La statua di Lord Byron

gennaio 14, 2021


A Villa Borghese, nei pressi di Porta Pinciana, in via della Pineta, una statua colpisce la mia attenzione: Lord Byron. È raffigurato nella posa classica dei poeti, seduto su di uno scranno di marmo, con un libro aperto nella mano sinistra, la penna nella destra, poggiata sul mento. Sul piedistallo, sono incisi brani tratti dal poema di Byron, Il pellegrinaggio del giovane Aroldo, dedicati all’Italia:

Fair Italy!
Thou art the garden of the world, the home
Of all Art yields, and Nature can decree,
Even in thy desert, what is like to thee?
Thy very weeds are beautiful, thy waste
More rich than other climes’ fertility;
Thy wreck a glory, and thy ruin graced
With an immaculate charm which cannot be defaced

Figlio di un padre che non conobbe mai e di una madre che lo asfissiò, ossessionandolo sia fisicamente che psicologicamente, George Gordon Noel Byron, più conosciuto come Lord Byron, nato a Londra nel 1788, divenne, come è noto, il più celebre poeta dei suoi tempi. Non solo: la sua vita faticò molto a dividersi dalla sua arte: Byron anzi fu in un certo senso, il vero perfetto dandy. Chiacchieratissimo da vivo per i suoi scandali e per le continue eccentricità (come quando si fece rinchiudere nella Cella del Tasso, a Ferrara o come quando attraversò, a nuoto, lo stretto dei Dardanelli) Byron morì nel 1825 in Grecia, a Missolungi, in seguito a una febbre reumatica contratta a Cefalonia, che degenerò in meningite delirante. E proprio come accade per le rockstar di oggi, la sua morte divenne un evento, lasciando inconsolabili fan a lamentarne la dipartita. Poco tempo dopo la morte, alcuni amici raccolsero la somma di 1000 sterline per commissionare una statua dello scrittore. Tra i vari scultori pretendenti fu scelto il danese Bertel Thorvaldsen, il quale si trovava in quel periodo in Italia. 


La scelta non fu casuale: lo scultore aveva già ritratto Byron vivo nel brevissimo e intenso soggiorno del poeta a Roma, nel suo studio di piazza Barberini, per incarico di John Cam Hobhouse, che del poeta era compagno di viaggio e studio. Con tanto di lodi sull’artista da parte dello stesso Byron, il quale l’aveva definito nei suoi diari “il migliore dopo Canova, al quale, anzi, alcuni lo preferiscono”. Il busto, dopo varie peregrinazioni, era finito a Londra nella sede della casa editrice di John Murray, e fu dunque utilizzato come modello per la nuova e più grande opera. La statua fu iniziata dallo scultore nel 1829, ma Thorvaldsen impiegò molto tempo per completarla poiché, proprio a causa della fama scandalosa che avvolgeva ancora la figura di Byron, fu rifiutata da tutte le istituzioni che avrebbero dovuto ospitarla: il British Museum, la cattedrale di St. Paul, l’abbazia di Westminster e la National Gallery, trovando finalmente la sua collocazione nel 1834 nella biblioteca del Trinity College di Cambridge. In realtà Thorvaldsen contraddisse, non si sa quanto consciamente, la volontà di Byron che aveva sempre voluto essere ritratto come uomo di azione e mai come poeta. In ogni modo dopo le iniziali difficoltà, la statua ebbe invece un grande successo e ne seguirono numerose copie, una in ogni città dove Byron aveva soggiornato e quindi anche questa di Roma, che si può ammirare nel cuore di Villa Borghese.


Byron era giunto a Roma nella primavera del 1817, realizzando il sogno che aveva di visitare la città che, da lontano, lo aveva sempre ammaliato. Appena arrivò, andò ad abitare nella centralissima piazza di Spagna, al numero 66, ed iniziò subito a perlustrare la città, in sella al suo cavallo. Ne ricavò subito una grandissima impressione che lo portò a scrivere al suo editore, John Murray, “…di Roma non vi dirò nulla: è indescrivibile…”


Le sue peregrinazioni lo portano al Colosseo, al Pantheon, a San Pietro, sul Palatino e perfino fuori Roma, a Frascati, Albano e Ariccia. Nell’arco di quei ventidue intensissimi giorni, il dandy pallido e fascinoso ebbe modo anche di scoprire il lato tragico contemporaneo di Roma. In una lettera indirizzata sempre a Murray, descrive minuziosamente l’esecuzione cui gli accadde di assistere: tre ladri decapitati in piazza del Popolo, da Mastro Titta, con l’accusa di “omicidi e grassazioni”. Forse fu proprio l’aver assistito a questo spettacolo cruento uno dei motivi che spinsero Byron a interrompere presto il suo soggiorno a Roma: dopo ventidue giorni e notti di ruderi e cavalcate, di frequentazioni dell’alta società romana e di soste al Caffè Greco, il poeta decise di far ritorno al Nord, portandosi dietro i fantasmi di Roma che ritornano a farsi vivi nei suoi poemi.



(Fabrizio Falcone - Roma segreta e misteriosa)

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