13° ITINERARIO - RIONE VIII S. EUSTACHIO (PRIMA PARTE)

febbraio 09, 2024

Totale percorso km. 1.7 questa la mappa


Il rione prende il nome dal santo che, secondo la leggenda, durante una battuta di caccia, ebbe la visione di un cervo con una croce fra le sue corna. Placido, questo il suo nome, era un capitano delle milizie sotto l’impero di Traiano. A seguito della visione si convertì, prendendo il nome di Eustachio. Qualche anno dopo, durante l’impero di Adriano, venne martirizzato con la moglie e i figli. Sulla sua casa, diventata luogo di culto, sorse quella che oggi è la chiesa di Sant'Eustachio. È senz'altro uno dei più piccoli rioni di Roma, ma ricco di monumenti antichi, in quanto nato sulle rovine delle Terme di Agrippa e su quelle di Nerone. I materiali degli antichi edifici furono riutilizzati per la costruzione dei nuovi e, nel complesso, è un rione molto elegante. È qui che è nato Giuseppe Gioacchino Belli ed è qui che fu fondata l’antica università della Sapienza. Molte le chiese che popolano il rione, alcune appartenenti a comunità nazionali ed europee: gli Spagnoli, i Portoghesi, i Francesi. Iniziamo il nostro itinerario proprio da una chiesa, voluta dalla congregazione milanese di Roma, per onorare il loro cittadino, cardinale Carlo Borromeo, da poco canonizzato: San Carlo ai Catinari.
Sorge sulla piazza Benedetto Cairoli, sul confine con il Rione Regola.  In tempi antichi, esisteva una piccola chiesa, dedicata a San Biagio, che nel 1575 Gregorio XIII regalò ai Chierici Regolari, detti anche Barnabiti. Nel 1612 iniziò l’edificazione della nuova chiesa, su progetto di Rosato Rosati, che fu dedicata ai santi Biagio e Carlo ai Catinari, dal nome dei fabbricanti di catini, che avevano qui le loro botteghe. La cupola venne completata nel 1620, sempre ad opera del Rosati, mentre la grandiosa facciata in travertino è di Giovanni Battista Soria, che la realizzò intorno al 1635-38. A due ordini, nell'inferiore si aprono i tre portali, mentre nel superiore si apre un finestrone centrale, con ai lati due finestre cieche. Sormonta il tutto un timpano triangolare. La chiesa fu consacrata nel 1722, da papa Clemente XII. L’interno è a croce greca allungata, con la grande cupola al centro dipinta dal Domenichino, con le quattro virtù cardinali (Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza). Altre opere importanti sono nel coro, dietro l’abside, dove si trova un affresco staccato di Guido Reni, rappresentante San Carlo in preghiera, che si trovava sulla facciata esterna della chiesa e sull'altare maggiore, opera di Martino Longhi, dove si trova la bellissima pala con San Carlo che porta in processione il Sacro Chiodo, una delle ultime opere di Pietro da Cortona. Altre opere sono custodite nelle cappelle laterali, tra le quali, meritevole di nota, la terza a destra, la cappella di Santa Cecilia. Purtroppo la chiesa è in fase di restauro, da anni e non è, al momento, visitabile. Costeggio il suo lato a sinistra (guardando la facciata della chiesa) ed entro in via del Monte della Farina. E’ una strada molto antica e deve il suo nome agli uffici frumentari, istituzione che svolgeva un ruolo molto simile a quello svolto del Monte di Pietà, solo anziché denaro, concedeva in prestito grano o altri prodotti della terra. Superato il muro laterale della Chiesa, mi trovo davanti al civico 30 e alzando gli occhi, noto che la parte finale dell’edificio, ricorda molto una torre medioevale.
Un’iscrizione, fra il portone e le finestre del primo piano, infatti, ci conferma che questo edificio apparteneva alla scuola di calzolai germanici e ingloba una torre medievale in blocchetti regolari di tufo, databile al XIII secolo, di cui rimane visibile solo un lato, dal cortile interno. Questa torre potrebbe far parte, secondo un recente studio, di un unico complesso fortificato, che aveva come nucleo centrale il Palazzo Orsini e la Torre Arpacata e, collegate tra loro, da un muro di cinta, tre torri: questa in via del Monte della Farina, una situata in vicolo dei Chiodaroli e l’altra in Via dei Chiavari 38. Adiacente a questo edificio, ne inizia un altro, molto importante, caratterizzato dal forte bugnato del pianterreno e dal bugnato liscio dei tre piani superiori.
Anche qui una lunga iscrizione, lungo il marcapiano fra il pianterreno e primo piano, tradotta, ci indica essere stato costruito nell'anno 2646 dalla Fondazione di Roma o nell'anno del Signore 1893, al posto delle taverne che ricoprivano i ruderi del portico e della Curia di Pompeo, nella quale fu ucciso Giulio Cesare.  A ricordo del luogo su cui sorge l’edificio, venne qui collocata la copia della statua di Pompeo (l’originale si trova a Palazzo Spada) ai piedi della quale Cesare fu assassinato. Ma la cosa che mi affascina di più entrando in questo cortile, è la facciata interna dei palazzi storici, con il loro aspetto medievale.
Ad angolo con l’edificio faccio una piccola deviazione in via dei Barbieri, per andare a vedere Palazzo Cavallerini Lazzaroni ed il suo meraviglioso cortile. Il palazzo fu costruito intorno al 1676 per il futuro cardinale Giovan Giacomo Cavallerini. Passò poi alla famiglia dei Lazzaroni, originaria di Bergamo e nominati baroni dal re Umberto I di Savoia.
Dopo essere stata sede di una scuola pubblica per sordomuti nel Settecento, divenne, dopo l’Unità di Italia, sede della Banca Nazionale Italiana, fino al trasferimento di quest’ultima in via Nazionale. A quel punto divenne sede della Società Filarmonica di S. Gioacchino. Ora ospita uffici e abitazioni private. Nel suo androne si trova uno stemma di Clemente X e un sarcofago risalente al IV secolo. In fondo all'androne si apre un cortile, dove è presente una fontana con mascherone e dove l’atmosfera che si respira è quella della Roma sparita.
Davanti all’alto portale architravato, si trova la piccola chiesa di Gesù Nazareno, le cui origini sono piuttosto incerte. Ebbe diversi cambi di dediche, dal Crocefisso alla Santissima Trinità, divenne poi nel XVI secolo la chiesa del Collegio dei Barbieri che la fece riedificare nel 1622. I barbieri che erano riuniti in Università, a quel tempo svolgevano un’attività di leggera medicina, praticando salassi, estrazioni dentarie e cura di ferite leggere, per questo la chiesa venne dedicata ai due santi medici Cosma e Damiano. Venne nuovamente ricostruita negli anni 1722-1724 per essere poi sconsacrata nel 1870. Infine, grazie all'arciconfraternita di Gesù Nazzareno, alla quale fu affidata, nel 1896, venne nuovamente consacrata e prese definitivamente l’attuale denominazione.
Torno di nuovo su via Monte della Farina e arrivo in via del Sudario, proprio di fronte al Cinquecentesco Palazzo Caffarelli Vidoni, la cui entrata principale oggi è su Corso Vittorio Emanuele II, mentre un tempo era situata al civico 14 proprio in questa via. È un edificio molto elegante, del Lorenzetto, discepolo di Raffaello, che presenta molti elementi caratteristici dello stile del grande Maestro. Il basamento è a bugne in peperino, con finestre a timpano triangolare che si alternano a portoni ad arco con bugne a raggiera. Le finestre del piano nobile, con piccola balaustra, sono inserite fra una coppia di semi colonne doriche.
Svolto a destra, in via del Sudario, e trovo, sulla mia destra, la chiesa dalla quale prende nome la via: Chiesa del Ss. Sudario dei Piemontesi, una delle tante chiese “invisibili” di Roma, per la posizione un po’ decentrata rispetto al ben più trafficato Corso Vittorio Emanuele. La facciata è a due ordini divisi da un caratteristico timpano spezzato ed è opera di un restauro effettuato nel 1678 da Carlo Rainaldi. Venne costruita agli inizi del 1600 dall'architetto Carlo di Castellamonte, come sede di una confraternita di Piemontesi residenti a Roma, i quali avevano come obiettivo quello di venerare la copia della Sacra Sindone conservata a Torino. Dopo il restauro del Rainaldi, venne devastata dai francesi nel 1798 che la trasformarono in una scuderia prima e in un magazzino poi. Di nuovo restaurata nel 1856, da Giacomo Monaldi, dopo l’Unità di Italia divenne cappella palatina, sotto il patrocinio dei Savoia: in pratica divenne la loro cappella privata.
Entrando nella chiesa, infatti, troviamo le figure di cinque beati di casa Savoia: Ludovica, Amedeo, Umberto, Bonifacio e Margherita, opera di Cesare Maccari e di Giovan Domenico Cerrini detto “il Cavalier Perugino”. L’interno è a navata unica, con due cappelle laterali, sopra l’altare maggiore è custodita la copia della Sacra Sindone, avente le stesse misure dell’originale, inserita in un’opera in stucco di Antonio Raggi che riproduce una “gloria di Angeli con il Padre Eterno”. Lo stesso nome della chiesa è strettamente legato ai Savoia, in quanto il termine “sudario” si riferisce, appunto, alla Sacra Sindone, che è affidata ai Savoia fin dal 1430 ed è tutt'ora conservata nell'omonima cappella, nel Duomo di Torino.
Dal 1948 è sotto il patronato della Presidenza della Repubblica Italiana. Adiacente alla chiesa è la cosiddetta Casa del Burcardo, un edificio in stile tardogotico tedesco, fatto costruire dal maestro delle cerimonie pontificie Giovanni BurKardt, il cui cognome venne italianizzato in Burcardo.  Ingloba al suo interno un’antica torre, che veniva chiamata “Argentina” da “Argentoratum”, antico nome latino di Strasburgo, da dove proveniva il prelato. Da qui il nome che si diffuse nella zona circostante e che è ancora conservato nel Largo di Torre Argentina. Dopo vari passaggi di proprietà ed un restauro nel 1931 che salvò la parte nobile in via del Sudario e demolì la parte riservata alla servitù, che si affacciava su via dei Barbieri, è stata per moltissimi anni sede della biblioteca e del museo teatrale della Società Italiana Autori ed Editori fino al 2011. Poco oltre, troviamo un’altra chiesetta S. Giuliano dei fiamminghi, chiesa nazionale della comunità belga.
Molto antica, risale probabilmente all’VIII secolo, quando le Fiandre furono convertite al cristianesimo, durante il papato di Gregorio II. In una nicchia della facciata si conserva una statua seicentesca di San Giuliano. Prima di arrivare a Largo di Torre Argentina, mi volto una volta ancora ad osservare la via appena percorsa e la vista della cupola di Sant'Andrea della Valle in fondo lascia senza fiato!
Pochi passi ancora e siamo in largo di Torre Argentina, svolto a sinistra, attraverso Corso Vittorio Emanuele e imbocco via Monterone. La via, come anche la chiesa, prendono il nome dalla famiglia senese dei Monteroni che qui risiedettero. Il loro palazzo occupava l’area tra le vie di Torre Argentina, de’ Nari e quella che stiamo percorrendo e ne possiamo vedere l’aspetto nei due edifici cinquecenteschi ai civici 4 e 6. Il primo, più alto, ha finestre architravate e un portale con cornice modanata, mentre l’altro, sempre con finestre architravate, ha un portale con grandi bugne a raggiera ed è più basso. Di fronte ad essi, troviamo la Chiesa di Santa Maria in Monterone.
Non si hanno notizie certe riguardo le sue origini, c’è chi ritiene sia sorta sulle rovine di un tempio pagano del I secolo a.C. e chi, invece, sostiene essere stata edificata sull'area di un complesso termale, le cosiddette Terme di Agrippa. È comunque molto antica e venne menzionata, per la prima volta, in una bolla di Papa Urbano III del 1186. Restaurata una prima volta nel 1245 e, successivamente, nel 1597, quando venne anche rialzato il pavimento, per preservarla dalle inondazioni del Tevere. Ricostruita nel 1682 assunse l’aspetto attuale, con la facciata a due ordini tripartiti da paraste doppie; nell'inferiore apre un portale con timpano curvilineo e due finestre ovali ai lati, mentre in quello superiore, una grande finestra centrale e due più piccole laterali. Termina con un timpano triangolare all'interno del quale una dedica alla Vergine. L’interno è a tre navate divise da otto colonne, i cui capitelli ionici sono tutti diversi tra loro, cosa che fa pensare a del materiale di spoglio e poggiano su arcate, unica testimonianza rimasta dell’originaria chiesa medievale. Sull'altare maggiore una tela “Vergine tra S. Pietro Nolasco e S. Pietro Pascasio” attribuita a Pompeo Batoni, mentre sulla sinistra il monumento funebre del cardinale e arcivescovo di Genova, Stefano Durazzo.
Annesso alla chiesa un convento che compone con essa un insieme molto suggestivo. Era l’antico ospizio voluto dai Monteroni per i pellegrini senesi. Restaurato nella prima metà del Settecento da Giuseppe Sardi, è un noto capolavoro del barocchetto settecentesco e venne affidato ai padri Mercedari, per poi passare, nel 1815 ai Redentoristi che ancora lo gestiscono. La facciata stretta e lunga presenta un bel portale con una ricca cornice e una finestra ovale che lo sovrasta; al piano centrale, quello nobile, una bellissima finestra ad arco, decorata con festone e conchiglia. Al secondo ed ultimo piano, una finestra, anch’essa ovale e decorata con una conchiglia. Chiude il tutto un elegante cornicione su mensole. Subito dopo la chiesa, ad angolo con via dei Redentoristi, si trova il Palazzo Vipereschi Capranica del Grillo. I primi proprietari, i Vipereschi lo tennero fino al 1633, quando passò di proprietà all’Arciconfraternita della Ss. Annunziata, che dal 1791 ne mise in affitto i vari appartamenti. Proprio in quell’anno nacque, in questo palazzo, Giuseppe Gioacchino Belli e una targa apposta sulla parete che affaccia in via dei Redentoristi, ce lo ricorda.
Curiosa di vedere l’intero edificio, percorro pochi metri di questa via e in effetti non resto delusa. All'angolo del palazzo con un piccolo spiazzo che si apre sulla via dei Redentoristi c’è una strana colonna di granito rosa con un capitello sormontata da una bizzarra figura con ali di drago, che probabilmente si riferisce allo stemma dei Vipereschi. La cosa deliziosa è proprio questa parte rientrante del palazzo che forma un angolo retto, con i due portali sormontati da un bellissimo balcone angolare su mensole, con una decorazione che si ripete su tutte le finestre architravate del primo piano. Una lapide qui ci ricorda che “in questo palazzo vissero Adelaide Ristori Capranica del Grillo grande attrice drammatica e Aldo Palazzeschi insigne poeta e scrittore”.
Torno su via Monterone e adiacente al palazzo Vipereschi troviamo, sempre del Cinquecento, Palazzo Andosilla, dove nacque la beata Chiara che fondò l’ordine delle Carmelitane Scalze.  Pochi passi ancora e comincio a vedere il caratteristico campaniletto di sant'Eustachio, impaziente di arrivare nella famosa piazza. Ma ci sono ancora cose interessanti da vedere in questo breve tratto di strada che mi separa dalla meta. Intanto arrivo in Piazza dei Caprettari (anche se talmente adiacente a piazza Sant'Eustachio da sembrare un unico slargo). Prende il nome, come è facile intuire, dai venditori di capretti e abbacchi, che svolgevano qui il loro commercio dall'inizio del Seicento. Su questa piazza si apre il portale di Palazzo Lante.
Edificio del 1513 fatto erigere da papa Leone X per suo fratello Giuliano de’ Medici, che però morì senza vederlo ultimato. Ancora incompiuto passò per diverse proprietà: dalla figlia di Alfonsina Orsini, cognata del papa e vedova di Pietro de’ Medici, a Marcantonio Palosi, per finire a Ludovico Lante che nel 1575 lo fece ultimare, facendo incidere il proprio nome e cognome sull'architrave del portale. Acquistando altre proprietà vicine e in seguito al matrimonio del figlio Marcantonio con Lucrezia Della Rovere, il palazzo venne ingrandito, divenendo un unico complesso con l’adiacente palazzo dei Della Rovere. Il palazzo venne poi restaurato nella seconda metà del Settecento da Carlo Murale, su incarico del cardinale Federico Marcello Lante. I due palazzi sono delimitati da una fascia bugnata verticale. Il Della Rovere, che affaccia sulla parte finale di via Monterone, presenta un portale bugnato con due finestre laterali, in seguito divenute due porte, cinque finestre architravate al primo piano e semplici nei piani superiori.
Palazzo Lante, invece, oltre al suddetto portale con nome inciso sull'architrave, presenta al pianterreno, al primo e secondo piano tre file da sette finestre architravate mentre l’ultima fila al terzo piano è a cornice semplice. Al di sotto delle finestre architravate ed inferriate del primo piano, dove non sono state aperte delle porte, è possibile vedere gli emblemi araldici della famiglia dei Medici (il leone con anello in bocca e piume di struzzo) e quelli degli Orsini (le due rosette).
Ovviamente non resisto dall'entrare a sbirciare il cortile, considerato, a ragione, uno dei più belli del Rinascimento, anch'esso decorato con gli stemmi araldici delle varie famiglie proprietarie del palazzo. Questo è oggi di proprietà della famiglia Aldobrandini e ospita l'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e l'Istituto di Cultura "Pantheon”. 
Ed eccomi arrivata in Piazza S. Eustachio, davanti a me la chiesa dalla quale la piazza prende il nome. È una chiesa molto singolare, se non altro l’unica a Roma ad avere sopra il timpano triangolare, una testa di cervo, sormontata da una croce. La spiegazione di questa singolarità, la si trova nella leggenda che ho raccontato all'inizio. Come già detto, Placido si trovava a caccia, quando vide brillare, tre le corna di un cervo, una croce. Ne rimase profondamente colpito, convertendosi immediatamente alla nuova religione e con lui anche la moglie e i figli. Rifiutandosi di offrire doni agli dei pagani, sotto l’impero di Adriano, venne condannato a morte, con tutta la famiglia. Furono dati in pasto ai leoni, ma questi, anziché sbranarli, si piegarono davanti a loro. Furono allora messi all'interno di un toro di bronzo infuocato, dove trovarono immediatamente la morte, ma ne uscirono con i corpi intatti. La chiesa sorge sul luogo dove era la casa del centurione, che dopo la conversione, prese il nome di Eustachio. A causa della distruzione dell’archivio, durante una piena del Tevere, poco si sa della chiesa, dalle origini al Cinquecento, ma di sicuro che è stata riedificata, sotto il pontificato di Celestino III, nel 1196, periodo a cui risale anche il campanile, unica testimonianza rimasta dell’epoca medioevale.
Altri restauri si resero necessari, un primo fu eseguito fra gli anni 1650 e 1703, da Cesare Corvara ai cui successe Gian Battista Contini, che aggiunse le sei cappelle e il portico. Un secondo restauro venne effettuato negli anni 1724 e 1727 da Antonio Canevari e Nicolò Salvi, che ricostruirono l’abside e il transetto. Anche la facciata è particolare, a due ordini, con il superiore arretrato rispetto all'inferiore e in linea con il campanile, a sottolineare l’aggiunta successiva del portico, sormontato da un terrazzo. L’interno è a croce latina e a navata unica.
Lateralmente aprono tre cappelle per parte, comunicanti tra loro. Sotto l’altare maggiore, in un sarcofago di porfido, sono custoditi i corpi di S. Eustachio, della moglie e dei suoi figli. Avviandoci all'uscita, impossibile non ammirare l’organo settecentesco che occupa quasi l’intera controfacciata, bella anche la vetrata con la "Maddalena penitente", che lo sovrasta. 
Uscita dalla chiesa, sulla facciata a sinistra verso via di S. Eustachio, c’è una lapide che ricorda l’eccezionale piena del Tevere del 1495 sotto il pontificato di Alessandro VI Borgia.  Di fronte, invece, molto bella la facciata dell’edificio detto Palazzetto di Tizio di Spoleto, della fine del Cinquecento. Recentemente restaurato, sono ben visibili gli affreschi di Taddeo Zuccari.
Ora un meritato caffè in tazza grande, al rinomatissimo bar che dalla chiesa e dalla piazza prende il nome e riprendiamo il cammino, tornando indietro su via del Teatro Valle, dal nome del più antico teatro di Roma e uno dei più bei teatri storici italiani.
Il palazzo che ospita il teatro fu costruito intorno al 1530 per il cardinale Andrea della Valle e alla sua morte passò alla nipote Faustina, moglie di Camillo Capranica e quando i due vi si trasferirono il palazzo cominciò ad essere chiamato palazzo Capranica. Il teatro fu costruito a metà del Settecento, dagli architetti Tommaso Morelli e Mauro Fontana, ma restaurato e migliorato nel tempo fino ad arrivare alla ristrutturazione di inizio Ottocento, per opera del Valadier a cui si deve l’elegante facciata neoclassica. Per lungo tempo teatro privato, passò allo stato sotto la gestione dell’Eti. Nel 2010, quando l’ente fu chiuso, si pensò di metterlo in vendita, ma un gruppo di attori, con lo slogan “Come l'acqua e l'aria, ora ci riprendiamo anche la cultura», lo occuparono e autogestirono per i tre anni successivi.  Pur vincendo vari premi, le cose non andarono come previsto per gli occupanti, che, pacificamente, sgombrarono la struttura l’11 agosto 2014, restituendo il teatro alle autorità comunali. Nell'aprile del 2018 lo storico teatro di Roma ha riaperto i battenti, affidato al Teatro di Roma. La speranza resta quella di restituire la dovuta gloria e meritata luce al teatro “Valle”, che in trecento anni ha segnato la storia ed è stato la culla del teatro moderno italiano. Un aneddoto curioso riguarda l’ingresso al palco reale, situato nel cortile e utilizzato dai Reali d’Italia. Quando cadde la monarchia, il vecchio amministratore di palazzo Capranica, dove aveva sede il teatro, fedele e irremovibile monarchico, pur di non far passare dal “sacro ingresso” un repubblicano, cioè il Presidente Provvisorio della Repubblica Enrico De Nicola, preferì murarlo! Adiacente al teatro c’è la Chiesa Evangelica Battista, il primo edificio costruito a Roma per il culto evangelico, nel 1878.
Arrivata a Largo del Teatro Valle, trovo alla mia destra la facciata principale del palazzo Capranica, con il suo portale incorniciato da bugne a raggiera e sormontato dall'iscrizione “GENS CAPRANICA OPERIBUS AMPLIATIS RESTITUIT A MDCCCLXXIX”, ovvero “La famiglia Capranica con opere di ampliamento restaurò nell'anno 1879” e, di fronte, ancora una proprietà Della Valle, che prosegue con un lato su piazza S. Andrea Della Valle e per la facciata principale, su Corse Vittorio Emanuele. Difficile ritenerla facciata posteriore, visto il bel portale bugnato, sormontato dallo stemma dei Della Valle e da un rilievo con tre busti femminili di età romana.


Molto particolari anche le finestre del primo piano, tutte incorniciate e con mensole che presentano l'iscrizione "ANDREAS CAR DE VALLE", ovvero “Cardinale Andrea della Valle”, con l’unica eccezione di quella posta sopra il portale, che reca la scritta "ANDREAS DE VALLE EPS MILETEN", ovvero “Andrea della Valle Episcopo (Vescovo) di Mileto”.
Sono ora in piazza Sant’Andra della Valle dalla maestosa chiesa che la domina. Proprio davanti alla chiesa è collocato una bella fontana di Carlo Maderno, che un tempo si trovava nella piazza di Scossacavalli, dalla quale prende il nome ma, a seguito della demolizione della Spina dei Borghi, per far posto a via della Conciliazione, nel 1937, la piazza fu demolita e la fontana spostata, un primo tempo in via della Conciliazione stessa ma, successivamente, anche lei passò una ventina di anni dimenticata presso i depositi comunali, per essere poi ricollocata, nel 1957, nell’attuale posizione. Gli stemmi araldici dei Borghese, aquile e drago, ci indicano che il committente della fontana fu papa Paolo V Borghese.
La chiesa fu progettata, in un primo momento, da Giacomo Della Porta e Francesco Grimaldi, che la iniziarono nel 1590 per passare poi a Carlo Maderno, che la completò nel 1650, realizzando anche la maestosa cupola, seconda a quella di San Pietro, quando venne realizzata, ma attualmente passata in terza posizione, dopo la costruzione della moderna chiesa dei Santi Pietro e Paolo all’EUR. La facciata, invece, si deve a Carlo Rainaldi, che la realizzò nel 1665, mal sopportando il fatto di dover seguire il progetto del Maderno, da lui non del tutto gradito. A guardarla attentamente ci si accorge di una lieve asimmetria, dovuta alla presenza di un angelo solo da un lato, mentre l’altro lato è vuoto. A questo è legato un aneddoto, secondo il quale, l’artista che realizzò la scultura, Ercole Ferrata, venendo ampiamente criticato, per questo suo lavoro, anche dallo stesso papa, Alessandro VII, si offese a tal punto da esclamare: “se vuole l’altro angelo, se lo faccia da solo!”. Così l’angelo rimase solo, addossato alla parete della facciata, che sembra sostenere, tanto che suscitò subito una celebre “pasquinata”: “Vorrei volare al pari di un uccello, ma qui fui posto a fare da puntello".
L’interno è a croce latina con un’ampia navata e un transetto poco pronunciato, con otto cappelle laterali, la più famosa delle quali è la Cappella Barberini, per essere stata scelta da Giacomo Puccini, come luogo di inizio della celebre opera “La Tosca”.
Ma la fama e l’importanza di questa chiesa risiede soprattutto negli splendidi affreschi della cupola, dei pennacchi della cupola, del catino e della curva absidale, firmati Domenichino, Lanfranco e Mattia Preti

Legati a questi affreschi anche alcuni retroscena, che gli storiografi seicenteschi riportano, riguardanti la rivalità che sorse soprattutto per la commissione dell’affresco della cupola.
Il Domenichino, autore dei pennacchi della cupola, delle volte del presbiterio e dell’abside, si ingelosì nel vedere i suoi progetti accantonati a favore di quelli del Lanfranco, che realizzò interamente la cupola e i rapporti fra i due non divennero certo dei più amichevoli, al punto, si racconta, che il Domenichino tentò persino di ucciderlo.
La volta della navata è invece recentissima: nel 1905 dodici riquadri dipinti delimitati da cornici in stucco sul modello di quelle del Domenichino furono approntati per ricoprire la volta.
All’uscita dalla chiesa si ha di fronte il Palazzo INA costruito nel 1937 durante l’apertura del Corso del Rinascimento e sede dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni. All’ultimo piano una loggia con la parete di fondo decorata a bassorilievo con la lupa ed i gemelli.
Girando a sinistra, costeggiando la Chiesa, prendiamo via dei Chiavari, già descritta durante la seconda parte della passeggiata nel rione Parione, del quale la strada segna il confine con Sant’Eustachio, per tornare nuovamente al punto di partenza: Piazza Benedetto Cairoli.










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