Totale percorso km. 1.8 questa la mappa
Per alcuni era posta, come fontana, ad ornare l’Iseo Campense, mentre
per altri apparteneva, sempre come fontana, alle Terme di Agrippa. Ma ci sono
molto dubbi sul fatto che sia proprio da questa scultura che il rione prenda il
nome, in quanto, quando essa fu portata in Vaticano, intorno alla metà del XII
secolo, il rione non era ancora stato denominato con tale nome. La spiegazione
più plausibile sembrerebbe essere, invece, quella di una corruzione del nome
Vigna. La gran parte del rione era, infatti, occupata da una proprietà chiamata
“Vigna Tedemari” e in alcuni documenti dell’epoca la zona viene detta “regione
della Vigna” o semplicemente “Vigna” e da qui al termine Pigna il passo è
davvero breve. È un rione che, a differenza di altri, rimase abitato anche
durante il Medioevo, cosa che ha favorito la conservazione dell’impianto
urbanistico. Ha una forma pressoché quadrata e un’alta concentrazione di siti
di interesse storico e artistico. Il nostro itinerario parte da Piazza Venezia,
che è però condivisa da ben tre rioni: Pigna per quanto riguarda la parte
occidentale, (Palazzo Venezia); Trevi per la parte orientale (Palazzo delle
Generali) e Campitelli (Campidoglio).Mi dirigo, quindi, verso l’adiacente Piazza San Marco. Prima di entrare nella Basilica, faccio un breve giro
della piazzetta per andare a fotografare la bella fontanella rionale “della
Pigna”. Fa parte, anche lei, delle fontane volute dal Comune di Roma e
commissionate all'architetto Pietro Lombardi nel 1927. Ogni fontana, nelle sue
forme o nei suoi particolari, simboleggia il rione nella quale è posta. Qui è
costituita da un semplice ed elegante stelo, posizionato al centro di un
piccolo bacino, sul quale due corolle di tulipani stilizzati sostengono una
pigna.L'acqua fuoriesce da due cannelle laterali raccogliendosi nelle
vaschette a terra. Altra curiosità da fotografare prima di entrare in chiesa, è
la “madama Lucrezia”, gigantesco busto di statua, che rappresenta,
probabilmente, Iside o una sua sacerdotessa, come fa supporre il caratteristico
nodo della veste sul petto.
In questa piazza, proprio davanti alla statua, in
passato, il primo maggio, si svolgeva la manifestazione chiamata “il ballo de li poveretti”, a cui partecipavano popolane e giovanotti dei vari rioni, insieme
anche a gobbi, storpi, vecchietti in vena di follie e per l’occasione la statua
veniva ricoperta di collane di aglio, peperoncini, cipolle e nastri. È anche
una delle cinque “statue parlanti” della città, insieme alla più famosa
Pasquino, a Marforio, Babuino, Facchino e Abate Luigi. Le statue attraverso le
quali, con biglietti attaccati al collo, il popolo, faceva sentire la propria
voce, ironica e pungente, contro le ingiustizie del potere. A questo punto mi
avvio ad entrare in chiesa. La prima edificazione della Basilica si ha nel 336
per volere di Papa Marco, durante il suo pontificato che durò appena otto mesi.
La volle dedicare al suo omonimo, l’Evangelista, che si dice abbia vissuto in
questo luogo durante il soggiorno romano, prima di essere martirizzato ad
Alessandria d’Egitto. Il suo corpo, poi, fu portato a Venezia di cui ne divenne
patrono e questa è considerata la chiesa regionale dei veneziani. Della
primitiva struttura sono rimaste ben poche tracce. Si presentava a tre navate
divise da colonne con il pavimento in opus sectile e l’altare collocato a metà
della navata centrale. A seguito di un incendio che la distrusse, venne
ricostruita nel V secolo, invertendo l’orientamento originale di 180° rispetto
alla posizione attuale e i suoi muri erano intonacati e decorati da pitture a
imitazione marmorei. Fu devastata nuovamente, questa volta ad opera di Goti,
Longobardi e Bizantini nei secoli VI e VII, nonché inondata dalle acque del
Tevere nel 791. Fu papa Adriano a restaurarla, sistemando il tetto, rialzando
il piano della basilica e aggiungendo due navate laterali a quella centrale,
mentre papa Gregorio IV nell'883 la ricostruì per la terza volta, invertendo
nuovamente l’orientamento dell’edifico, dotando la chiesa di un portico e di
un’abside che fece decorare con i magnifici mosaici che possiamo ancora
ammirare.
Nel 1154 fu costruito, ad opera di quattro marmorai romani, Giovanni,
Pietro, Angelo e Sassone, un ciborio, distrutto successivamente, del quale
restano solo le colonne di porfido che vediamo agli ingressi laterali del presbiterio
e le dieci colonnine murate nell'atrio sotto il portico. Dello stesso periodo è
anche il campanile romanico, che ben si vede nei giardini di Palazzo Venezia. Tra
gli anni 1464 e 1471 il cardinale titolare della basilica, il veneziano Pietro
Barbo, che diverrà poi papa Paolo II, costruisce un palazzo accanto alla chiesa
denominato prima Palazzo San Marco, in seguito Palazzo Venezia. La basilica
venne quindi inglobata nel palazzo divenendone la cappella palatina. In
quest’occasione fu ricostruito il tetto e realizzato il soffitto a cassettoni
intagliati e dorati con tre riquadri centrali raffiguranti il simbolo araldico
del Papa e che, insieme a quello di Santa Maria Maggiore, è l’unico soffitto
quattrocentesco rimasto a Roma.
L'altare realizzato da Mino da Fiesole e
Giovanni Dalmata fu poi smontato nel 1700 e spostato nella sacrestia. Sempre ad
opera di Paolo II fu realizzata l’elegante e solenne facciata per la quale fu
utilizzato il travertino del Colosseo e del Teatro di Marcello, ma non si sa
per certo chi fu l’architetto: Giulio da Maiano o Giovan Battista Alberti o
forse Bernardino Rossellino. È costituita da un portico a tre arcate con
semicolonne a capitelli compositi, sormontato da una loggia a paraste con
capitelli corinzi, da dove il papa impartiva le benedizioni. Il maestoso
portale presenta nella lunetta un bassorilievo raffigurante S. Marco
Evangelista.
All'interno del portico si trovano resti di decorazioni e di
lapidi paleocristiane, una margella di pozzo del presbitero Giovanni alla quale
è legata una curiosa leggenda, iscrizioni in greco e varie iscrizioni che
ricordano i lavori svolti da Paolo II e i vari restauri della chiesa nei secoli
successivi.
Un’altra curiosità custodita nel portico è la lapide funeraria di
Vannozza Cattanei, la cortigiana amante del cardinale Borgia (poi papa
Alessandro VI) al quale diede quattro figli, fra i quali Cesare e Lucrezia. La
sepoltura in realtà avvenne nella chiesa di Santa Maria del Popolo, ma i resti
della sua lapide, capovolta e usata come pavimentazione, vennero ritrovati nel
1948 proprio nella Basilica di San Marco e sistemati nell'atrio.
Altre
trasformazioni si hanno nel XVII sec., su volere dell’ambasciatore veneto
Nicolò Sagredo, che incarica per i lavori Orazio Torrioni. Nel secolo
successivo spetterà al cardinale Angelo Maria Quirini, il compito di un nuovo
restauro su progetto di Filippo Barigioni, che prevede la sistemazione del
presbiterio, dell’altare maggiore e degli scranni del coro, nonché la
sostituzione delle colonne di granito con quelle attuali, di mattoni, rivestite
di diaspro di Sicilia e la realizzazione dei bassorilievi in stucco tra le
arcate della navata centrale, che conferirà alla Basilica l’aspetto attuale. Entrando quindi vediamo una chiesa a croce latina, divisa in tre navate da una
serie di 24 pilastri, posti dietro ad altrettante colonne, come abbiamo detto,
ricoperte di diaspro di Sicilia.
Vediamo gli affreschi del ‘600 fra le
finestre, voluti da Sagredo. Il pavimento è del VII secolo con inserti di tipo
cosmatesco risalenti al XV secolo. Arrivo davanti all'altare maggiore e sopra
il coro, alle spalle dell’altare, tre grandi affreschi: quello centrale
raffigura la Glorificazione di San Marco di G. F. Romanelli, quelli ai lati, la
Cattura di S. Marco Evangelista e il Martirio, tutte e due del “Borgognone”,
ossia Jacques Courtois. Sotto l’altare una grande urna di granito custodisce i
resti dei corpi di San Marco papa e di Abdon e Sennen, i martiri decapitati a
Roma nel III sec., le cui storie sono raccontate negli affreschi di destra
della navata centrale (quelli a sinistra sono dedicati alla storia di San Marco
papa). Catino absidale e arco trionfale sono decorati dal meraviglioso mosaico
voluto durante la ricostruzione ad opera di Gregorio IV.
A sinistra
dell’altare, sono la sacrestia e la tomba di Gabriella Scaglia, nonché la Cappella
dell’Immacolata della famiglia Capranica. A destra invece, si trova la Cappella
del Ss. Scacramento dedicata a S. Marco papa, con la pala d’altare di Melozzo
da Forlì che raffigura S. Marco Papa. Poi seguono una serie di monumenti
funebri, da quello di Francesco Erizzo opera di Francesco Moratti a quello, più
famoso, di Leonardo Pesaro, figlio sedicenne dell’ultimo ambasciatore veneto,
opera di Antonio Canova.
Uscendo dalla chiesa, sul lato occidentale c’è il
Palazzetto Venezia, che un tempo, invece si trovava sul quello orientale,
addossato alla torre di Palazzo Venezia, racchiudendo in modo molto più intimo
la piazza.
Con la costruzione del Vittoriano è stato smontato e ricostruito
nella attuale posizione.
Il palazzo dove
invece la Chiesa è inglobata è Palazzo
Venezia, come
abbiamo precedente detto, costruito a partire dal 1455 dal Cardinale Pietro
Balbo, prima di diventare papa con il nome di Paolo II. È uno fra i più prestigiosi
palazzi rinascimentali, dalla paternità incerta: da Leon Battista Alberti a
Giuliano da Maiano e Bernardino Rossellino, anche se svariati studi storici
propendono per l’architetto Francesco del Borgo. Quando il cardinale divenne
papa, ampliò il palazzo, insieme al cardinal nipote Marco Balbo, che gli
successe al titolo della basilica e divenne residenza papale. Di questo periodo
sono i tre saloni monumentali (Sala Regia, Sala del Concistoro e Sala del
Mappamondo) e il Viridarium, un giardino segreto porticato situato all'angolo
fra le attuali piazza Venezia e Piazza San Marco, addossato, originariamente, a
quella che è chiamata la Torre della Biscia e che quando, tra il 1537 e il 1770,
le arcate del portico furono chiuse, prenderà il nome di Palazzetto Venezia.
Agli
inizi del Cinquecento venne aggiunto all'appartamento Barbo, il cosiddetto appartamento
Cybo, dal nome del cardinale (nipote di Innocento VIII) che per primo lo abitò.
È il lato che affaccia verso via del Plebiscito fino all'angolo con via degli
Astalli ed ospitò i cardinali titolari della Basilica di San Marco. Rimane
proprietà pontificia fino a quando, nel 1564, Pio IV Medici lo dona alla
Repubblica di Venezia, che ne fa la propria ambasciata presso lo Stato della
Chiesa e diventa Palazzo Venezia (si chiamava in origine, come abbiamo
precedentemente detto, Palazzo San Marco). Con la caduta di Napoleone nel 1797
e il conseguente passaggio di Venezia all’Austria, il palazzo passa a
quest’ultima che ne mantiene la funzione di ambasciata. Tra il 1919 e il 1913
il Palazzetto fu smontato e ricostruito nella posizione attuale, per consentire
la sistemazione della piazza con un’apertura totale sul Vittoriano, visibile in
questo modo dalla via del Corso. Tornerà al Regno d’Italia nel 1916, durante la
Prima Guerra Mondiale e diverrà nel 1922 sede del Governo fascista di Benito
Mussolini che ne fece il suo luogo principale di lavoro e di comunicazione.
Celebre il balcone dal quale il dittatore teneva le sue arringhe agli italiani.
Oggi è sede del Museo Nazionale del Palazzo Venezia e il suo giardino
recentemente è stato aperto al pubblico con l’apertura contemporanea dei tre
varchi di accesso lungo via del Plebiscito, via degli Astalli e piazza San
Marco: una piccola oasi di pace e relax in una delle zone più caotiche della
città.
Nel museo si espongono soprattutto le collezioni di Paolo II, oltre a
pezzi provenienti da Castel Sant'Angelo, dal Museo del Collegio Romano e dalla
Galleria d’Arte Antica. Vale la pena visitarlo anche per la bellezza degli
ambienti, come la cosiddetta “Sala delle Fatiche di Ercole” detta anche
“dei Paramenti” in quanto era la sala dove si custodivano i paramenti sacri di
Paolo II. Un fregio in cui sono raffigurate le otto fatiche di Ercole corre
tutto lungo il bordo del soffitto in legno.
Si accede poi ai Saloni
monumentali, primo dei quali la “Sala del Mappamondo”, dove affaccia il
famoso balcone, così denominata per una mappa terrestre policroma del
cosmografo Girolamo Bellavista, andata perduta, collocata un tempo al centro
della parete maggiore;
segue la “Sala del Concistoro” o “delle
Battaglie” dove si riuniva il collegio dei cardinali fino al 1597 sotto
Clemente VIII e dove si trovano riportati sulle pareti i luoghi e le date delle
principali battaglie della Prima Guerra Mondiale; infine la “Sala Regia”
il cui nome fa probabilmente riferimento al fatto che in questa sala avvenivano
gli incontri tra il pontefice e i vari reali o personaggi illustri che venivano
in visita.
Uscita dal Museo mi dirigo
verso via d’Aracoeli per arrivare in piazza del Gesù e visitare un’altra grande
e importante chiesa: la Chiesa
del Gesù. Il nome completo della chiesa è del
Santissimo Nome di Gesù ed è considerata la Chiesa madre della Compagnia di
Gesù, costruita tra il 1568 e 1584 per volere di Sant’Ignazio di Loyola,
fondatore dell’ordine, di cui si conservano le spoglie.
Fu Papa Paolo III
Farnese, che aveva riconosciuto ufficialmente l’ordine nel 1540, che donò
l’edificio destinato a diventarne la chiesa principale. Oltretutto, era la
prima chiesa che si costruiva dopo il Sacco di Roma del 1527 e la prima che
adottò un nuovo stile architettonico, dettato dalla Controriforma, che andrà
poi ad influenzare molte altre delle chiese italiane e europee. Si voleva
quindi una chiesa che rappresentasse il trionfo della religione cattolica e del
Clero di Roma. Molti progetti presentati e molti scartati, fra cui anche quello
di Michelangelo. Alla morte del papa, fu il potente cardinal nipote, Alessandro
Farnese ad affidare al Vignola la realizzazione del progetto, mentre per la
facciata e la cupola incaricò Giacomo Della Porta. Come abbiamo detto, dal
Concilio di Trento scaturiscono nuove esigenze architettoniche ed entrando in
chiesa notiamo subito l’assenza di navate laterali, ma solo una grande navata
centrale nella quale era possibile per i fedeli ascoltare la predica da
qualsiasi punto essi si trovassero.
La pianta è a croce latina con tre cappelle
per lato e le due grandi cappelle del transetto: quella di San Francesco
Saverio e quella meravigliosa di Sant'Ignazio, costruita dal gesuita padre
Andrea Pozzo nel 1696-1700. Tra quattro colonne di lapislazzuli e bronzo dorato
con architrave di verde antico, in una nicchia vi è la statua del santo e gli
angeli, in origine di purissimo argento, che Papa Pio VI fu costretto a fondere
per pagare il tributo imposto da Napoleone a seguito del trattato di Tolentino;
ora sono state realizzate in stucco argentato, così come in stucco è il grande
globo sorretto dagli angeli, da sempre ritenuto erroneamente il più grosso
blocco di lapislazzuli. La nicchia è però coperta da una grande tela, sempre di
Andrea Pozzo, che a mo’ di sipario, sale e scende, mostrando la preziosa statua
solo in occasioni speciali. Sotto
l’altare è custodito il corpo del Santo, in un’urna di bronzo dorato realizzata
da Alessandro Algardi.
La decorazione pittorica è opera di Giovanni Battista
Gaulli detto il Baciccia, pupillo del Bernini, grazie al quale aveva ottenuto
l’incarico di realizzare, con successo, le decorazioni dei pennacchi della
cupola di Sant'Agnese in Agone e che lo “sponsorizzò” anche per questo nuovo
importante incarico. Dipinse l’affresco della volta della navata, il “Trionfo
del Nome di Gesù”, la cupola con “la Gloria del Paradiso con santi e angeli” e
l’abside con “la Gloria dell’Agnello mistico”. Il tutto si fonde con dei
rilievi in legno e stucco, realizzati da un altro allievo del Bernini, Antonio
Raggi, che danno alla composizione un effetto tridimensionale.
Accanto all'altare di Sant'Ignazio si può
entrare nella Cappella della Madonna della Strada, dove si conserva un affresco
del XV secolo, staccato da un muro della precedente chiesa che si trovava in
questo luogo, conosciuta come “Santa Maria della Strada”.
Adiacente alla Chiesa
si trova la Casa Professa dei Gesuiti dove sono conservate le cosiddette “Stanze di Sant’Ignazio” ambienti rimasti intatti a come erano quando vi
viveva il Santo e che furono inglobati nella ricostruzione del nuovo edificio,
avvenuta tra il 1599 e il 1623. La Casa era la sede della Compagnia del Gesù e
qui Sant'Ignazio morì nel luglio del 1556. Il corridoio che porta alle 4 stanze
fu fatto decorare poco dopo la ricostruzione, incaricando dell’opera il pittore
Jacques Courtois, detto “il Borgognone” che però morì prematuramente prima di
terminare il lavoro. Fu allora sostituito da un pittore gesuita padre Andrea
Pozzo. L’effetto è strepitoso: un ambiente con uno straordinario effetto
ottico. Alle pareti sono raccontati alcuni miracoli del Santo e in fondo al
corridoio una scena che simula una navata di una chiesa con due angeli seduti
suonano il violino ed il violoncello.
Nelle stanze sono conservati cimeli,
suppellettili e una statua di sant'Ignazio. Nella prima stanza il Santo
riceveva i visitatori esterni, anche gli stessi missionari gesuiti che
provenivano da tutto il mondo. Nella seconda dormiva, lavorava e pregava e la
terza era una piccola cappella privata. Uscendo dalla casa Professa, di fronte
sulla sinistra troviamo il palazzo Petroni Cenci Bolognetti, per molti
anni sede della Democrazia Cristiana.
A destra, invece, su via del Plebiscito
affaccia il maestoso Palazzo
Altieri, costruito
intorno alla metà del Seicento su un'area nella quale gli Altieri possedevano
già alcune case fin dal 1300, demolite insieme ad altre appositamente
acquistate.
Curiosa, in questo caso, la storia della vecchietta che non volle
cedere la sua abitazione a nessun prezzo, tanto da dover richiedere
l’intervento del papa, il quale dispose che la casa venisse rispettata. Si
incorporò così all'interno del palazzo, restaurata affinché non disturbasse
l’estetica del palazzo. La si riconosce nel lato che affaccia su via Santo
Stefano del Cacco, dove un piccolo portone e due piccole finestre stanno in
netto contrasto con il resto del palazzo.
Le grandi dimensioni del palazzo fecero sì che durante gli anni ebbe diversi usi: da sede commerciale a sede delle medie inferiori del Liceo Visconti; molto spesso utilizzato come set cinematografico ha ospitato per oltre venti anni, in un appartamento all’ultimo piano, anche la grande Anna Magnani. Ora è principalmente occupato da società bancarie e da qualche proprietario privato. Vi si conserva anche l’Archivio di Famiglia nella “Librària Altieri”. Continuando su via del Plebiscito incontriamo la bella facciata di Palazzo Grazioli, originariamente costruito da Giacomo della Porta nel Cinquecento per la famiglia Gottifredi, rinnovato nella seconda metà del Seicento dall’architetto Camillo Arcucci, che diede all’edificio un’impronta barocca. Agli inizi dell'800 il palazzo fu residenza dell'Ambasciatore d'Austria e poi dell'Infanta di Spagna, nonché duchessa di Lucca, Maria Luisa di Borbone-Spagna che vi morì nel 1824. Venne in seguito acquistato dai Grazioli, che ne sono tutt’ora proprietari, una famiglia che arrivò a Roma verso la fine del Settecento, dalla Valtellina. Affittarono e poi acquistarono alcuni molini sul Tevere. Vincenzo Grazioli iniziò così la sua attività di fornaio, che ben presto lo portò ad acquistare dei terreni fra i quali la tenuta di Castelporziano (ora di proprietà del Presidente della Repubblica). L’ascesa sociale fu rapida, entrando a far parte della nobiltà romana e arrivando addirittura ad essere la terza famiglia, nella graduatoria di rendita annua. Per diversi anni, il Palazzo è stato la residenza romana dell’ex Capo del Governo Silvio Berlusconi. Angolo con il palazzo c’è via della Gatta, nella quale svolto. Il nome è dato da una gatta in marmo posta sul cornicione del palazzo Grazioli, dove questo fa angolo con la piazza omonima. Faceva parte del vicino "Tempio di Iside", quindi considerata sacra per la religione egizia. Una tradizione racconta che fu situata in questo luogo per ricordare l’evento di una gatta che con il suo miagolio incessante, riuscì a richiamare l’attenzione di una madre verso il suo bambino, in procinto di cadere dal cornicione del palazzo. Un’altra leggenda, invece, racconta che riuscendo a capire dove lo sguardo della gatta è rivolto si potrebbe trovare un tesoro nascosto, cosa che finora nessuno è riuscito ad individuare. Superata Piazza Grazioli, arrivo in Piazza del Collegio Romano. La piazza prende il nome dal grande palazzo che vi prospetta, ora sede di un liceo classico, il primo a Roma, dedicato a Ennio Quirino Visconti. Ma un tempo questo grande edificio, costruito nel 1582-83, per volere di papa Gregorio XIII Boncompagni, era la prestigiosa sede scolastica della Compagnia del Gesù, fondata da S. Ignazio da Loyola, che grazie alla fama dei docenti gesuiti che vi insegnavano, ebbe fra i propri allievi, i figli delle più importanti e nobili famiglie della città. Si è creduto per molto tempo che fosse stato costruito da Bartolomeo Ammannati, ma recentemente si propende più per l’ipotesi che sia opera di padre Giuseppe Valeriani, architetto gesuita. Nello stesso complesso è inglobata anche la chiesa di S. Ignazio e qui ebbero sede anche importanti istituzioni culturali, come l’ex Museo Kircheriano, il Museo Preistorico-Etnografico Luigi Pigorini, prima di essere trasferito all’EUR e la Biblioteca dei Gesuiti, nonché l’Osservatorio Astronomico, poi trasferito a Monte Mario. La facciata è maestosa, divisa in tre corpi di cui quello centrale, più alto, è coronato da una balaustra sulla quale s’innalzano ai lati due edicole per le meridiane e al centro un campanile con cupolino, il cui suono della campana segnava tutti i giorni l’inizio delle lezioni. Il grande orologio centrale era quello che un tempo forniva l’ora esatta a tutti gli orologi di Roma. Sotto l’orologio il grande stemma di Gregorio XIII e la lapide commemorativa della fondazione del collegio. Sulla destra si eleva una torre costruita nel 1787 per le osservazioni astronomiche. I due grandi portali centrali sono adorni dei draghi araldici della famiglia Boncompagni e quello di destra è ora murato. Oggi il palazzo ospita la sede del Liceo Classico Ennio Quirino Visconti e il Ministero per i Beni e le Attività Culturali. A sinistra del grande edificio, prendiamo via di Sant’Ignazio diretti verso l’omonima chiesa, ma prima di arrivare, attraversiamo la deliziosa piazza di San Macuto, dal nome della bella chiesetta, dalla caratteristica facciata azzurra, incastonata fra il Palazzo Gabrielli (ex sede del Seminario Romano) e uno dei palazzi rococò di Piazza Sant’Ignazio, dove sono quindi arrivata. La piazza è dominata dalla maestosa facciata della chiesa omonima, alla quale fanno da contorno i meravigliosi palazzi settecenteschi di Filippo Raguzzini, soprannominati i “bureau” per la loro particolare forma. La tradizione vuole che gli edifici siano stati costruiti appositamente in modo così particolare per attrarre l'attenzione del viandante e distoglierla dalla facciata esageratamente alta della chiesa. La chiesa è dedicata al fondatore dell’ordine dei gesuiti, Sant’Ignazio da Loyola, costruita in sostituzione della chiesa S. Maria Annunziata, (divenuta troppo piccola per poter ospitare gli oltre 2000 studenti che frequentavano l’adiacente collegio nel quale la chiesa stessa era inserita), e si presenta in stile barocco. Fu così che il cardinale Ludovisi (divenuto poi papa Gregorio XV), nel 1622, finanziò la costruzione di un edificio più grande. Tra i vari progetti si scelse quello del professore del Collegio, Fra’ Orazio Grassi, architetto, matematico e astronomo, che si avvalse dei disegni di Carlo Maderno, Paolo Martucelli e Orazio Torriani e nel 1626 iniziarono i lavori. La facciata, probabilmente opera di Alessandro Algardi, è a due ordini: in quello inferiore ci sono le tre aperture, scandite da colonne e paraste binate, che consentono l’accesso nella Chiesa, le cui porte sono sormontate da altrettanti timpani curvilinei con festoni, ai lati del portone centrale due nicchie vuote; nell’ordine superiore, ugualmente scandito da colonne e paraste, si apre al centro un’ampia finestra, due nicchie vuote e ampie volute laterali. Chiude la facciata un timpano con la croce, con sei candelabri e lo stemma Ludovisi. L’interno della chiesa ha pianta a croce latina, con una lunga navata e sei cappelle laterali, ed è caratterizzato da marmi, stucchi e dorature che creano una suggestione particolare, soprattutto quando, alzando gli occhi al cielo, si ammira il fantastico affresco con la “Gloria di Sant’Ignazio”. Per farlo al meglio, però, bisogna cercare proprio al centro della navata centrale, un cerchio giallo sul pavimento di marmo. È questo il punto migliore per guardare in alto e lasciarsi catturare da una straordinaria illusione ottica. L’affresco realizzato da Padre Andrea Pozzo, alla fine del 1600, raffigura al centro Sant’Ignazio che ascende al cielo sotto lo sguardo di Cristo crocefisso e quattro figure femminili che simboleggiano i continenti a quel tempo conosciuti: Europa, Asia, Africa e America. Il significato sta ad indicare l’epopea dei Gesuiti nell’evangelizzazione dei quattro continenti. Le meraviglie non sono però ancora finite. Continuando nella navata centrale, dirigendosi verso l’altare, troviamo un altro tondo dorato nel pavimento. Alzando gli occhi da quel preciso punto, si ha la visione di una splendida cupola di 13 metri di diametro. Ma appena ci spostiamo un po’, tutto si distorce e ci rendiamo conto, che la cupola non è altro che una tela dipinta, altro capolavoro prospettico di Padre Andrea Pozzo. A questa chiesa è legata una tradizione dell’Ottocento, quando dall’attiguo palazzo del Collegio Romano, che ospitava l’Osservatorio Astronomico, si determinava l’ora esatta per lo sparo del cannone del Gianicolo (all’epoca situato ancora a Castel S. Angelo e poi a Monte Mario). Alle 11. 56 veniva innalzata, sul timpano della chiesa, un'asta di pino lunga 6 metri lungo la quale una gran palla di vimini dipinta di nero veniva fatta scendere alle 12.00 in punto. Uscita dalla chiesa vado a destra lungo la via del Caravita, per incontrare poco dopo, sulla mia destra, il portale della Chiesa di San Francesco Saverio, meglio conosciuta come Oratorio del Caravita, nome che deriva dalla corruzione popolare del cognome di Pietro Gravita, il padre gesuita che si occupò della sua costruzione, nel 1631 con il supporto finanziario dei fedeli e di famiglie nobiliari che abitavano nei pressi del Pantheon, inaugurando il primo oratorio notturno a Roma. Sorge dove un tempo era l’antichissima chiesa di “S. Nicola de forbitoribus” del 1192, nome che si riferisce alla Confraternita dei Forbiciai, venditori ambulanti di forbici, coltelli e altri oggetti da taglio; ma non è chiaro se questa attribuzione è dovuta al fatto che la chiesa era affidata alla loro Università o se dipendeva soltanto dalla motivazione che gli artigiani avevano in questa zona le loro botteghe. Nel 1405 la chiesa subì gravi danni a causa di un fulmine. La chiesa fu riedificata nel 1551, dopo che papa Giulio III la concesse ai Camaldolesi che la dedicarono a S. Antonio. Quasi un secolo dopo, nel 1631, la Compagnia del Gesù che già possedeva l’attiguo Collegio Romano e la Chiesa di Sant’Ignazio, acquistò dai Camaldolesi chiesa e monastero, che vennero demoliti per la costruzione dell’oratorio, che serviva come sala riunioni della Congregazione della Ss. Comunione, che fino a quel momento si riuniva all’interno del Collegio Romano. I membri della Congregazione erano soliti fustigarsi, come forma di espiazione per i propri peccati. Ma il fattore buio comportava la fustigazione delle spalle del vicino di panca e di solito questo provocava non poche risse, motivo per il quale questa pratica venne in seguito soppressa. Uscivano poi in processione per le vie di Roma, allo scopo di diffondere la pratica della Santa Comunione, recitando i salmi, avvolti in grandi mantelli neri e per questo venivano chiamati i “Mantelloni”. La facciata è molto semplice che passa quasi inosservata, a due ordini: in quello inferiore si apre il portale d’entrata sormontato da timpano triangolare, tra due finestre incorniciate, sul superiore si aprono tre finestre della Casa della comunità gesuita. Entrando troviamo un atrio, affrescato da Lazzaro Baldi con “Storie di San Francesco Saverio”, che precede l’interno a navata unica con abside ad emiciclo e deambulatorio sul retro. La volta presenta un affresco del XIX secolo, mentre sull’altare una pala di Sebastiano Conca raffigura la “Ss. Trinità e S. Francesco Saverio”, mentre la Sacra immagine della “Mater Pietatis” è attribuita a Baldassarre Peruzzi. Degni di menzione i seicenteschi banchi scolpiti in noce lungo le pareti e le due acquasantiere, dove il granchio con il crocifisso bronzeo nella chela allude simbolicamente a S.Francesco Saverio. Wolfgang Amadeus Mozart si esibì all'Oratorio Caravita nel 1770, dove, ancora adolescente, carpì l'attenzione della corte di Roma. Oggi è usata come sala per concerti di musica classica. L’oratorio è unito al Collegio Romano tramite l’arco che è situato nella via del Collegio Romano, realizzato nel 1716 e conosciuto anche come “Arco dei Gesuiti”. Pochi passi a destra, dopo l’uscita dall’oratorio, e mi trovo in via del Corso, dove giro nuovamente a destra, tornando verso piazza Venezia. Via del Corso divide il rione Pigna, dal rione Trevi; prenderò quindi in considerazione solo il lato destro della strada. La seconda traversa a destra che incontro è Via Lata dove mi affaccio per vedere e fotografare la famosa fontanella del Facchino, la più giovane delle statue parlanti, realizzata da Jacopo Del Conte, nel 1580, ma il Vanvitelli, nel 1751, la attribuisce addirittura a Michelangelo. Raffigura un “acquarolo”, cioè colui che prendeva acqua dalle fontane pubbliche per rivenderla porta a porta, prima che, alla fine del ‘500, i pontefici ripristinassero gli acquedotti o, più probabilmente, un portatore di vino. La fontana era corredata da una epigrafe, oggi scomparsa, che così recitava: “Ad Abbondio Rizio, coronato sul pubblico marciapiede, espertissimo nel legale e soprallegare fardelli, il quale portò quanti pesi volle, visse quanto potè, ma un giorno, mentre portava un barile di vino in spalla e uno in corpo, morì senza volerlo”. Ad angolo fra la via Lata e via del Corso si trova la chiesa di Santa Maria in via Lata, è aperta solo nel tardo pomeriggio e il sabato mattina, per cui non ho ancora mai avuto modo di visitarla. Il nome le deriva dall’antica denominazione della via del Corso, (ora riservato solo alla stradina laterale con cui fa angolo), che costituiva la parte iniziale della via Flaminia, che prendeva tale nome una volta oltrepassata la piazza del Popolo. Probabilmente fu fondata durante la fine del VII secolo, sotto il pontificato di Sergio I, come diaconia, ossia un centro di assistenza spirituale per la popolazione, nella quale la tradizione vuole siano stati ospitati anche Pietro e Paolo. La preesistente struttura era del V secolo, forse un porticus, trasformato poi in magazzino nella tarda età imperiale. Demolita nel 1491, fu oggetto di numerosi interventi che si protrassero per tutto il Cinquecento. Fu poi ampliata nel 1639 grazie alla donazione di una porzione dell’attiguo palazzo Doria Pamphilj, da parte di Olimpia Aldobrandini (sposata con Camillo Pamphilj, figlio della più “famosa” Donna Olimpia e nipote di papa Innocenzo X) e assunse l’aspetto attuale con il rinnovo che si ebbe in occasione dell’anno santo del 1650. La facciata barocca è opera di Pietro da Cortona, che realizza un maestoso portico con colonne corinzie, sovrastato da un’elegante loggia con serliana. Il campanile realizzato alla fine del 1500 è opera di Martino Longhi il Vecchio. Internamente è divisa in tre navate, da dodici colonne rosse di diaspro siciliano ed è riccamente decorata con stucchi, marmi e pitture. Da una porta nell’atrio si accede ai sotterranei della basilica, scoperti durante i lavori di scavo per le fondamenta e ripristinati sempre ad opera di Pietro da Cortona, costituiti dai sei ambienti coperti a botte di epoca romana e dalle vestigia dell’antica chiesa. Come abbiamo detto, adiacente alla Chiesa è il Palazzo Doria Pamphilj, che ospita la straordinaria galleria dove si conserva la collezione privata della famiglia Doria Pamphilj. Nei quattro bracci che affacciano sul cortile interno, con le sue splendide arcate rinascimentali, si possono contemplare le opere di grandi maestri, come Tiziano, Raffaello, Caravaggio, Brueghel il Vecchio, Velázquez e Bernini. L’ultimo palazzo su via del Corso (sempre lato destro della strada, visto che il sinistro appartiene al rione Trevi) ad angolo con Piazza Venezia, troviamo il Palazzo Bonaparte. Il progetto originale risale alla metà del Seicento, quando l’architetto Giovanni Antonio De Rossi lo realizza su incarico dei marchesi Giuseppe e Benedetto d’Aste. La proprietà successivamente passa al nobile fiorentino Folco Rinucci, per essere infine acquistata nel 1818 da Maria Letizia Ramolino Bonaparte, la madre di Napoleone, che vi abita fino alla sua morte, avvenuta nel 1836. Al suo interno ci sono sculture di Antonio Canova, affreschi, decori, stucchi e camini di gusto neoclassico. Molto caratteristico è il balconcino ad angolo (con molta probabilità aggiunto in un secondo momento) dal quale la madre di Napoleone amava osservare tutto ciò che accadeva in strada, e quando, a causa della sua cecità, questo non le fu più possibile, era la sua governante a raccontarle tutto. Attualmente è proprietà dell’Assitalia, e grazie ad un accurato intervento di restauro, è stato trasformato in polo museale ed ha aperto, per la prima volta, al pubblico con una mostra sugli impressionisti segreti. Siamo quindi tornati al nostro punto di partenza e il nostro itinerario finisce qu
Basilica San Marco - Facciata e campanile |
Basilica San Marco - Soffitto quattrocentesco |
Basilica San Marco - Portale con Bassorilievo San Marco Evangelista |
Il pozzo di San Marco |
Lapide Vannozza Cattanei |
Basilica di San Marco - Interno |
Basilica di San Marco - Altare maggiore |
Antonio Canova - Monumento funebre a Leonardo Pesaro |
Piazza Venezia con il Palazzo Venezia e sullo sfondo il Palazzetto Venezia, prima di essere smontato e ricostruito dove lo vediamo oggi |
Palazzetto Venezia nell'attuale posizione |
Il Viridarium di Palazzetto Venezia |
Giardino interno Palazzo Venezia sede Museo Nazionale |
Museo Nazionale di Palazzo Venezia - Sala delle fatiche di Ercole |
Museo Nazionale di Palazzo Venezia - Sala del Mappamondo |
Museo Nazionale di Palazzo Venezia - Sale del Concistoro e Regia |
Chiesa del Gesù |
Chiesa del Gesù - Interno |
Chiesa del Gesù - Cappella di Sant'Ignazio |
Chiesa del Gesù - "Trionfo del nome di Gesù" di Giovanni Battista Gaulli |
Chiesa del Gesù - La Cappella della Madonna della strada |
Le Stanze di Sant'Ignazio |
Palazzo Petroni Cenci Bolognetti |
Palazzo Altieri |
Le grandi dimensioni del palazzo fecero sì che durante gli anni ebbe diversi usi: da sede commerciale a sede delle medie inferiori del Liceo Visconti; molto spesso utilizzato come set cinematografico ha ospitato per oltre venti anni, in un appartamento all’ultimo piano, anche la grande Anna Magnani. Ora è principalmente occupato da società bancarie e da qualche proprietario privato. Vi si conserva anche l’Archivio di Famiglia nella “Librària Altieri”. Continuando su via del Plebiscito incontriamo la bella facciata di Palazzo Grazioli, originariamente costruito da Giacomo della Porta nel Cinquecento per la famiglia Gottifredi, rinnovato nella seconda metà del Seicento dall’architetto Camillo Arcucci, che diede all’edificio un’impronta barocca. Agli inizi dell'800 il palazzo fu residenza dell'Ambasciatore d'Austria e poi dell'Infanta di Spagna, nonché duchessa di Lucca, Maria Luisa di Borbone-Spagna che vi morì nel 1824. Venne in seguito acquistato dai Grazioli, che ne sono tutt’ora proprietari, una famiglia che arrivò a Roma verso la fine del Settecento, dalla Valtellina. Affittarono e poi acquistarono alcuni molini sul Tevere. Vincenzo Grazioli iniziò così la sua attività di fornaio, che ben presto lo portò ad acquistare dei terreni fra i quali la tenuta di Castelporziano (ora di proprietà del Presidente della Repubblica). L’ascesa sociale fu rapida, entrando a far parte della nobiltà romana e arrivando addirittura ad essere la terza famiglia, nella graduatoria di rendita annua. Per diversi anni, il Palazzo è stato la residenza romana dell’ex Capo del Governo Silvio Berlusconi. Angolo con il palazzo c’è via della Gatta, nella quale svolto. Il nome è dato da una gatta in marmo posta sul cornicione del palazzo Grazioli, dove questo fa angolo con la piazza omonima. Faceva parte del vicino "Tempio di Iside", quindi considerata sacra per la religione egizia. Una tradizione racconta che fu situata in questo luogo per ricordare l’evento di una gatta che con il suo miagolio incessante, riuscì a richiamare l’attenzione di una madre verso il suo bambino, in procinto di cadere dal cornicione del palazzo. Un’altra leggenda, invece, racconta che riuscendo a capire dove lo sguardo della gatta è rivolto si potrebbe trovare un tesoro nascosto, cosa che finora nessuno è riuscito ad individuare. Superata Piazza Grazioli, arrivo in Piazza del Collegio Romano. La piazza prende il nome dal grande palazzo che vi prospetta, ora sede di un liceo classico, il primo a Roma, dedicato a Ennio Quirino Visconti. Ma un tempo questo grande edificio, costruito nel 1582-83, per volere di papa Gregorio XIII Boncompagni, era la prestigiosa sede scolastica della Compagnia del Gesù, fondata da S. Ignazio da Loyola, che grazie alla fama dei docenti gesuiti che vi insegnavano, ebbe fra i propri allievi, i figli delle più importanti e nobili famiglie della città. Si è creduto per molto tempo che fosse stato costruito da Bartolomeo Ammannati, ma recentemente si propende più per l’ipotesi che sia opera di padre Giuseppe Valeriani, architetto gesuita. Nello stesso complesso è inglobata anche la chiesa di S. Ignazio e qui ebbero sede anche importanti istituzioni culturali, come l’ex Museo Kircheriano, il Museo Preistorico-Etnografico Luigi Pigorini, prima di essere trasferito all’EUR e la Biblioteca dei Gesuiti, nonché l’Osservatorio Astronomico, poi trasferito a Monte Mario. La facciata è maestosa, divisa in tre corpi di cui quello centrale, più alto, è coronato da una balaustra sulla quale s’innalzano ai lati due edicole per le meridiane e al centro un campanile con cupolino, il cui suono della campana segnava tutti i giorni l’inizio delle lezioni. Il grande orologio centrale era quello che un tempo forniva l’ora esatta a tutti gli orologi di Roma. Sotto l’orologio il grande stemma di Gregorio XIII e la lapide commemorativa della fondazione del collegio. Sulla destra si eleva una torre costruita nel 1787 per le osservazioni astronomiche. I due grandi portali centrali sono adorni dei draghi araldici della famiglia Boncompagni e quello di destra è ora murato. Oggi il palazzo ospita la sede del Liceo Classico Ennio Quirino Visconti e il Ministero per i Beni e le Attività Culturali. A sinistra del grande edificio, prendiamo via di Sant’Ignazio diretti verso l’omonima chiesa, ma prima di arrivare, attraversiamo la deliziosa piazza di San Macuto, dal nome della bella chiesetta, dalla caratteristica facciata azzurra, incastonata fra il Palazzo Gabrielli (ex sede del Seminario Romano) e uno dei palazzi rococò di Piazza Sant’Ignazio, dove sono quindi arrivata. La piazza è dominata dalla maestosa facciata della chiesa omonima, alla quale fanno da contorno i meravigliosi palazzi settecenteschi di Filippo Raguzzini, soprannominati i “bureau” per la loro particolare forma. La tradizione vuole che gli edifici siano stati costruiti appositamente in modo così particolare per attrarre l'attenzione del viandante e distoglierla dalla facciata esageratamente alta della chiesa. La chiesa è dedicata al fondatore dell’ordine dei gesuiti, Sant’Ignazio da Loyola, costruita in sostituzione della chiesa S. Maria Annunziata, (divenuta troppo piccola per poter ospitare gli oltre 2000 studenti che frequentavano l’adiacente collegio nel quale la chiesa stessa era inserita), e si presenta in stile barocco. Fu così che il cardinale Ludovisi (divenuto poi papa Gregorio XV), nel 1622, finanziò la costruzione di un edificio più grande. Tra i vari progetti si scelse quello del professore del Collegio, Fra’ Orazio Grassi, architetto, matematico e astronomo, che si avvalse dei disegni di Carlo Maderno, Paolo Martucelli e Orazio Torriani e nel 1626 iniziarono i lavori. La facciata, probabilmente opera di Alessandro Algardi, è a due ordini: in quello inferiore ci sono le tre aperture, scandite da colonne e paraste binate, che consentono l’accesso nella Chiesa, le cui porte sono sormontate da altrettanti timpani curvilinei con festoni, ai lati del portone centrale due nicchie vuote; nell’ordine superiore, ugualmente scandito da colonne e paraste, si apre al centro un’ampia finestra, due nicchie vuote e ampie volute laterali. Chiude la facciata un timpano con la croce, con sei candelabri e lo stemma Ludovisi. L’interno della chiesa ha pianta a croce latina, con una lunga navata e sei cappelle laterali, ed è caratterizzato da marmi, stucchi e dorature che creano una suggestione particolare, soprattutto quando, alzando gli occhi al cielo, si ammira il fantastico affresco con la “Gloria di Sant’Ignazio”. Per farlo al meglio, però, bisogna cercare proprio al centro della navata centrale, un cerchio giallo sul pavimento di marmo. È questo il punto migliore per guardare in alto e lasciarsi catturare da una straordinaria illusione ottica. L’affresco realizzato da Padre Andrea Pozzo, alla fine del 1600, raffigura al centro Sant’Ignazio che ascende al cielo sotto lo sguardo di Cristo crocefisso e quattro figure femminili che simboleggiano i continenti a quel tempo conosciuti: Europa, Asia, Africa e America. Il significato sta ad indicare l’epopea dei Gesuiti nell’evangelizzazione dei quattro continenti. Le meraviglie non sono però ancora finite. Continuando nella navata centrale, dirigendosi verso l’altare, troviamo un altro tondo dorato nel pavimento. Alzando gli occhi da quel preciso punto, si ha la visione di una splendida cupola di 13 metri di diametro. Ma appena ci spostiamo un po’, tutto si distorce e ci rendiamo conto, che la cupola non è altro che una tela dipinta, altro capolavoro prospettico di Padre Andrea Pozzo. A questa chiesa è legata una tradizione dell’Ottocento, quando dall’attiguo palazzo del Collegio Romano, che ospitava l’Osservatorio Astronomico, si determinava l’ora esatta per lo sparo del cannone del Gianicolo (all’epoca situato ancora a Castel S. Angelo e poi a Monte Mario). Alle 11. 56 veniva innalzata, sul timpano della chiesa, un'asta di pino lunga 6 metri lungo la quale una gran palla di vimini dipinta di nero veniva fatta scendere alle 12.00 in punto. Uscita dalla chiesa vado a destra lungo la via del Caravita, per incontrare poco dopo, sulla mia destra, il portale della Chiesa di San Francesco Saverio, meglio conosciuta come Oratorio del Caravita, nome che deriva dalla corruzione popolare del cognome di Pietro Gravita, il padre gesuita che si occupò della sua costruzione, nel 1631 con il supporto finanziario dei fedeli e di famiglie nobiliari che abitavano nei pressi del Pantheon, inaugurando il primo oratorio notturno a Roma. Sorge dove un tempo era l’antichissima chiesa di “S. Nicola de forbitoribus” del 1192, nome che si riferisce alla Confraternita dei Forbiciai, venditori ambulanti di forbici, coltelli e altri oggetti da taglio; ma non è chiaro se questa attribuzione è dovuta al fatto che la chiesa era affidata alla loro Università o se dipendeva soltanto dalla motivazione che gli artigiani avevano in questa zona le loro botteghe. Nel 1405 la chiesa subì gravi danni a causa di un fulmine. La chiesa fu riedificata nel 1551, dopo che papa Giulio III la concesse ai Camaldolesi che la dedicarono a S. Antonio. Quasi un secolo dopo, nel 1631, la Compagnia del Gesù che già possedeva l’attiguo Collegio Romano e la Chiesa di Sant’Ignazio, acquistò dai Camaldolesi chiesa e monastero, che vennero demoliti per la costruzione dell’oratorio, che serviva come sala riunioni della Congregazione della Ss. Comunione, che fino a quel momento si riuniva all’interno del Collegio Romano. I membri della Congregazione erano soliti fustigarsi, come forma di espiazione per i propri peccati. Ma il fattore buio comportava la fustigazione delle spalle del vicino di panca e di solito questo provocava non poche risse, motivo per il quale questa pratica venne in seguito soppressa. Uscivano poi in processione per le vie di Roma, allo scopo di diffondere la pratica della Santa Comunione, recitando i salmi, avvolti in grandi mantelli neri e per questo venivano chiamati i “Mantelloni”. La facciata è molto semplice che passa quasi inosservata, a due ordini: in quello inferiore si apre il portale d’entrata sormontato da timpano triangolare, tra due finestre incorniciate, sul superiore si aprono tre finestre della Casa della comunità gesuita. Entrando troviamo un atrio, affrescato da Lazzaro Baldi con “Storie di San Francesco Saverio”, che precede l’interno a navata unica con abside ad emiciclo e deambulatorio sul retro. La volta presenta un affresco del XIX secolo, mentre sull’altare una pala di Sebastiano Conca raffigura la “Ss. Trinità e S. Francesco Saverio”, mentre la Sacra immagine della “Mater Pietatis” è attribuita a Baldassarre Peruzzi. Degni di menzione i seicenteschi banchi scolpiti in noce lungo le pareti e le due acquasantiere, dove il granchio con il crocifisso bronzeo nella chela allude simbolicamente a S.Francesco Saverio. Wolfgang Amadeus Mozart si esibì all'Oratorio Caravita nel 1770, dove, ancora adolescente, carpì l'attenzione della corte di Roma. Oggi è usata come sala per concerti di musica classica. L’oratorio è unito al Collegio Romano tramite l’arco che è situato nella via del Collegio Romano, realizzato nel 1716 e conosciuto anche come “Arco dei Gesuiti”. Pochi passi a destra, dopo l’uscita dall’oratorio, e mi trovo in via del Corso, dove giro nuovamente a destra, tornando verso piazza Venezia. Via del Corso divide il rione Pigna, dal rione Trevi; prenderò quindi in considerazione solo il lato destro della strada. La seconda traversa a destra che incontro è Via Lata dove mi affaccio per vedere e fotografare la famosa fontanella del Facchino, la più giovane delle statue parlanti, realizzata da Jacopo Del Conte, nel 1580, ma il Vanvitelli, nel 1751, la attribuisce addirittura a Michelangelo. Raffigura un “acquarolo”, cioè colui che prendeva acqua dalle fontane pubbliche per rivenderla porta a porta, prima che, alla fine del ‘500, i pontefici ripristinassero gli acquedotti o, più probabilmente, un portatore di vino. La fontana era corredata da una epigrafe, oggi scomparsa, che così recitava: “Ad Abbondio Rizio, coronato sul pubblico marciapiede, espertissimo nel legale e soprallegare fardelli, il quale portò quanti pesi volle, visse quanto potè, ma un giorno, mentre portava un barile di vino in spalla e uno in corpo, morì senza volerlo”. Ad angolo fra la via Lata e via del Corso si trova la chiesa di Santa Maria in via Lata, è aperta solo nel tardo pomeriggio e il sabato mattina, per cui non ho ancora mai avuto modo di visitarla. Il nome le deriva dall’antica denominazione della via del Corso, (ora riservato solo alla stradina laterale con cui fa angolo), che costituiva la parte iniziale della via Flaminia, che prendeva tale nome una volta oltrepassata la piazza del Popolo. Probabilmente fu fondata durante la fine del VII secolo, sotto il pontificato di Sergio I, come diaconia, ossia un centro di assistenza spirituale per la popolazione, nella quale la tradizione vuole siano stati ospitati anche Pietro e Paolo. La preesistente struttura era del V secolo, forse un porticus, trasformato poi in magazzino nella tarda età imperiale. Demolita nel 1491, fu oggetto di numerosi interventi che si protrassero per tutto il Cinquecento. Fu poi ampliata nel 1639 grazie alla donazione di una porzione dell’attiguo palazzo Doria Pamphilj, da parte di Olimpia Aldobrandini (sposata con Camillo Pamphilj, figlio della più “famosa” Donna Olimpia e nipote di papa Innocenzo X) e assunse l’aspetto attuale con il rinnovo che si ebbe in occasione dell’anno santo del 1650. La facciata barocca è opera di Pietro da Cortona, che realizza un maestoso portico con colonne corinzie, sovrastato da un’elegante loggia con serliana. Il campanile realizzato alla fine del 1500 è opera di Martino Longhi il Vecchio. Internamente è divisa in tre navate, da dodici colonne rosse di diaspro siciliano ed è riccamente decorata con stucchi, marmi e pitture. Da una porta nell’atrio si accede ai sotterranei della basilica, scoperti durante i lavori di scavo per le fondamenta e ripristinati sempre ad opera di Pietro da Cortona, costituiti dai sei ambienti coperti a botte di epoca romana e dalle vestigia dell’antica chiesa. Come abbiamo detto, adiacente alla Chiesa è il Palazzo Doria Pamphilj, che ospita la straordinaria galleria dove si conserva la collezione privata della famiglia Doria Pamphilj. Nei quattro bracci che affacciano sul cortile interno, con le sue splendide arcate rinascimentali, si possono contemplare le opere di grandi maestri, come Tiziano, Raffaello, Caravaggio, Brueghel il Vecchio, Velázquez e Bernini. L’ultimo palazzo su via del Corso (sempre lato destro della strada, visto che il sinistro appartiene al rione Trevi) ad angolo con Piazza Venezia, troviamo il Palazzo Bonaparte. Il progetto originale risale alla metà del Seicento, quando l’architetto Giovanni Antonio De Rossi lo realizza su incarico dei marchesi Giuseppe e Benedetto d’Aste. La proprietà successivamente passa al nobile fiorentino Folco Rinucci, per essere infine acquistata nel 1818 da Maria Letizia Ramolino Bonaparte, la madre di Napoleone, che vi abita fino alla sua morte, avvenuta nel 1836. Al suo interno ci sono sculture di Antonio Canova, affreschi, decori, stucchi e camini di gusto neoclassico. Molto caratteristico è il balconcino ad angolo (con molta probabilità aggiunto in un secondo momento) dal quale la madre di Napoleone amava osservare tutto ciò che accadeva in strada, e quando, a causa della sua cecità, questo non le fu più possibile, era la sua governante a raccontarle tutto. Attualmente è proprietà dell’Assitalia, e grazie ad un accurato intervento di restauro, è stato trasformato in polo museale ed ha aperto, per la prima volta, al pubblico con una mostra sugli impressionisti segreti. Siamo quindi tornati al nostro punto di partenza e il nostro itinerario finisce qu