normale. L’approvvigionamento di questi animali avveniva in modo drastico, con la famigerata precettazione annuale. Durante la Quaresima era pubblicato un Bando del cardinal Camerlengo, nella quale si ingiungeva “A tutti li Pecorari, Vergari e Padroni di Masserie di portare a Roma, nei giorni fissati, le quantità di agnelli stabilite per ognuno sotto pena di scudi cinquecento … ed altre pene stabilite ad arbitrio di Monsignor Presidente”. Da una nota del 1 aprile 1784, risulta che “al ritorno dal giro de’ Precettatori dalle Provincie si è avuto il numero di centodieci mila agnelli pel servizio di questa Capitale per la futura Stagione, e cioè ottantamila bianchi e trentamila moretti e bigi di una competente qualità”.


Queste notizie sono raccolte da Ferdinando Gregorovius, lo storico tedesco del tardo Ottocento, amante come pochi di Roma, ma già Gioacchino Belli, il grande narratore del popolo romano, le aveva condensate in uno dei suoi sonetti più celebri, “Er Bon Cristiano” nel quale fa cenno anche al “pijar Pasqua”. Tra i tanti strani mestieri che si esercitavano a Roma, infatti, il più strano era quello del “pijatore de Pasqua”. A Roma vigeva infatti l’obbligo di comunicarsi il giorno di Pasqua: la prova era data da un biglietto di attestazione, in mancanza del quale si veniva iscritti in un elenco affisso all’Isola Tiberina e successivamente scattavano ammonizioni, fastidi, pene detentive e perfino la scomunica. C’era perciò chi girava da una parrocchia all’altra accumulando “biglietti” che poi rivendevano a clienti distratti.


La colonna su cui veniva affisso l’elenco era detta dal popolo “la colonna infame” e non mancò di essere compreso nella lista anche il pittore di Trastevere, Bartolomeo Pinelli, che andò su tutte le furie, non tanto per essere creduto un miscredente, quanto per l’errore fatto nell’indicare la sua professione. Gli venne infatti attribuita la qualifica di miniatore anziché incisore! La colonna venne urtata con violenza da un camion (lo avrà fatto apposta?) e fu sostituita dall’attuale guglia, realizzata da Ignazio Jacometti, per volere di Pio IX, nel 1869.


(di Luigi Stanziani)

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