12° ITINERARIO - RIONE VII REGOLA (SECONDA PARTE)

marzo 02, 2023

Totale percorso km. 1.5 questa la mappa



Questa seconda parte dell’itinerario alla scoperta del Rione Regola, inizia dalla piazza che è considerata il cuore del rione stesso: piazza Farnese, dal nome del maestoso Palazzo che vi fu costruito.
I lavori iniziarono nel 1514 da Antonio da Sangallo il Giovane, per il cardinale Alessandro Farnese, (diventato poi papa con il nome di Paolo III) e proseguirono, alla morte dell’architetto, da Michelangelo, che realizzò anche lo splendido cornicione aggettante. A questi seguirono poi il Vignola e infine Giacomo della Porta che ultimò, soprattutto, la parte posteriore. Fino alla prima metà del Cinquecento era chiamata piazza del Duca, dal Duca di Parma, Pier Luigi Farnese e venne chiamata anche "piazza di Napoli" dai successivi proprietari del palazzo, i Borbone di Napoli. Nella piazza sono collocate due fontane gemelle, in cui l'acqua zampilla da gigli in marmo, simbolo della famiglia Farnese, ricavate da due antiche vasche provenienti dalle Terme di Caracalla. A destra, guardando Palazzo Farnese, troviamo la chiesa di Santa Brigida, sorta sul luogo dove suor Brigida gestiva un ospizio per gli svedesi e dove morì nel 1373. La chiesa, rifatta nel 1513 sotto Paolo III, fu nuovamente restaurata sotto il papato di Clemente XI (1700-1721) assumendo la forma attuale. La facciata del 1705 presenta sulla sommità due state di Santa Brigida e Santa Caterina. Attualmente è affidata alle monache scandinave.
Nella piazza, di fronte a Palazzo Farnese, si trova il palazzo Del Gallo di Roccagiovine che, causa la maestosità del ben più noto edificio, passa troppo spesso inosservato. Ed è un vero peccato, perché custodisce nel suo cortile interno un magnifico scalone, forse il più bello della Roma settecentesca, opera di Alessandro Specchi, il famoso architetto della scalinata di Trinità dei Monti.
Il palazzo, invece, fu costruito da Baldassarre Peruzzi, nel 1520. Da Piazza Farnese, percorrendo Vicolo de’ Venti, arrivo in Piazza della Quercia, ma anche in piazza di Capo di Ferro, dal momento che queste due piazze, una volta separate dal palazzetto che la famiglia Venti possedeva fino al 1940, sono ora di fatto unite, dopo la demolizione del palazzo, voluta per dare maggiore spazio e luce a Palazzo Spada.
Piazza della Quercia è un angolino molto caratteristico che prende il suo nome non dalla pianta, al centro della piazza, come si potrebbe pensare, ma dalla chiesa dedicata a Santa Maria della Quercia, che venne concessa ad una colonia di Viterbesi, nel 1507, da papa Giulio II e così dedicata in onore del famoso Santuario di Viterbo. La pianta, invece, che in realtà era un leccio, venne posta nel luogo lasciato libero dopo la demolizione di palazzo Venti, nel 1940. Seccatasi, venne sostituita con un’altra pianta nel 2016, ma anche quest’ultima, dopo appena un anno, è morta a causa di un fungo.  Attualmente una nuova quercia è stata piantata. La chiesa venne, nel 1532, affidata da Clemente VII, alla confraternita dei Macellai, che ha sede nell'attiguo palazzo e venne ricostruita, nel 1728, dall'architetto Filippo Raguzzini, che realizzò la caratteristica facciata a due piani, convessa ad un solo ordine, in stile rococò. L'interno è a croce greca, con cupola e tre cappelle: sull'altare maggiore si trova l'immagine della "Madonna della Quercia", mentre la volta è affrescata con il “Sacrificio di Isacco”, di Sebastiano Conca. Di fronte alla chiesa, ad angolo con l’attigua piazza Capo di Ferro, è palazzo Ossoli, di Baldassarre Peruzzi, realizzato tra il 1520 e il 1527, con un delizioso cortile, che purtroppo non mi è stato permesso di fotografare. Sul lato del palazzo che affaccia su piazza Capo di Ferro, è situata una fontana molto particolare.
In una nicchia un’erma femminile, dai cui seni fuoriescono due getti d’acqua, poggia su una testa di leone, dalla cui bocca l’acqua ricade in un sarcofago ovale; su questo sono posizionate due protomi leonine che versano, invece, l’acqua in una vasca di raccolta a livello stradale. Due colonnine collegate da una ringhiera formano una protezione intorno alla fontana. Ma la presenza importante di questa piazza, che con la sua imponenza e la particolarità della sua facciata, mette in secondo piano tutto il resto, chiesa compresa, purtroppo, è Palazzo Spada.
Attualmente sede del Consiglio di Stato, fu costruito nella metà del Cinquecento, per i nobili Capodiferro e successivamente acquistato dal cardinale Bernardino Spada. La ristrutturazione del palazzo viene affidata al Borromini, che realizza qui la famosa galleria prospettica. Durante la mia visita alla Galleria Spada, ospitata nel palazzo, che conserva opere di Rubens, Dürer e Guido Reni ed altre di Andrea del Sarto, Lanfranco e   Guercino, alla fine del percorso guidato, abbiamo assistito ad una dimostrazione dell’illusione ottica, che si percepisce guardando la suddetta galleria. La galleria non si può percorrere, solo la guida può farlo. Sembra lunga una trentina di metri, con in fondo una statua di Marte gigantesca. In realtà la guida allontanandosi da noi e arrivando alla statua ci ha mostrato il trucco: le pareti convergono, il pavimento sale, il soffitto si inclina, gli intervalli fra i pilastri diminuiscono, i 42 riquadri del suolo rimpiccioliscono in prospettiva, le colonne doriche digradano d’altezza man mano che si allontanano (la prima è di 5,68 metri e l’ultima di appena 2,47 metri) e quando la nostra guida arriva alla statua in fondo, capiamo che questa non è alta più di 60 cm!
Un’altra particolarità del palazzo è la sua facciata ricca di decorazioni a stucco e statue realizzate da Giulio Mazzoni. All'interno di nicchie sono riconoscibili personaggi della Roma antica: Augusto, Cesare, Marcello, Numa, Romolo, Fabio Massimo, Gneo Pompeo e Traiano. Le nicchie sono sormontate da timpani triangolari sui quali si ripete l’emblema dei Capodiferro, un cane accanto ad una colonna ardente e il motto “Utroq(ue) tempore” cioè “in ogni tempo”. Al centro il grande stemma degli Spada: le tre spade in banda e tre gigli in alto.  Anche il cortile interno è riccamente decorato come la facciata, qui le statue, però, sono coppie di divinità unite nella leggenda, come Ercole ed Onfale, Venere e Marte, Giove e Giunone, Anfitrite e Nettuno, Minerva e Mercurio, Proserpina e Plutone.
Costeggiando la chiesa prendo via dei Balestrari, dal nome dei fabbricanti di balestre. Sull'edificio a sinistra, appartenente alla Confraternita dei Macellai, si trovano due immagini a forma di medaglione ovale della "Madonna della Quercia", che avevo notato anche nella facciata principale sulla piazzetta accanto alla chiesa. Alla fine della strada mi colpisce una grande targa marmorea che recita (in latino) così: "O terra di Marte, che fino a poco fa eri fradicia e puzzolente di sudicio fango e piena di deforme incuria, ora, sotto il principato di Sisto (IV) ti vai liberando di questo indegno aspetto ed ogni cosa appare ammirabile nell'elegante luogo. Degne lodi sono dovute a Sisto (IV), datore di salute. O quanto Roma è debitrice al sommo pastore. - Via Florea - Battista Arcioni e Ludovico Margani Maestri di Strada Nell'Anno di Grazia (o della Salvezza) 1483".
Si tratta di una lapide, a ricordo della bonifica fatta in quel luogo da Sisto IV, che fu ritrovata durante dei lavori di restauro in un edificio in via del Pellegrino, il cui antico nome era proprio Via Florea e risulta essere fra le più antiche targhe stradali. Sono a Campo de Fiori, che appartiene al rione Parione e di cui abbiamo già parlato, ma dove mi piace sempre passare, anche se ha perso molto di quella “romanità” raccontata nell'omonimo film di Mario Bonnard. Costeggio la piazza fino in fondo per svoltare in vicolo del Gallo (ricordate Vannozza e la sua famosa locanda della Vacca, raccontata nell'itinerario Parione?) e tornare in piazza Farnese. L'attraverso e svolto a destra in via Monserrato. Proprio sul palazzo ad angolo con via dei Farnesi, alzo gli occhi e vedo una bella “Madonnella” sorretta da una testina alata in basso e ai lati da due puttini. L’immagine raffigura la Madonna che mostra il Bambino a San Filippo Neri, il quale è chinato nell'atto di baciargli il piedino. L’edificio su cui è appoggiata è palazzo Fioravanti, costruito nella prima metà del Cinquecento con un’architettura molto simile a quella del vicino palazzo Farnese: finestre inferriate al pianterreno, due piani, timpani triangolari e circolari alle finestre del primo piano, e cornicione a mensole e dentelli. Al secondo piano una loggia chiusa a tre archi.
Anche su via di Monserrato si affacciano diverse chiese. La prima che incontriamo sulla sinistra è San Girolamo della Carità, costruita sul luogo dove, secondo la tradizione, visse San Girolamo ospite nella casa di una nobile matrona romana, che finalmente conosco (metaforicamente!), avendone sempre festeggiato l’onomastico il 26 gennaio: Santa Paola.
La chiesa è a navata unica con soffitto ligneo a cassettoni. L’altare maggiore è di Carlo Rainaldi, mentre la pala d’altare è una copia del famoso dipinto del Dominichino, “la Comunione di S. Girolamo”, custodito ai Musei Vaticani.
Notevole, sulla sinistra dell’ingresso, (considerando però che si entra lateralmente dalla piazzetta di Santa Rita della Rota) è la Cappella Spada realizzata con la collaborazione di Francesco Borromini. Molto suggestivo lo splendido drappo di diaspro, che chiudendo l’ingresso alla cappella, simula una balaustra.
All'interno della cappella un dipinto quattrocentesco della “Madonna con Bambino”. Un’altra particolarità della chiesa è la Cappella Antamoro, in quanto unica opera romana del celebre architetto Filippo Juvarra, l’architetto di casa Savoia.  La bellissima statua marmorea di San Filippo Neri è, invece, di Pierre Legros. Il Santo visse nel convento accanto alla chiesa per circa trenta anni.
All'angolo con la chiesa si apre la piazzetta di Santa Caterina della Rota, che prende, per l’appunto, il nome da un’altra chiesa qui situata. Dedicata alla Santa nata ad Alessandria d’Egitto e martirizzata nel IV secolo dall'imperatore Massimiano, per non aver rinnegato la sua fede. Secondo la tradizione, si ordinò che venisse stritolata da una ruota dentata che miracolosamente si ruppe, da cui deriva l’appellativo “della Rota”; venne quindi decapitata. Anche se probabilmente, la dedica deriva da un errore dato dall'assonanza tra l’appellativo Catenaris con Caterina. In origine, infatti, la chiesa era intitolata a Santa Maria in Catenariis o Caterinaris, in riferimento alle catene che i prigionieri, ricoverati nell'annesso ospedale, offrivano come ex voto per essere stati liberati dalle prigioni saracene. Quando poi nel XVI secolo la chiesa fu riedificata ad opera di Ottaviano Mascherino, per un errore l'appellativo "Caterinaris" diventa "Caterina", che divenne così l'eponima della chiesa. La facciata è realizzata nel 1730 da Luigi Poletti e presenta un bel portale con timpano curvo spezzato sormontato da un finestrone con timpano curvo. Ai lati due coppie di paraste con capitelli corinzi e chiude il tutto un grande timpano triangolare.
L’interno è a navata unica, con tre cappelle per lato e molto suggestivo è il soffitto ligneo del Cinquecento. Apparteneva un tempo alla chiesa di San Francesco d’Assisi, a ponte Sisto, situata all'interno dell’ospizio dei Centopreti e che, per la costruzione dei muraglioni del Tevere, venne demolita. Nella chiesa è sepolto il celebre incisore Giuseppe Vasi, il cui monumento funebre si trova nella prima cappella a sinistra, mentre nella terza cappella a destra è conservata la scultura della “Vergine e S. Anna”, che un tempo veniva portata in processione per le donne in attesa di un figlio, la cosiddetta “Processione delle panze”. Uscita dalla chiesa, un caffè nello storico Bar Perù che, pur se recentemente acquistato da imprenditori orientali, non ha cambiato di molto la sua qualità e tradizione, mantenendo personale e cucina locali. Ci mangio spesso, è piacevole ed economico, in un contesto informale e con interni molto originali.
Continuando la passeggiata in via di Monserrato, incontriamo la chiesa di S. Tommaso da Canterbury e l’adiacente Collegio Inglese. Questo edificio, in passato, è stato un tribunale e un carcere: la Corte Savella. La famiglia dei Savelli esercitava qui, nel palazzo di loro proprietà, la giurisdizione criminale, come Marescialli di Santa Romana Chiesa. Da questo carcere, come ricorda una targa apposta sulla facciata, partirono verso il patibolo Beatrice Cenci e la matrigna Lucrezia, l’11 settembre 1599.
Dopo la costruzione delle Carceri Nuove, il palazzo fu venduto al Collegio Inglese e verso la fine del Seicento fu ristrutturato e anche in gran parte demolito, sia per esigenze urbanistiche, che per dotare il Collegio di una struttura più ampia. Ad angolo con la Corte Savella, faccio una breve deviazione in via di Montoro, ad ammirare il palazzo della nobile famiglia umbra dei Montoro, costruito nel Cinquecento.
Con una serie di matrimoni fra discendenti delle varie casate, il nome di famiglia divenne prima Chigi Montoro, poi Chigi Montoro Patrizi, infine Patrizi Naro Montoro. Lo stemma di quest’ultima famiglia presenta, infatti, tutti e quattro gli stemmi delle nobili famiglie dalle quali discende. La bellissima facciata con i suoi tre piani è caratterizzata dalla presenza, su ognuna delle diciannove finestre, dei diversi simboli degli stemmi nobiliari: al primo piano ci sono i sei monti dei Montoro e dei Chigi; al secondo piano le stelle a otto punte dei Chigi e al terzo, le corone di rovere dei Chigi Della Rovere. Conclude il cornicione a mensole e l’altana merlata che svetta sul lato destro del palazzo. A pianterreno, oltre il portone bugnato, si entra nel cortile principale, a pianta quadrata, dove su un lato è posta una fontana a forma di mascherone, che riversa l’acqua in un sarcofago di origine romana.
Torno su via di Monserrato e sono praticamente di fronte ad una curiosa costruzione, la cui architettura sembra nulla abbia a che vedere con il resto degli edifici circostanti: è la sede dell’Arciconfraternita di Santa Caterina da Siena e la particolarità dell’edificio sta nel fatto che riproduce esattamente la casa della Santa, in località Fontebranda (prov. di Siena), fatta ricostruire dall’Arciconfraternita stessa, come recita una lapide affissa sulla facciata: “LA VEN. CONFRATERNITA DI S. CATERINA DA SIENA NEL V SECOLO DALLA SUA ORIGINE RICOSTRUI’ A SOMIGLIANZA DELLA CASA DI S. CATERINA IN FONTEBRANDA – XXX APRILE MCMXII". È un edificio in laterizi scuri, a tre piani con terrazzi a loggia, i primi due ad archi e l’ultimo a riquadri. Sulla facciata un ovale raffigura Senio ed Ascanio con la lupa, simbolo di Siena.
Subito dopo entro nella Chiesa che dà il nome alla via: Santa Maria di Monserrato. La chiesa è costruita nel 1518, ma le sue origini risalgono al 1354, quando una nobildonna spagnola, fondò un piccolo ospedale per i suoi connazionali, al cui interno si trovava la cappella dedicata a S. Niccolò a Corte Savella, in seguito demolita per costruire S. Maria di Monserrato. Sulla facciata presenta un gruppo marmoreo della “Vergine col Bambino che sega il monte”, dal significato del nome “Monserrat”, e il bambino impugna una vera sega da falegname.
L’interno è a navata unica, con cappelle laterali ed un bel soffitto a volta molto lavorato. Nella prima cappella a destra sono sepolti, in un'unica urna, i due papi di casa Borgia: Callisto III e Alessandro VI. Sull'altare di questa cappella, una tavola ad olio, di Annibale Carracci, rappresenta il francescano andaluso San Diego d'Alcalá. Un’altra notevole opera è la statua di San Giacomo il Grande, Patrono di Spagna, di Jacopo Tatti detto il Sansovino, che si conserva nella terza cappella a sinistra.
Subito dopo la chiesa, stesso lato, troviamo il cinquecentesco palazzetto Mocari, che fu l’abitazione di una famosa cortigiana di nome Tina. Curiosa la scritta che ancora si legge sull'architrave: “TRAHIT SUA QUEMQUE VOLUPTAS”, ossia “Ognuno è mosso dal proprio piacere”, fatta incidere, a fine Ottocento, dal proprietario Lorenzo Mocari, criticato per la sua opera di ristrutturazione del palazzo; un modo gentile per dire “faccio come mi pare”. Davanti al palazzetto è, invece, palazzo Capponi Casali Dall'Olio Antonelli, anch'esso del Cinquecento, quando era proprietà dei Capponi. Passa poi ai Casali e ancora ai Dall'Olio che, nel 1840, lo fecero ricostruire dall'architetto Virginio Vespignani, incorporando un edificio attiguo. Molto particolari i tre portali con un elegante architrave, che si ripete anche nelle finestre del primo piano.  A fine Ottocento la proprietà passa agli Antonelli.
All'interno, dopo avere attraversato uno stretto androne, si giunge in un piccolo cortile con una bella fontana e una loggia, oggi murata, con colonne a capitello ionico. Le pareti della loggia erano decorate a graffito, in parte ancora visibili. Ai lati della fontana due cancelli immettono in un giardino, entrando nel quale è possibile vedere l’altro edificio inglobato con una bellissima scala aperta a logge. Tutto intorno rampicanti che ricoprono interamente le facciate che vi prospettano.
Via di Monserrato è un susseguirsi di palazzi aristocratici, abitati da monsignori, cardinali, banchieri e conti, infatti, subito dopo troviamo palazzo Rocci Pallavicini, costruito nei primi del Seicento, da Carlo Maderno, per la famiglia di Bernardino Rocci, maggiordomo di Clemente X, divenuto poi cardinale. Dopo un passaggio di proprietà ai Carmelitani Scalzi, il Palazzo passa ai Pallavicini.  Di fronte al palazzo, una casa piuttosto semplice, costruita per i Ricci. Bellissima l’edicola situata fra le finestre del primo piano conosciuta come la Madonna del Buon Consiglio.
E sono arrivata nella piacevolissima Piazza de’ Ricci, dal nome del palazzo che vi affaccia, caratterizzato dalla magnifica decorazione a fresco, del 1525, eseguita da Polidoro da Caravaggio e Maturino da Feltre. La decorazione è tutta all’insegna della storia romana, con Muzio Scevola e Porsenna al primo piano; il Tevere, Romolo e Remo con la lupa al secondo; Cesare e Marco Furio Camillo fra le finestre del primo piano, mentre fra quelle del secondo, le armi dei Farnesi, del Cardinale Ricci e di Miniato Ricci in quanto “valorosi” committenti.
Sulla piazza prospetta anche la facciata laterale di un altro palazzo nobiliare, Palazzo d’Aste, che ha il suo ingresso principale in via di Monserrato, attraverso un bel portale architravato ed ornato da protomi leonine. Anche qui un bel cortile interno con fontana, visitabile durante le aperture speciali dell’ADSI. Di fronte ancora un altro palazzo storico, della fine del Quattrocento, palazzo Podocatari, anche questo appartenente ad un cardinale: Ludovico Podocatari, medico di Innocenzo VIII e segretario personale di Alessandro VI. Il portale architravato è quattrocentesco, mentre sono del Seicento le finestre ai tre piani. Sono quasi arrivata al termine della strada e ancora due palazzi storici meritano di essere menzionati. Il primo è Palazzo Incoronati, dei primi del Cinquecento, costruito per la famiglia degli Incoronati de Planca, che dalla Spagna si stabilirono a Roma nel Quattrocento. La sua facciata è in laterizio, il portale è architravato e sormontato da un balconcino con balaustra sorretto da mensole.
A seguire, Palazzo Bossi, dei primi anni del Seicento, con un bellissimo portale barocco a cornice mistilinea e due volute sull'arco, il tutto sormontato da una piccola finestrella. Abbiamo detto che questa strada era caratterizzata da un’edilizia piuttosto aristocratica, con chiese e vari palazzi nobiliari, abitati da alti prelati e nobili, ma anche da famose cortigiane, come Tina di cui abbiamo accennato sopra, ma anche di Imperia, la cortigiana amata da Agostino Chigi, che si presume possa aver vissuto nella casa situata proprio all'angolo con via del Pellegrino (sul confine fra i rioni Regola e Parione) la cosiddetta Casa di Pietro Paolo della Zecca. Sembra che fosse una delle abitazioni più sontuose di Roma, tanto che un curioso aneddoto racconta che, un giorno, il nobile ambasciatore del Re di Spagna, faceva pazientemente anticamera nei sontuosi ambienti, in attesa di godere dei favori di Imperia. Avendo improvvisa e irrefrenabile voglia di sputare, si guardò intorno, cercando un posto dove poterlo fare. Ogni cosa, però, era superba, di finissima fattura: vasetti e piatti di ceramiche preziose, bacili d’argento finemente lavorati. Sconsolato l’ambasciatore finì per sputare in faccia al proprio valletto, che gli sembrò la cosa di gran lunga più indegna che ci fosse in quella stanza.
A questo punto, proseguo per un breve tratto via dei Banchi Vecchi per poi girare a sinistra in via delle Carceri e arrivo in via Giulia, proprio davanti alle Carceri Nuove che danno il nome alla via. Siamo al confine dei rioni Ponte e Regola. Dobbiamo tornare indietro, giro quindi a sinistra, passando davanti all'austero edificio, ora sede della Direzione Nazionale Antimafia del Ministero di Giustizia. Sono le Carceri Nuove, volute da papa Innocenzo X Pamphilj, nel 1655, che sostituirono le carceri, di cui abbiamo prima parlato, di Corte Savella.  Quelle sei finestre a pianterreno inferriate, incutono un certo timore, mentre il bel portale è sormontato dall’iscrizione che recita: "IUSTITIAE ET CLEMENTIAE SECURIORI AC MITIORI REORUM CUSTIODAE NOVUM CARCEREM INNOCENTIUS X PONT MAX POSUIT ANNO DOMINI MDCLV, ossia "Innocenzo X Pontefice Maximo eresse nell'anno del Signore 1655 il nuovo carcere, per la giustizia, per la clemenza e per una più sicura e umana custodia dei colpevoli". Restarono in funzione fino alla costruzione di Regina Coeli nel 1883. Poco più avanti nel lato opposto, la piccola chiesetta di S. Filippo Neri, detta S. Filippino, proprio per le sue piccole dimensioni. Sulla facciata si nota un ovale in stucco raffigurante “S. Filippo accolto in cielo dalla Madonna e dal Bambino”, mentre all'interno si conserva un prezioso reliquario d'argento, forse l’unico salvato, che il rettore della chiesa non volle consegnare, in seguito ad un ordine di Pio VI dato a tutte le chiese, per far fronte alla pesante imposizione del Trattato di Tolentino del 1797. Passato il vicolo della Moretta, sulla destra si trova l’edifico del Liceo Statale “Virgilio” che incorpora fra le sue mura anche la chiesa dello Spirito Santo dei Napoletani.
Appartiene dal 1574 alla Confraternita dello Spirito Santo dei Napoletani che la ricostruisce nel 1619 ad opera di Ottaviano Mascherino e terminata nel 1650 con la facciata di Cosimo Fanzago. Nuovamente trasformata nel Settecento su progetto di Carlo Fontana, nel 1853 i Borbone di Napoli eseguirono ulteriori rifacimenti, come quello della facciata ad opera dell’architetto Antonio Cipolla. È sempre chiusa, tranne la domenica e i festivi per le celebrazioni. Fu il luogo di sepoltura dell’ultimo re delle Due Sicilie, Francesco II, di sua moglie, regina Maria Sofia e della loro figlioletta, morta ad appena tre mesi di vita, fino al 1984, anno in cui le loro salme furono traslate nella chiesa di Santa Chiara a Napoli. Ad angolo con l’edificio scolastico, troviamo la via di Sant'Eligio dal nome della chiesa, costruita dall'Università degli Orefici ed Argentieri dal 1516 al 1583 su progetto, addirittura, di Raffaello, ma eseguita da Baldassarre Peruzzi e Aristotele da Sangallo. L’interno ha mantenuto quasi intatto il carattere cinquecentesco, la pianta è a croce greca, con un’abside sul fondo. Il pavimento è stato rifatto nel 1864, recuperando lastre di marmo bianco e bardiglio dalla chiesa di San Paolo fuori le mura, distrutta dall'incendio nel 1823. Pochi passi ancora su via Giulia e di nuovo un’altra chiesa: Santa Caterina da Siena.
Sorge sull'antico “Castrum Senese”, dove una compagnia di mercanti e banchieri senesi svolse la propria attività fin dal XV secolo. Nel 1526, fu edificata ad opera di Baldassarre Peruzzi e nuovamente ricostruita nel 1766 ad opera di Paolo Posi e, purtroppo, in questa nuova fase di ricostruzione, andarono perduti gli affreschi di Timoteo della Vite, apprendista di Raffaello. La sua facciata concava richiama molto l’architettura borrominiana e presenta due ordini con timpano triangolare. L’ordine inferiore presenta un alto portale fra due colonne, sormontato dallo stemma della città di Siena sul timpano curvo. Al secondo ordine invece vi è un finestrone centrale con ai lati due tondi marmorei nei quali sono raffigurati Senio e Aschio con la lupa. La leggenda racconta che erano i figli di Remo, scappati, con l’aiuto del dio Apollo, dallo zio Romolo che voleva ucciderli, portando con sé una lupa marmorea. Dopo alcuni giorni di cammino, giunsero nei pressi del torrente Tressa, dove fondarono un accampamento e in breve, per rango e capacità di utilizzare le armi, ne divennero i capi, fondando una città che dal nome di Senio si chiamerà Siena e che avrà come simbolo proprio la lupa. Il fratello Aschio, dopo aver aiutato il fratello a difendere la città, si spostò e fondò Asciano. L’interno è a navata unica, con cappelle laterali, presenta alcune opere settecentesche e sull'altare maggiore lo “Sposalizio Mistico di Santa Caterina” ad opera di Gaetano Lapis. La chiesa e gli ambienti annessi si estendono fino al lato opposto dell'isolato, su via di Monserrato, dove precedentemente abbiamo visto la facciata ad imitazione di quella della casa natale di santa Caterina a Siena in località Fontebranda. Prima di arrivare all'Arco Farnese, sulla destra, si trova Palazzo Falconieri, attualmente sede dell’Ambasciata d’Ungheria.
Costruito nel Cinquecento per i Cesi, passò poi agli Odescalchi, ai Farnese ed infine ad Orazio Falconieri, appartenente ad una nobile famiglia fiorentina. L’appartenenza alle varie famiglie è ben rappresentata dai simboli araldici che si trovano nella facciata: i gigli dei Farnese; leone, aquila e incensieri, per ricordare gli Odescalchi; mentre i Falconieri sono rappresentati dalle due curiose erme di falco e busto da donna, che guardano verso l’entrata del palazzo, probabile omaggio del Borromini alle donne della famiglia.
Orazio si era arricchito ottenendo dal papa l’appalto della tassa sul sale e l’importante posizione sociale acquisita lo spinse ad esigere un’adeguata dimora che colpisse i romani per la sua magnificenza. Fece così restaurare il palazzo a Francesco Borromini nel 1650, che ampliò l’edificio, aggiungendo tre finestre alle otto già esistenti e un secondo portale. Anche le due facciate sono diverse: quella che affaccia su via Giulia è la classica facciata degli eleganti e tradizionali palazzi rinascimentali, mentre quella verso il Tevere, un tempo circondata di vegetazione, ha l’aspetto della tipica villa suburbana. Meravigliosa l’altana, realizzata dal Borromini, per soddisfare il desiderio del Falconieri di realizzare una residenza senza pari, che superasse in altezza anche quella dei Farnese, che aveva di fronte. All'interno del palazzo, per oltre due secoli, si sono tenuti i ricevimenti più fastosi della Roma barocca.
Fra il palazzo e l’arco troviamo la macabra facciata della chiesa di S. Maria dell’Orazione e Morte. La chiesa sorge sopra il cimitero dell’omonima arciconfraternita, che nasce per dare degna sepoltura a quei cadaveri che, secoli fa, si rinvenivano in campagna, oppure che morivano annegati nel vicino Tevere. La Compagnia nata nel 1538, inizialmente aveva la sua sede nella chiesa di S. Lorenzo in Damaso, per passare poi nella chiesa di S. Caterina da Siena, in quella, oggi sconsacrata, di San Giovanni in Ayno e a Santa Caterina della Rota. Nel 1572 iniziano i lavori per la nuova chiesa alla quale viene annesso un oratorio e un vasto cimitero, che arrivava fino alle sponde del Tevere, demolito poi con la costruzione dei muraglioni. La chiesa fu ampliata e ristrutturata nel 1737 da Ferdinando Fuga. Sulla facciata, teschi alati che fungono da mensole; al centro del timpano curvo sopra il portone, una clessidra, simbolo della morte, a ricordarci che il tempo fugge e scritte varie come monito che prima o poi faremo tutti quella fine: "Hodie mihi, cras tibi", cioè "Oggi a me, domani a te". L’interno a pianta ovale conserva opera di Giovanni Lanfranco e Paolo Posi ma, da tempo chiusa per restauro, non è attualmente visitabile. Ora sono proprio sotto al caratteristico Arco Farnese o "dei Farnese", che, secondo il progetto di Michelangelo, avrebbe dovuto congiungere palazzo Farnese ed i suoi giardini alla villa Farnesina, sull'altra sponda del Tevere.
Ancora qualche passo e arrivo alla fontana del Mascherone. Costituita da un’antica vasca in porfido, probabilmente recuperata da antiche terme romane, venne adattata a fontana nel 1570 ma, per mancanza d’acqua, attivata solo nel 1610, quando Paolo V inaugurò l’Acquedotto dell’Acqua Paola. Molto bello il prospetto marmoreo sul quale è addossata la fontana, con le due grosse volute laterali sormontate da palle di travertino e spettacolare il grosso Mascherone, che dà il nome alla fontana, anch’esso di età romana, dalla cui bocca esce l’acqua, per finire in un sottostante catino semicircolare a forma di conchiglia. La fontana è appoggiata ad una parete leggermente curva, al centro della quale è posto un giglio araldico farnesiano.  In determinate feste dei Farnesi, dalla bocca del mascherone usciva vino anziché acqua e molto rinomata è la storia di quando gettò vino per tre giorni consecutivi, in onore del nobile Zondadari che, nel 1720, fu nominato Gran Maestro dell’Ordine di Malta. 
A questo punto prendendo la via che dalla fontana prende il nome, via del Mascerone, arriviamo nuovamente in Piazza Farnese da dove il nostro itinerario era iniziato e dove, ora, termina.








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