Nel dicembre 1925 tutta Roma si
scosse all'annuncio che era morto il Conte Tacchia. Il compianto fu unanime:
Adriano Bennicelli per quasi venti anni aveva deliziato la capitale, con le sue
stranezze e le sue amene prepotenze. Temperamento impulsivo, generoso,
insofferente, egli assai bene incarnava (pur con un certo spirito di
signorilità), la spregiudicata franchezza, la scottante ironia e l’indole
personalissima degli autentici romani d’un tempo. Si rievocarono vecchie storie
e vecchi tipi della famiglia Bennicelli, gente alla buona, pervenuta
all'agiatezza e alla nobiltà, come i Grazioli, i Chiassi ed altri, attraverso
un duro e onesto lavoro. Larga notorietà ebbe un tempo a Roma don Bennicelli,
molto santo e parecchio bizzarro parroco della Maddalena. Appunto nella piccola
e ricchissima chiesa dei Camillini, nella cappella laterale che, a destra
dell’altar maggiore, separata com'è da un nero e grosso cancello, sembra quasi
una minuscola chiesa a sé, c’è un marmo funebre che bisogna osservare. Il
latino chiesastico porta il giorno della morte: 21 luglio 1842 e l’età, 23 anni
e poi il nome: Teresa Bennicelli. Era bella, era bruna, era l’orgoglio della
madre e dei fratelli. E madre e fratelli, con tenerezza appassionata, facevano i
più lieti disegni per il suo avvenire, ma furono sogni. Un giorno Teresa
conobbe un cadetto dei dragoni pontifici, giovane bello, simpatico, affabile;
bello sì, ma senza beni di fortuna. Si videro e si amarono, illudendosi che il
loro grande amore sarebbe valso a infrangere tutti gli ostacoli. La necessità
di nascondere, almeno per il momento, agli occhi di tutti la pura e ardente
passione, ne accresceva l’intimo ardore. Ma, col tempo, gli ostinati silenzi,
l’ansioso pallore, i lenti sguardi insaziati misero in sospetto la famiglia.
Con l’austerità delle antiche famiglie non si poteva permettere che la
fanciulla nutrisse un’aspirazione e un affetto di libera scelta. Dai sospetti
si passò a una cauta sorveglianza, finché una sera, a ora tarda, fu sorpresa
mentre rispondeva a una lettera del suo innamorato. Addio pace domestica!
Rimbrotti, divieti, visi severi, musi lunghi e occhiate minacciose. La ragazza
fu guardata a vista e al giovane si fece sapere che smettesse ogni
corrispondenza, precisando in termini crudi che mai si sarebbe acconsentito a
simile unione. Né bastò: passano alcuni giorni e il cadetto riceve, dal
colonnello, l’ordine di trasferirsi, “illico et immediate”, al
distaccamento di cavalleria di guarnigione a Viterbo. Era facile capire che si
era brigato, per vie occulte e si era ottenuto un tal risultato. I fratelli si
stropicciarono le mani, giulivi, convinti di aver schiantato il male dalle
radici e non s’avvedevano che attiravano la sventura sulla loro casa. La povera
Teresa sentì tutta la violenza del colpo: il suo cuore spasimò fino a
spezzarsi. Un simile allontanamento le rendeva difficile, per non dire
impossibile, ogni comunicazione. Però, trascorse appena due settimane,
l’impaziente giovane ottenne una breve licenza, si precipitò a Roma, gli riuscì
di far sapere il suo arrivo e poté rivederla nella notte, dalla strada, da cui
non si allontanò che alle prime lividi luci dell’alba. Furono notti di gioia e
martirio, di esultanza e di parole tenerissime e di giuramenti. Poi di nuovo il
silenzio e la solitudine. La poveretta divenne melanconica, taciturna,
astratta, insensibile a ciò che la circondava. L’anima, perdutamente malata
d’amore, riverberava e traeva il delicato corpo a consunzione. La famiglia si
impressionò del suo stato; i medici consigliarono l’immediato cambiamento
d’aria. Fu mandata in campagna, ma essa non riuscì a distrarsi, il deperimento
progrediva nel suo corso fatale. Venne il giorno in cui la scienza medica
dichiarò di non poter far che ogni speranza andava rapidamente dileguandosi. A
quell'annunzio la casa fu sossopra. Un’ansia indefinibile, spaventevole invase
gli animi di tutti. Furono pianti, pentimenti, disperazioni. Fu soprattutto
rimorso. E siccome si voleva tutto tentare, riparare al mal fatto, furono superate
tutte le difficoltà, si promise tutto, si accondiscese a tutto. La madre, con
finta lietezza, ma col cuore in angoscia, confidò a Teresa che i fratelli
avevano mutato consiglio e acconsentivano che il soldato la venisse a trovare.
A tale annunzio non diede segno di letizia: levò gli occhi al cielo e crollò
leggermente la testa che teneva reclinata sul guanciale. Il giorno dopo,
accompagnato da due dei fratelli, il giovane, in uno stato difficile a
descriversi, entro nella camera della morente. Al vederla così mutata, incerto
e quasi atterrito, ristette un attimo, poi tremante, convulso, afferrò le mani
di Teresa, le baciò più volte, la chiamò coi più dolci nomi e tra singhiozzi
infrenabile implorò uno sguardo, una parola. Essa schiuse a stento gli occhi
languidissimi: poi con voce che era divenuta un soffio mormorò: “E’ tardi,
troppo tardi” e cercò di stringere la mano dell’uomo per il quale, tributo
d’immenso amore, sentiva di aver sacrificato la vita. Tre giorni dopo, dame e
damigelle dell’aristocrazia e una fiumana di popolo si riversavano nella chiesa
di San Salvatore in Lauro. Su una bara di nero velluto tutta frange d’oro
giaceva la povera Teresa vestiva, amara ironia, di una ricca veste da sposa,
tutta guarnita di veli, nastri, stelle d’argento e fiori freschissimi. Sul
finire della messa, mentre l’organo mandava suoni mesti e lenti, quasi ad
accompagnare il muto pianto della folla, si sentì un concitato batter di sproni
e un giovane ufficiale, terreo in viso, si fece largo, giunse presso la bara, si
fermò a guardare con occhi esterrefatti l’estinta “morta parea nel suo bel
viso”, si chinò a baciarle replicatamente le mani, le impresse un lungo,
disperato bacio sulla fronte, le staccò un fiore che teneva appuntato sul petto
e scomparve. Dopo un così drammatico addio corse in casa, si chiuse in camera e
senza un gemito, senza un lamento, staccò da una parete una pistola, balbettò
una preghiera, bacio e ribaciò una ciocca di capelli, puntò l’arma verso il
petto e con rapido movimento fece scattare il grilletto. Il cane batte sulla
pietra focaia, ma la polvere non prende fuoco. Impaziente solleva la molla e
con tremendo sangue freddo ripete la prova: ma il colpo che doveva ucciderlo
non esplode. Allora rientra in sé, getta l’arma lontano ed esclamando: “Dio mi
riserva forse un altro destino”, esce di casa e si avvia verso la Piazza
Barberini. Otto giorni dopo il Generale dell’ordine dei Cappuccini accoglie tra
i novizi e veste del saio, il venticinquenne Pio Pratesi. Due anni più tardi
padre Pacifico da Roma, tale il nome da lui assunto, celebra la sua messa
novella sulla tomba di Teresa Bennicelli, presso quella lapide il cui freddo
marmo bene sembra intonarsi alle memorie della fanciulla romana, morta d’amore.
E chiunque si ferma lì presso, non può trattenere un brivido di commozione,
leggendo le lodi di lei che era “forma et moribus praestans” ed era adorna del
più gentil fiore di “virtù insignis castitate”. La lunga e commovente
iscrizione accenna velatamente alla triste sorte di lei giacché reca che fu
spenta da un “rapace morbo”. Non si è voluto che nella penombra della cappella,
sotto gli occhi soavi della Vergine che è sull'altare, sotto quel Cristo che
attraverso il cristallo, tra i cuori votivi, sembra volgere intorno il suo
sguardo severo, non si è voluto esprimere tutto il nascosto tormento di
quell’anima appassionata, tutto l’arcano dolore della famiglia che piangeva
l’irreparabile perdita, ma si è solo, nella prima linea dell’iscrizione,
lasciato inciso come un grido d’ammirazione di pietà, un grido che risuona
ancora nel nostro cuore mirare qui legis (ammira, tu che leggi). È un
elogio colmo di dolorosa tenerezza per chi non seppe recare all'uomo amato e
sognato, nulla più che il mistico e crudele dono dell’amore e della morte.
Di molte immagini si raccontano storie
antiche e prodigiose; di immagini portate dal vento o dalle onde del mare,
scoperte nelle cavità degli alberi o in grotte misteriose. Curiosa e
affascinante è, tra le altre, la storia di una delle immagini più venerate dai
romani, quella della Madonna del Pozzo nella centralissima chiesa di Santa
Maria in Via.
Tutto cominciò in una remota notte del 1256 nella stalla del cardinale
Pietro Capocci, adiacente all'antico edificio di Santa Maria in via. Un servo,
forse per sbaglio o deliberatamente, gettò in un pozzo, usato per abbeverare i
cavalli, una bella immagine della Madonna che era stata dipinta su una lastra
di terracotta. Prima che toccasse il fondo, però, le acque, rigurgitando
improvvisamente, riportarono in superficie la sacra immagine, che prodigiosamente
galleggiava come se fosse stata di legno. I servitori, accorsi numerosi nella
stalla allagata, tentarono in tutti i modi di afferrare l’oggetto, ma ogni
sforzo risultava vano; a ogni prova la tegola si immergeva sfuggendo loro di
mano. Stanchi e increduli decisero di avvisare il loro padrone che, vestiti gli
abiti cardinalizi, scese nella stalla e senza difficoltà di sorta afferrò
quella benedetta effige di Maria. A quel punto, come per incanto, anche le acque
tornarono al loro posto e si riversarono nel pozzo. Calò il silenzio, il
cardinale si inginocchiò di fronte al dipinto e i presenti, commossi, si fecero
il segno della croce pensando al miracolo. L’indomani il porporato chiese al
pontefice Alessandro IV di recarsi sul posto per spiegargli l’accaduto e che
intendeva trasformare, a proprie spese, la stalla in una cappella dedicata a
Maria.
Il papa, dopo scrupoloso processo canonico, approvò il miracolo e acconsentì
alla realizzazione del luogo di culto. Da allora non è mai venuta meno la
grande venerazione dei romani verso l’immagine prodigiosa e la cappella,
inglobata nella chiesa attuale dopo molteplici interventi di ristrutturazione,
è sempre affollata di fedeli. È la prima che si incontra sulla destra e, ancora
oggi, dal pozzo che si trova dietro una finestrella di legno lasciata semiaperta,
viene attinta l’acqua benedetta che i fedeli bevono con fiduciosa devozione e
portano ai congiunti e ai propri conoscenti. Si ritiene. Infatti, che abbia
virtù taumaturgiche per il corpo e per l’anima. Naturalmente a sovraintendere questa
piccola Lourdes nel cuore di Roma è l’antica immagine sulla tegola di cui parla
la storia, opera di un pittore di scuola romana del XIII secolo e venerata appunto
come la Madonna del Pozzo.
(Gabriella Serio - I tesori nascosti di Roma)
Una tradizione popolare vuole che la statua della Madonna
del Parto, opera del Sansovino, conservata nella chiesa di S. Agostino, sia
invece di origine romana e rappresenti Agrippina con il braccio il piccolo
Nerone. Ciò non le ha impedito di diventare una delle Madonne più venerate di
Roma, come dimostra la strabocchevole quantità di ex voto e doni recati dai
romani, convinti che a lei Dio le dia “tutte vinte”. Il culto di cui godeva questa Madonna trova spazio in un
irriverente sonetto, di Gioacchino Belli, intitolato “La Madonna tanto miracolosa”. Qui, il poeta contesta, appunto, questa usanza, molto diffusa a Roma, di donare monili e altri oggetti preziosi alla
Madonna, come segno di riconoscenza “per grazia ricevuta”. Il Poeta descrive la
folla, che a forza di spinte e gomitate, si accalca per arrivare a toccare la
statua, oppure per posare su di lei gli oggetti preziosi: un orologio, una
catenina d’ora, un anello, un brillante, delle perle o altri oggetti di meno
valore; i tanti ex voto portati da poveri e da ricchi. Questo suscita in lui,
che era contrario ad ogni forma di superstizione, un sentimento di forte
fastidio e lo racconta cosi:
“Tra du’ spajere de grazzie dipinte
Se ne sta a sede co Gesù bambino,
co li su’ bravi orloggi ar borzellino,
e catene, e scioccaje, e anelli e cinte.
De brillanti e de perle, eh cià l’apparto:
tiè vezzi, tiè smaniji, e tiè collane
e de diademi ce n’ha er terzo e ‘r quarto.”
Ma, come abbiamo detto, tanta sovrabbondanza di ori e gemme non piace al Belli,
che così, severamente, conclude:
“Inzomma, accusì ricca e accusì ciana,
quella povera Vergine der Parto
nun è più una Madonna: è una puttana.”
(gioacchinobelli150.blogspot.com)
La chiesa di San Marcello nasconde
una stranezza in parte miracolosa e allo stesso tempo lugubre. All'interno è
custodito un bel crocefisso di legno scuro del XIV secolo, attribuito ad un
artista anonimo. È considerata l’opera che, a Roma, rappresenta in modo più
realistico la morte di Gesù. Tale realismo fu presto oggetto di dicerie e
storie, tramandate dal popolo fino ai nostri giorni. Si pensava, infatti, che
l’artista, per rendere più veritiera la creazione, avesse ucciso un povero
carbonaio nel sonno e catturata l’agonia del trapasso, disegnandone le
espressioni, utilizzate poi come modelli per la scultura. Il racconto risulta,
con molta probabilità, falso e si mostra arricchito dalla spettacolarità
macabra, tipica delle leggende. Ad ogni modo, il crocefisso va visto dal vivo, per
rendersi conto di quanto sembrino vere le espressioni di sofferenza e morte. Al
crocefisso sono attribuiti diversi miracoli, il più rilevante è quello che
avvenne durante i giorni della grande pestilenza del XVI secolo. Era il 1522
quando il crocefisso fu portato in processione per tutti i rioni della città.
Il percorso del corteo durò due settimane, perché dai primi istanti fuori dalla
chiesa, la gente iniziò a guarire e la peste a regredire. Ci fu gran clamore e
ogni rione voleva prolungare la durata della processione e farla passare per le
proprie strade. Ma un giorno, miracolosamente, l’epidemia ebbe fine, nonostante
la grande quantità di gente riversate in piazza, che avrebbe potuto far
aumentare il contagio.
(Claudio Colaiacomo – Il giro di
Roma in 501 luoghi)
“Se la s’ha da fare, la dev'essere
la più bella del mondo”. Così scriveva l’entusiasta Michelangelo in una lettera
del 1505, subito dopo aver ricevuto la commissione per la tomba di Giulio II. Non
s’immaginava di certo che l’opera, in cui voleva esprimere tutto sé stesso, non
si sarebbe mai compiuta. Per quasi quarant'anni, le contrastate vicende della tomba,
che inizialmente doveva sorgere al centro di San Pietro, furono la tragedia
della sua vita. Aveva solo trent'anni quando l’autore del David e della Pietà
fu chiamato da papa Giuliano della Rovere, affinché innalzasse per lui la più
grandiosa sepoltura mai concepita. La portò a termine che era quasi un vecchio
e triste alla soglia dei settanta e completamente diversa di come l’aveva
immaginata. Anche il luogo di destinazione era un altro: San Pietro in Vincoli.
Per il maestro toscano, avrebbe dovuto essere “un monumento classico alla
Cristianità”. Qualcosa che assomigliasse a un antico mausoleo, articolato su tre
livelli: il mondo terreno al primo, con i Prigioni (gli schiavi);
quindi il Mosè, che doveva fare da pendant alla statua di San Paolo, allusivi del mistero della rivelazione di Dio; al culmine il cenotafio del pontefice, l’immagine dell’impero spirituale della Chiesa. Giulio II fu entusiasta della visione michelangiolesca, tanto che ordinò all'artista di partire per le cave apuane, dove avrebbe potuto assicurarsi i marmi più adatti per l’impresa scultorea. Il soggiorno del Buonarroti, fra quei picchi, durò ben otto mesi, durante i quali selezionò con scrupolo ogni blocco da tagliare, che poi fece trasportare a Roma su muli, navi, rulli e slitte fino alla meta: piazza San Pietro. Quei marmi erano talmente tanti e superbi che andare ad ammirarli era diventata una delle più frequenti distrazioni popolari. Accadde però che il papa, tutto preso dal progetto della nuova basilica petriana, raffreddò il suo fervore per il maestoso sepolcro e ne differì l’attuazione forse anche, credette Michelangelo, per la “invidia di Bramante et di Raffaele da Urbino”. Lo scultore, deluso, lasciò Roma per due anni. Fu più che altro una fuga, oppresso dall'affronto di essere ripetutamente evitato dal papa, che aveva sospeso i pagamenti, lasciando scoperti i conti per i marmi, che di continuo arrivavano in città. Qui vi tornò solamente nella primavera del 1508, con la speranza di poter riprendere il lavoro. Ma il della Rovere aveva in mente per lui una nuova sfida artistica: l’affresco della Cappella Sistina. Dopo questo capolavoro, venne anche quello del Giudizio Universale, mentre sul soglio pontificio si erano nel frattempo succeduti Leone X, Adriano VI, Clemente VIII e Paolo III. Il Buonarroti, seppur preso da mille impegni, trascorse quegli anni perseguitato dall'ossessione di terminare la tomba di Giulio II, il cui progetto veniva più volte modificato o interamente rifatto. Furenti, peraltro, erano gli eredi del defunto papa, che reclamavano a gran voce l’opera, per la quale era stato già pagato. Stanco e ormai quasi vecchio, non si rassegnò mai alla soluzione, molto ridotta, che portò al monumento oggi custodito nella chiesa del rione Monti. Tuttavia, nulla può diminuire la maestà del Mosè, col suo sguardo “terribile e i suoi muscoli, tesi che risaltano come se tutta la statua palpitasse, viva, sotto l’impulso dell’ira.
Al pari delle celebri statue
romane, il Mosè ha raccolto intorno a sé le sue leggende, alcune vere, altre
probabilmente inventate. Si racconta che il suo artefice, stupito egli stesso
dal realismo di quel colossale blocco di pietra che aveva reso umano, abbia
scagliato il martello contro il ginocchio di marmo, esclamando le parole: “perché
non parli?”. Si dice pure che nella barba del profeta egli abbia ritratto il
profilo di se stesso e di papa Giulio II.
Il 15 marzo del 44 a.C. è la data
in cui si compì l’efferato assassinio di Gaio Giulio Cesare, all'apice di una
carriera militare e politica di enorme successo, che lo aveva portato a
concentrare quanto più potere possibile nelle sue mani, assumendo la carica,
senza precedenti, di dittatore a vita. Quel giorno il condottiero prese posto
tra gli scranni dell’aula del Senato che si riuniva pressa il teatro di Pompeo,
nel Campo Marzio. Immediatamente fu raggiunto dai congiurati che, fingendo di
chiedergli qualcosa, lo trafissero con la prima delle 23 pugnalate che lo avrebbero
ucciso. Cesare ebbe la forza di reagire, si alzò e uscì all'esterno, subito raggiunto
dai suoi assassini, che infierirono sul suo corpo tra il tumulto generale e l’incredulità
dei senatori ignari. Cesare cadde a terra sui gradini della Curia, morì mormorando
“tu quoque Brute fili mi” (“anche tu Bruto, figlio mio”) diretta a Marco
Giunio Bruto, suo figlio adottivo e principale congiurato insieme a Cassio. Si racconta,
ebbe la dignità di coprirsi le ferite e il volto con la toga in cui si avvolse,
prima di esalare l’ultimo respiro. La storia si compiva sotto lo sguardo della
statua di Pompeo che regge il globo simbolo del mondo. Il popolo della città si
strinse attorno a quell'uomo tanto amato, qualche giorno dopo l’assassinio, al Foro
dove fu allestita una pira funeraria per ardere la salma e far ascendere al
cielo la sua anima. Alcuni elementi di quegli infausti eventi sono in qualche
modo sopravvissuti fino ai giorni nostri, seppur alterati e modificati dal
trascorrere dei secoli. A Largo Argentina, all'interno dell’area archeologica a
cielo aperto, si trovano resti di alcuni templi.
Nel retro del secondo tempio
da destra, s’intravede una struttura in mattoni di tufo accanto ai resti di un’antica
latrina pubblica. È quel che rimane della Curia di Pompeo, il luogo dove si
consumò l’efferato delitto. La statua di Pompeo, muto testimone dell’assassinio,
è ancora in piedi, con lo sguardo a quella scena. Si trova all'interno di
palazzo Spada, in piazza Capodiferro, con il braccio atleticamente proteso,
come a volerci comunicare qualcosa. Una copia si trova anche in via del Monte della Farina, all'interno del cortile del palazzo che sorge sui resti dell'antica Curia.
Nel Foro Romano, invece, è possibile
rendere omaggio alla memoria di Giulio Cesare. Lungo la via Sacra si conservano
i resti di un piccolo altare in mattoni, celato all'interno di una minuta
costruzione. È proprio qui che, nel marzo del 44 a. C., fu cremata la salma di
Cesare tra la commozione generale: lacrime e lamenti che in qualche modo sono riusciti
ad attraversare due millenni di storia. E ancora oggi, la gente passa a lasciare un fiore e tante monetine.
(Claudio Colaiacomo - I love Roma)
«Il Carnevale di Roma non è una festa che si offre al popolo, bensì una festa che il popolo offre a se stesso... a differenza delle feste religiose di Roma, il Carnevale non abbaglia lo sguardo: non ci sono fuochi d'artificio, né illuminazioni, né brillanti processioni. Tutto ciò che accade è che, ad un dato segnale, tutti hanno il permesso di essere pazzi e folli come gli piace, e quasi tutto, tranne i pugni e le pugnalate, è lecito»
(Johan Wolfgang von Goethe - Viaggio in Italia 1788)
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250 gr. Farina
100 gr. Zucchero
Un cucchiaio olio evo
2 uova
50 gr burro
Buccia di un limone bio
Vino bianco
Sale
Strutto (o olio evo) per friggere
Zucchero a velo
Impastare fino ad ottenere una pasta elastica: farina,
zucchero, uova, burro, un cucchiaio di olio, la buccia di limone, una spruzzata
di vino, un pizzico di sale. Lasciate riposare l’impasto, coperto da un
canovaccio, per un’ora. Stendetelo con il matterello in sfoglia di circa un mm.
Tagliate strisce di circa 10 cm e friggetele in strutto (o olio) bollente poche
alla volta, fino a che avranno raggiunto un colore dorato. Scolatele su carta
assorbente e spolveratele con zucchero a velo.
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Evelyn De Morgan: La pozione d'amore (1903) |
Nella Roma barocca di Urbano VIII
trionfa l’arte e imperano le feste, ma anche il Tribunale dell’Inquisizione
lavora senza soste. Le leggi le fanno ancora gli uomini e le donne le
subiscono, assieme ai matrimoni imposti e ai maltrattamenti non puniti, prepotenze
a cui nessuno, nemmeno il Santo Padre, intende porre rimedio. La musica cambia,
però, quando nella città sul Tevere approda una bella forestiera, giovane
plebea di dubbia morale e cuore schietto. Le notizie biografiche su Giulia
Tofana sono scarse e lacunose. Nacque a Palermo, probabilmente a cavallo fra il Cinque e il Seicento. Secondo
alcune fonti era una sorta di ‘figlia d’arte’ perché sua madre (per altri, sua
zia) era Thofania d’Adamo, giustiziata a Palermo il 12 luglio 1633 con l’accusa
di aver avvelenato il marito Francesco. Orfana e poverissima, Giulia viveva nel
malfamato quartiere del Papireto, dal quale voleva fuggire e riscattarsi. E non
le fu difficile realizzare il suo desiderio, dal momento che, pur non essendo
istruita, era una ragazza attraente e molto intelligente. Adusa a commerci
carnali, anche con esponenti del clero, fu grazie all'amicizia stretta con un
frate speziale, che riuscì a rifornirsi delle “polveri” necessarie per mettere a
punto la sua miscela. Creò così l’acqua tofana (detta anche ‘Manna di San Nicola’
perché contenuta in una boccetta decorata con l’immagine di San Nicola,
ingegnoso espediente per non destare sospetti sul reale contenuto della
bottiglietta). Si trattava di un intruglio a base di arsenico, piombo e
probabilmente belladonna (sono ignote le esatte dosi di ciascun ingrediente)
mischiati in acqua bollente e che uccideva senza lasciare traccia.
Fondamentale
era versarne poche gocce al giorno, per provocare con il tempo un avvelenamento
tale da portare ad una morte apparentemente naturale, perché priva di sintomi. In un mondo pieno di rancori e di conflitti,
la bella Giulia non faticò a piazzare la sua merce. Difatti, non era per suo
diretto beneficio che l’aveva concepita, bensì per farne commercio. Tutto
sembrava filare liscio quando, a causa di un cliente maldestro, la giovane
rischiò di finire sotto la lente del tribunale dell’Inquisizione. Per sottrarsi
alle indagini e alle relative conseguenze, finì per accettare la proposta di un
altro frate, tale Girolamo, che la portò con sé a Roma, dove l’aspettava una
brillante carriera ecclesiastica. Approdarono insieme nell'Urbe di papa Urbano
VIII e Giulia prese alloggio in un bell'appartamento alla Lungara, nel rione
Trastevere, a spese dell’amante, di stanza nel convento di San Lorenzo. Pare
che poco tempo dopo, la siciliana avesse già imparato a scrivere, vestendo come
una dama d’alto rango, ormai dimentica degli anni bui di Palermo. Finché
un’amica, più cara delle altre, non si andò a lamentare, proprio con lei, dei
maltrattamenti subiti in casa dal marito, una piaga che all'epoca accomunava la
maggior parte delle spose. Costrette al matrimonio in età giovanissima,
subivano abusi e angherie d’ogni genere dai coniugi indesiderati. Fu così che
Giulia, forte del suo ascendente sull'amante, lo spinse a procurarle la materia
prima, noncurante di trovarsi nella città di San Pietro, sotto il naso dell’Inquisizione.
Spregiudicato quanto lei, Girolamo non oppose resistenze e si rifornì
dell’arsenico tramite uno zio compiacente, frate speziale alla Minerva.
Rispolverata la vecchia formula, Giulia tornò al lavoro vendendo, come sembra,
la sua preziosa merce quasi esclusivamente alle donne. Quei traffici
diventarono sempre più intensi. Dopo qualche anno, però, una delle “clienti”,
la contessa di Ceri, ansiosa di liberarsi del consorte e contrariamente alle
istruzioni ricevute, gli vuotò l’intera boccetta del veleno nella minestra,
provocandone la morte immediata e scatenando i sospetti dei parenti. L’indagine
di polizia condusse presto a Giulia. Arrestata, subì un processo, al pari delle
sue … seicento clienti (un solo uomo fu coinvolto nel processo). Fu condannata
a morte e giustiziata a Campo de’ Fiori nel 1659, mentre le mogli, che lei aveva accusato, furono murate vive a Porta Cavalleggeri, nel palazzo dell’Inquisizione. Alcuni storici riportano che il complice-farmacista di Giulia Tofana riuscì a farla franca, grazie ad una
specie di amnistia, così come esistono tradizioni diverse sulla fine della
protagonista di questa storia «nera»: secondo alcune fonti fu giustiziata, come
abbiamo detto, secondo altri, fu fatta fuggire da qualche alto prelato di cui
godeva i favori. Ancora a metà dell'Ottocento, il ricordo di Giulia Tofana e
della sua acqua, erano vivi, tanto che Dumas inserì un riferimento nel Conte di
Montecristo: "...noi parlammo signora di cose indifferenti, del Perugino,
di Raffaello, delle abitudini, dei costumi, e di quella famosa acqua tofana di
cui alcuni, vi era stato detto, conservano ancora il segreto a Perugia".
(Adriana Assini - Giulia Tofana)
(Viaggiatoricheignorano.blogspot.com)
(lagazzettadelmezzogiorno.it)
(Adriana Assini - Giulia Tofana)
(Viaggiatoricheignorano.blogspot.com)
(lagazzettadelmezzogiorno.it)
Esiste una via nascosta, senza
case o numeri civici, non è transitabile, è difficile capitarci per caso,
bisogna andarci di proposito. Ha un’attrattiva speciale, quasi medievale ma,
per la sua essenzialità, potrebbe essere collocata in qualsiasi periodo storico.
Il tempo si prende gioco di noi e si diverte a nascondere la sua natura e il
suo fluire. La si raggiunge seguendo il tratto di lungotevere che collega il
Foro Boario con Testaccio, poco dopo aver superato la chiesa di Santa Maria in Cosmedin. Quando arrivate al grande fontanone,
un tempo collocato davanti al tempio di Ercole vincitore e utilizzato come abbeveratoio per gli animali, dovrete attraversare e prendere la viuzza che vi trovate davanti, salendo qualche gradino.
La salita invita a un passo rallentato, che dà modo, anche al visitatore più frettoloso, di assaporare con calma la bellezza del posto. Arrivati in cima, vale la pena guardare la via dall'alto, perché vi troverete di fronte un’altra prospettiva. La strada continua sulla sinistra, incanalata tra il muro e i cespugli fino a una cancellata. Fermiamoci e guardiamoci attorno.
Il rumore della città si sente appena, l’atmosfera è statica, rallentata. Alcuni storici concordano nel collocare, proprio su questa via, una delle porte della cinta muraria di Servio Tullio, del IV secolo a.C., la porta Trigemina, a controllo del colle Aventino e della via Ostiense, probabilmente sistemata a mezza costa sulle pendici del colle, sia per motivi difensivi, sia per protezione dalle inondazioni del Tevere che, in questo punto, erano frequentissime. Il nome deriva, verosimilmente, dalla struttura in tre archi distinti, anche se gli storici non concordano se si tratti di archi paralleli o uno di seguito all'altro. Alla fine del percorso si arriva in via di Santa Sabina, costeggiando il Giardino degli Aranci, che ha la sua entrata in Piazza Pietro d'Illiria, accanto alla famosa fontana, ricostruita nel 1936, a cura di Antonio Munoz, che unì un'elegante vasca termale romana di granito egizio e il mascherone, realizzato su disegno di Giacomo Della Porta, originariamente situato a Campo Vaccino, trasferito poi al centro della terrazza sovrastante il porto Leonino, a decorare una modesta fontana-sarcofago. Quando furono realizzati i muraglioni, il mascherone fu smontato e trasferito nei depositi comunali, fino al 1936, quando, appunto, venne definitivamente posto nella sistemazione attuale.
(Romasegreta.it)
(Ilaria Beltramme - 101 cose da fare a Roma almeno una volta nella vita)
(Ilaria Beltramme - 101 cose da fare a Roma almeno una volta nella vita)
“Casetta de Trastevere, casa
de mamma mia, pare che er monno stia, cascanno appresso a te”
Così cantava Claudio Villa nel 1954,
in una delle sue canzoni melodiche di maggior successo. Il testo, straziante,
racconta l’abbattimento della casa dov'era nato, in via della Lungara. Oggi una
lapide, poco distante dal carcere di Regina Coeli, ricorda proprio quell'abitazione.
Claudio Pica, questo il suo vero nome, nasce nel 1926 da una famiglia povera,
madre lavandaia e padre ciabattino, che gli trasmetteranno l’amore per Roma e
per la sua gente. Trastevere gli dà, invece, un carattere orgoglioso e
spavaldo. Il padre Pietro, antifascista, entrava e usciva dal carcere. Prima di
scoprire la passione per la musica, il giovane Claudio faceva l'"acquacetosaro"
uno degli ultimi mestieri di strada che ancora sopravvivevano negli anni
Quaranta. Girava le strade annunciando il suo arrivo con un grido, antenato di
quegli acuti che diventeranno famosi nelle sue interpretazioni canore. La carriera
musicale in continua ascesa: partecipa, dapprima, a numerosi festival minori,
dove riscuote successi anche tra la critica più agguerrita. Villa ha una voce
candida, è un tenore e interpreta perfettamente la canzone melodica italiana
applicando abilmente quello stile anche alla tradizione romanesca. È proprio la
fedeltà e l’amore per la canzone melodica che lo porterà a vincere ben quattro edizioni
del Festival di Sanremo, un primato che condivide con Domenico Modugno. Quella stessa
passione è forse il motivo della lenta discesa nelle classifiche negli ultimi
anni di carriera. Villa non riuscirà a mantenere il suo stilo al passo con i
tempi, pur conservando la strepitosa popolarità che lo ha portato ad essere tra
gli interpreti italiani e romani di maggior successo. Durante la serata finale
del Festival di Sanremo, il 7 febbraio 1987, un commosso Pippo Baudo darà in diretta la triste
notizia della morte di Claudio Villa, a soli 61 anni. Le sue ceneri si trovano nel
cimitero di San Sebastiano, a Rocca di Papa.
(Claudio Colaiacomo - I Love Roma)
I nasoni comparvero in città all'indomani
della tanto sospirata unità d’Italia. Con l’aumento della popolazione si rese,
infatti, necessario riorganizzare tutto il sistema delle acque cittadine. Fu
così che, su iniziativa dell’assessore Rinazzi, vennero istallati nel 1874 i
primi venti nasoni a uso e consumo del popolo romano. Col tempo la loro
diffusione seguì di pari passo la crescita urbana ed è per questo che sono una
presenza familiare anche a Testaccio e alla Garbatella, a Prati e a Balduina.
Che poi, a volerli guardare bene, non sono neanche tutti uguali. I più antichi
non avevano neppure la celebre cannella all'ingiù, ma tre teste di drago poste
più o meno alla metà del cilindro.
Di questo primo modello, quasi del tutto
scomparso, ne restano solo tre esemplari: uno in piazza del Pantheon, ai piedi
della grande fontana, l’altro in via delle Tre Cannelle, una traversa di via IV
Novembre e l’ultimo si incontra in via di San Teodoro, a ridosso del Palatino. Se, per molti
aspetti, Roma non è alla pari nei servizi con le altre capitali del mondo, dal
punto di vista dell’approvvigionamento idrico è all'avanguardia, eccome! E
cascasse anche il Colosseo, ma sui celebri nasoni ci si può sempre contare: dai
circa 2500 che sono sparsi in città, l’acqua vi scorre libera e copiosa,
limpida e fresca. Anche se molto spesso, specie in estate, scoppia la polemica, perché tanta acqua gratis pare uno spreco.
Per un periodo vennero allora
installati dei rubinetti per limitarne il consumo, ma alla fine si decise di
rimuoverli, perché l’acqua nelle tubature si riscaldava troppo, ristagnando in
modo sospetto. Oggetti amati dell’arredo cittadino, al pari dei monumenti, anche
loro, ogni tanto, devono fare i conti con i vandali o con gli amanti di souvenir.
Se quello di Campo de’ Fiori venne divelto da teppisti, in una serata alcolica
di primavera, l’altro di via Casal de’ Pazzi spari addirittura dalla notte al
giorno, lasciando i cittadini del quartiere e il Municipio decisamente a bocca
aperta, per non dire asciutta. Ma per breve tempo, perché uno nuovo e fiammante
fu presto forgiato a riparare il torto subito.
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Nasone in via di San Teodoro (seminascosto dalla vegetazione addossato alla parete dell'Ambasciata del Belgio) |
Raramente
un monumento equestre è al tempo stesso tomba dell’eroe che vuole rappresentare.
In effetti, il monumento che lungo la salita del Gianicolo precede di un
centinaio di metri quello di Giuseppe Garibaldi, contiene nel suo basamento le
spoglie di Anita Garibaldi, la giovane ventottenne di origini brasiliane che
diede al generale tre dei suoi figli. Si chiamava Ana Maria ed era nata in una
piccola frazione di Laguna, nel sud del Brasile, il 30 agosto del 1821. Figlia di
un mandriano, imparò subito a cavalcare e dubitiamo fortemente che lo facesse
nel modo aggraziato che volle per lei lo scultore Mario Rutelli (bisnonno del politico
Francesco). Di carattere ribelle, mascolino, spregiudicato, montava sicuramente
come un’amazzone, non certo con lunghe gonne e le gambe insieme da un solo
lato, con una posa che ricorda Audrey Hepburn in Vacanze romane, scarrozzata
sulla vespa dal giovane Gregory Peck. Ana Maria, che era per tutti “Aninha”, un
diminutivo portoghese del suo nome, catturò la mente e il cuore di Garibaldi,
fulminato dal coraggio battagliero di quella donna, sempre in prima fila quando
c’era da combattere per la libertà, per le istanze sociali e contro il potere
assoluto. A fianco di Garibaldi, Aninha divenne Anita e seguì l’eroe di Caprera
in modo instancabile, fin quando gli stenti, le difficoltà e una nuova gravidanza
incipiente, la fermarono per sempre a Mandriole di Ravenna, dove era arrivata la
coppia, con un manipolo di fedelissimi del generale, fuggendo da Roma, dopo il
fallimento della Repubblica Romana e con l’intento di aggregarsi alle forze
veneziane, che resistevano agli austriaci. Sepolta in fretta nella sabbia, per
evitare di lasciare tracce e consentire la fuga dei pochi ricercati, le sue
spoglie verranno disseppellite sette giorni dopo e tumulate prima a Mandriole,
poi a Nizza, quindi a Staglieno e infine il 2 dicembre 1932 nella base del
monumento al Gianicolo. Povera, coraggiosa Anita, che probabilmente mai avrebbe
cavalcato nel modo in cui si è voluta tramandare la sua immagine, immagine
comunque bella e aggressiva, esattamente come era nelle corde di questa donna
tanto emancipata e intraprendente.
(Rinaldo Gennari - Stravaganze romane)
Quando nella seconda metà del XVI secolo Ciriaco Mattei decise di trasformare una semplice vigna sulle pendici del Celio in una splendida villa, a Roma si respirava un clima di magnificenza. Discendente di un’antica e nobile famiglia, anche il duca partecipa alla corsa, insieme a cardinali, papi e aristocratici, per assicurarsi un luogo privilegiato per lo svago e l’ozio letterario sulle alture appena fuori dal centro abitato.
Era, a quei tempi, un modo per affermare il proprio status e i proprietari non badavano a spese per farsi costruire dimore “di campagna”, dove richiamare tutto il lusso dei palazzi di città. Per questo, si avvalevano, in genere, del talento dei migliori artisti in circolazione. Cosi nacque Villa Celimontana, in origine chiamata Mattei, dal nome dei primi proprietari.
Incaricato dell’opera
fu l’architetto e scultore Giacomo del Duca, discepolo e collaboratore di
Michelangelo, già impegnato nella sistemazione di villa Silvestri presso il
Colosseo e degli Orti Farnesiani sulle pendici del Palatino. E, grandissima, c’era
da aspettarselo, fu subito la fama del luogo. Il Casino nobile venne inoltre
arricchito all'interno dagli affreschi di Andrea Lilli e Andrea Sacchi e i
giardini, decorati con pianti pregiate, labirinti e fontane scenografiche.
Ciononostante, quello che negli anni attirò sempre più la curiosità dei visitatori fu, in realtà, la preziosa raccolta di reperti archeologici d’epoca romana, elegantemente sparsa per tutto il parco, a confondersi con la vegetazione.
Statue, are e colonne, molte delle quali rinvenute sul posto durante gli scavi, divennero oggetto di studio da parte degli intellettuali del tempo e fecero del luogo una delle mete obbligate di visita e sosta di numerosi artisti e personaggi della buona società.
Ancora oggi, anche se in uno stato piuttosto precario, si può ammirare il pezzo più celebre dell’antica collezione. Si tratta dell’obelisco egizio di Ramsete II, gemello di quello di Piaza della Rotonda al Pantheon, donato a Ciriaco Mattei dal Senato di Roma nel 1528.
Nonostante le sue dimensioni, non è proprio facile scorgerlo, perché quasi del tutto mimetizzato in un boschetto di lecci e pini a sinistra del viale d’ingresso. Un aneddoto rivela che durante la sua sistemazione le corde che lo sostenevano cedettero, stritolando a un povero operaio mani e parte di un braccio che, amputate, restarono lì, sotto il pesante monolite. Sebbene il marmo giochi ancora un ruolo importante nella decorazione del parco, le sculture più belle sono oggi custodite al Vaticano, perché vendute già alla fine del Settecento da Giuseppe Mattei. Esse andarono a costituire il primo nucleo del Museo Pio Clementino. Estinta la casata, all'inizio dell’Ottocento, la villa passò di proprietà all'arciduchessa Marianna d’Austria, quindi, al principe Manuel Godoy, ministro di Carlo IV di Spagna, che fece eseguire alcuni scavi in cui si rinvennero due preziosi pavimenti in mosaico ancora conservati nell'edificio. L’ultimo padrone, il barone bavarese Riccardo Hoffmann, si vide confiscare la proprietà dallo Stato italiano come bene ex nemico a seguito della guerra del 1915-18. A lui, si deve il pittoresco tempietto neogotico, felice oasi d’ombra in uno dei parchi pubblici più affascinanti della città.
Con la legge del 18 marzo 1926 lo Stato italiano cedette al Comune di Roma, in uso perpetuo, Villa Mattei Celimontana, limitatamente all’area del parco, mentre il palazzo fu destinato a divenire la sede della Società Geografica Italiana. Il 1 ottobre 1926 la villa fu aperta al pubblico.
All'interno
della villa è possibile visitare, previa prenotazione, il Ninfeo dell’Uccelliera,
ambiente sotterraneo vivacemente
ornato che rappresenta oggi uno dei pochi elementi sopravvissuti dell’assetto
originario della Villa Mattei. La sua realizzazione risale ai lavori di
sistemazione delle pendici occidentali del giardino, eseguiti tra il 1585 e il
1590.
In seguito, a causa di rimaneggiamenti del muro di sostegno del
terrazzamento superiore e di problemi strutturali e statici, fu eliminata
qualsiasi traccia del prospetto esterno del ninfeo che venne quindi murato
nella seconda metà dell’Ottocento. Riscoperto fortuitamente durante dei lavori
per una conduttura d’acqua, è stato di recente restaurato e reso praticabile al
pubblico, ripristinando l’antico accesso nel muro di sostruzione.
Lo spazio è composto da una gradinata, che
sale dal livello del viale a metà circa del muro di sostegno e da una camera
semicircolare. La scala corre parallela al muro e presenta, all'attacco
inferiore, un ambiente d’accesso decorato
da mosaico pavimentale
in tessere di
marmo di vari colori raffigurante un’aquila, simbolo araldico della famiglia Mattei.
Giunge poi, al livello superiore, fino a un pianerottolo decorato da un mosaico pavimentale in tessere di marmo di vari colori a imitazione dei tavoli realizzati con mosaici di pietre pregiate di gran voga a Roma nella seconda metà del Cinquecento.
Qui si apre un ninfeo absidato, ingentilito, nella parte inferiore, da decorazioni a tartari, con scaglie di marmo, cubetti di pomice e concrezioni calcaree; nella parte superiore da moduli geometrici e motivi a grottesche, caratterizzati da vivaci colorazioni ottenute mediante triturazioni di marmi colorati impastate a intonaco dipinto, il tutto arricchito da conchiglie di vario genere. Lungo il perimetro dell’abside, una volta funzionante come fontana, sono posti graziosi sediletti in muratura ricoperti di peperino.
(Gabriella Serio - I tesori nascosti di Roma)