La morte imprigionata

giugno 09, 2021

Si è frastornati quando si entra nella chiesa di Santa Maria del Popolo: si va dritti alla cappella Cerasi per ammirare le due preziose tele di Caravaggio che rappresentano la Crocefissione di Pietro e la Conversione di Paolo, nonchè la splendida pala d'altare di Annibale Carracci "L'Assunzione della Vergine", davanti alle quali si resterebbe incantati per ore.


C'è poi la cappella Chigi, disegnata da Raffaello per il noto banchiere Agostino, (per il quale aveva già affrescato la Villa Farnesina), e arredata con opere del Bernini, quali “Daniele e il leone” e “Abacuc e l’angelo”,


ma anche la cappella Della Rovere affrescata dal Pinturicchio.


Eppure fra quadri inestimabili, statue magnifiche, affreschi prestigiosi, non sfugge, uscendo dalla chiesa, quel teschio "imprigionato", davanti al quale ci si ferma sempre un po’ perplessi.


La leggenda racconta che, nel Seicento, alcuni membri della Compagnia della Buona Morte trovarono un cadavere lungo la via Flaminia. Fra i loro compiti c'era anche quello di raccogliere i morti e seppellirli nella chiesa più vicina. Quando arrivarono a Santa Maria del Popolo, però, era notte fonda, trovarono chiuso e nessuno aprì loro. Non avendo voglia di aspettare, forzarono la porta e lasciarono il morto sul pavimento.


Il giorno dopo i monaci, trovando il morto nella chiesa e la porta forzata, andarono a lamentarsi dal papa e quando questi chiese loro chi fosse stato, la risposta fu: "E’ stata la morte"! Il papà allora rispose: "Metteremo in prigione la morte". Venne così costruita una cella e simbolicamente vi si rinchiuse uno scheletro. La storiella è divertente, ma totalmente inventata. In realtà fu l’architetto romano Giovanni Battista Gisleni a progettare la propria tomba nel 1670 (due anni prima della sua morte).


Il monumento è composto da un suo ritratto nella parte alta, con una scritta che dice: “NEQUE HIC VIVUS”, (“né vivo qui”), sotto il ritratto una lapide riporta i dati e una descrizione del personaggio ivi sepolto;


nella parte in basso troviamo il nostro scheletro imprigionato, in marmo bianco, e l’incisione “NEQUE ILLIC MORTUS”, (“né morto là). Fra la lapide e lo scheletro, separati da uno stemma, due medaglioni in bronzo.  A sinistra è rappresentato un albero secco dal quale germogliano nuovi rami, mentre a destra vediamo la trasformazione di un bruco in farfalla. Questo doppio simbolo di morte e di nuova vita era la speranza di resurrezione in cui credeva Gisleni.




(Annette Klingner - 111 luoghi di Roma che devi proprio scoprire) 

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